Corriere della Sera, 6 ottobre 2014
Gli inglesi prendono ordini dagli americani? Londra è una succursale di Washington? Ah, saperlo…
Recentemente mi sono imbattuto su Internet in un’affascinante teoria riguardante l’adesione della Gran Bretagna alla Comunità europea nel 1973. Secondo alcuni, Londra non aveva nessuna voglia d’entrare nel club Ue, ma sarebbe stata spinta (leggasi: obbligata) dagli Stati Uniti, che volevano un fedele alleato all’interno delle istituzioni di Bruxelles. La delegazione britannica al Parlamento europeo, insomma, sarebbe semplicemente un’ambasciata di Washington, i cui membri sarebbero pronti a riferire alla Casa Bianca tutti gli aggiornamenti degli affari europei in tempo reale. Questa pulsione americana sarebbe dovuta dal fatto che Washington non avrebbe avuto nessun altro di cui fidarsi dentro le istituzioni europee: né della Francia (antiamericanista e ancora con vocazioni imperiali), né della Germania (ancora aperte erano le ferite della guerra), né di Paesi irrilevanti come Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. E non avrebbe potuto dare fiducia neanche all’Italia, dato che i partiti del nostro Paese avevano fin da subito adottato la disastrosa abitudine di mandare a Bruxelles politici trombati o rimasti senza poltrona. D’altronde, fu proprio Winston Churchill a dire «L’Oceano Atlantico è più stretto della Manica», per sottolineare l’importanza della «special relationship» anglo-americana. Cosa ne pensa di questa ipotesi? Solo una stravagante idea complottista, oppure c’è della verità?
Davide Chicco
dave.noise@gmail.com
Caro Chicco,
la tesi riassunta nella sua lettera è la versione sbrigativa e caricaturale di una realtà più complicata. Nelle loro relazioni con la Gran Bretagna gli Stati Uniti non hanno mai esitato a imporre la loro egemonia. Quando Londra, con l’aiuto della Francia, volle riconquistare il canale di Suez, nazionalizzato dal governo egiziano, il presidente Eisenhower minacciò la crisi della sterlina alla Borsa di New York e costrinse gli inglesi a desistere. Quando il premier britannico Macmillan chiese al presidente Kennedy la fornitura di un sistema di lancio per il missile aria-terra Skybolt, il presidente Kennedy respinse la richiesta e offrì missili Polaris ai sommergibili britannici, purché utilizzati nell’ambito di una strategia che assegnava alla Gran Bretagna un ruolo subalterno e regionale. Quando il presidente Reagan decise di mandare i marines nell’isola di Grenada (un minuscolo membro del Commonwealth britannico nei Caraibi), il presidente Reagan informò la signora Thatcher soltanto dopo l’inizio delle operazioni. Se la questione sul tappeto era: «Chi comanda?», l’America non esitò mai a trattare i cugini d’oltremare con una certa sufficienza. Ma se il problema era: «Di chi possiamo maggiormente fidarci in Europa?», Washington non esitò mai a considerare gli inglesi come i migliori alleati possibili e a dividere con Londra segreti che non avrebbe mai confidato ad altri alleati europei.
Non è sorprendente quindi che la presenza della Gran Bretagna nella Comunità europea, fra gli anni Sessanta e Settanta, fosse per gli americani desiderabile. Londra avrebbe rallentato il processo d’integrazione ed evitato la formazione di una forza europea concorrenziale. Avrebbe favorito l’ingresso di nuovi soci e diluito in tal modo la originale compattezza del disegno europeo. Questo non significa che la Gran Bretagna abbia sempre difeso le posizioni degli Stati Uniti a Bruxelles e a Strasburgo. Ma su alcune questioni i suoi interessi e quelli americani erano convergenti. Quando si oppose all’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità europea, il generale de Gaulle disse che sarebbe stata il cavallo di Troia dell’America. È un giudizio che contiene ancora oggi una parte di verità.