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 2014  ottobre 06 Lunedì calendario

Renzi e la crisi di iscritti del Pd. Non esiste più la democrazia dei partiti ma solo quella del pubblico

Perché il Partito democratico è in crisi di iscritti – perché è crollato dal mezzo milione del 2013 ai centomila di oggi? In questi ultimi giorni il dibattito interno al Pd si è sviluppato, aspro e disordinato, intorno a questa domanda e ai suoi molti corollari: quali siano davvero le cifre, come debbano essere lette, se gli iscritti siano più importanti degli elettori. Dal punto di vista dell’analista, però, la questione è in larga misura mal posta. La vera domanda dovrebbe essere: come ha fatto finora il Pd a tenersi mezzo milione di iscritti?
Gli studiosi hanno constatato da tempo la crisi europea del partito di militanti – radicato sul territorio, legato a interessi sociali, dotato di una cultura robusta. Basti un nome solo fra tanti: Bernard Manin, che ha teorizzato il passaggio dalla democrazia dei partiti alla «democrazia del pubblico», incardinata sulla leadership e sui mass media, in un libro uscito quasi vent’anni fa e diventato ormai un classico. Pure se ci spostiamo dalla riflessione teorica al terreno empirico, poi, il quadro non cambia molto. La socialdemocrazia tedesca alla fine del 2013 aveva meno di mezzo milione di iscritti, ma alla metà degli Anni Novanta erano quasi il doppio, e da allora il calo è stato ininterrotto. 
Lo stesso è accaduto alla Cdu, l’Unione cristiano democratica. Il partito socialista francese l’anno scorso dichiarava 170 mila iscritti: meno 25 mila in ventiquattro mesi.
Al di là della Manica la musica non cambia: crollo alla metà o meno in vent’anni per laburisti, conservatori e liberali – con i conservatori a poco più di centomila tessere e i laburisti a meno di duecentomila. Sempre a due decenni fa risale la fragorosa crisi del partito politico anche nel nostro Paese. O c’è ancora chi pensa che quella di Tangentopoli sia stata una vicenda soltanto etica e giudiziaria, e non abbia segnato invece il collasso d’un modo di fare politica che si incardinava proprio sui partiti? «Il numero di iscritti ha ormai raggiunto un livello così basso da non poter più essere utilizzato come un indicatore significativo della capacità organizzativa di un partito»: così scrivevano nel 2012 tre noti politologi sull’«European Journal of Political Research».
È partendo da queste premesse che possiamo permetterci di rovesciare la domanda sulla crisi del Pd – chiedendoci non perché stia perdendo iscritti, ma, al contrario, come abbia fatto la tradizione organizzativa postcomunista a sopravvivere finora. E sempre queste premesse ci consentono di spiegare per quale ragione la sopravvivenza dell’apparato sia stata per la sinistra italiana croce e delizia: delizia perché le ha dato radici e sostanza; ma croce perché l’ha confinata in un recinto novecentesco ormai antiquato. E tanto più antiquato quanto più all’esterno imperversava felice il Cavaliere, pienamente a suo agio nell’Italia post-partitica generata da Mani Pulite. La crisi del Pd, se la leggiamo così, non data dal 2014 né dipende da Renzi. Ma in una prospettiva storica profonda data dal 1994, e in una meno profonda dalle elezioni del 2013: quando molti elettori progressisti hanno capito infine che il recinto non serviva più a difendersi da un Cavaliere ormai azzoppato, ma impediva di colonizzare le praterie che quello non riusciva più a presidiare, confinando la sinistra entro limiti vasti ma insufficienti.
Tutto bene, dunque – il crollo verticale degli iscritti democratici non segna altro che il riallinearsi della sinistra con la «seconda Repubblica» e dell’Italia con l’Europa? Al contrario: tutto male. La leadership berlusconiana e l’apparato postcomunista sono stati per vent’anni le due colonne portanti del sistema politico italiano. Sistema sgangherato e colonne disfunzionali, certo – ma pur sempre meglio della mucillagine politica che ci sarebbe toccata se Pds-Ds-Pd e Berlusconi non ci fossero stati. Lo sgretolarsi ormai palese delle due colonne ci fa adesso ripiombare nella mucillagine: fuor di metafora, ci spinge verso un esito neocentrista e neotrasformista, al di sopra del quale si erge (per il momento) l’erede dell’una colonna e dell’altra, la loro sintesi – Matteo Renzi.
Constatare che il modello novecentesco di partito è superato ovunque in Europa e non può che esserlo anche in Italia, insomma, non significa affatto augurarsi la completa liquefazione dei partiti. Ma soprattutto, a quella constatazione deve accompagnarsene un’altra: al di là delle Alpi l’indebolimento dei partiti è controbilanciato da istituzioni forti, capaci di garantire un minimo di rappresentatività e di efficienza. La fine della democrazia dei partiti può portare a un diverso modello di democrazia, non necessariamente peggiore del suo predecessore e adatto al ventunesimo secolo – ma occorre che le istituzioni siano disegnate per questo nuovo modello, perché a loro toccherà sopportarne il peso.
Europeizzatasi nella debolezza dei partiti, però, l’Italia non si è affatto europeizzata nella forza delle istituzioni. Ed è lecito restare assai scettici sulla possibilità che l’opera sia compiuta dal Parlamento attuale: la riforma del Senato non è sufficiente; quella elettorale è politicamente in alto mare; la revisione della forma di governo non è in agenda. Priva di partiti forti, priva di istituzioni forti, all’uscita dal ventesimo secolo l’Italia, invece che entrare nel ventunesimo, rischia così di risprofondare nel diciannovesimo. Avanti Savoia.