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 2014  ottobre 02 Giovedì calendario

Parigi si ribella all’austerity e sfida la Berlino e Bruxelles

Il meglio degli articoli di oggi sulla situazione del deficit francese

Il governo francese ha deciso di rinviare per l’ennesima volta – la terza in sei anni – l’obiettivo della riduzione del deficit al di sotto del mitico 3% del Pil.
 
«Basta chiedere sacrifici ai francesi» (il ministro delle Finanze Michel Sapin).
 
La Merkel ha subito replicato chiedendo al governo di Hollande di «fare i compiti a casa», che per lei significa attuare misure di austerità. Si è detta contraria a ulteriori slittamenti: «È importante che tutti rispettino i loro impegni e obblighi in modo credibile». Il commissario Ue per gli Affari economici, il finlandese Jyrki Katainen ha rafforzato il concetto facendo sapere che il ruolo della Commissione è di «verificare se i piani di bilancio sono in linea con gli impegni presi dagli Stati» [Caizzi, Cds].
 
La Francia prevede un deficit al 4,3% del Pil l’anno prossimo, con lo spostamento di due anni (al 2017) del target 3 per cento. L’impatto sul debito, che ha appena superato la soglia simbolica dei 2mila miliardi, è conseguente: al 95,3% del Pil quest’anno, salirà al 97,2% il prossimo e al 98% nel 2016 [Moussanet, S24].
 
Il problema è che i conti non tornano. Se infatti si prende in considerazione il deficit strutturale, depurato cioè dagli effetti congiunturali, il suo ritmo di diminuzione è deprimente: 2,5% del Pil l’anno scorso, 2,4% quest’anno e 2,2% il prossimo. Con la prospettiva dell’azzeramento spostata dal 2017 al 2019, ben oltre la fine del mandato di François Hollande. Sfortuna vuole (per Parigi) che sia ormai questo l’indicatore sul quale si concentra l’attenzione degli occhiuti esperti della Commissione. E per loro – come per i colleghi tedeschi – questi numeri significano semplicemente che la Francia non ha fatto, o almeno non abbastanza, sul fronte delle riforme strutturali in grado di liberare il suo potenziale di crescita [Moussanet, S24].
 
Nella sua sfida aperta alle regole europee Hollande spera forse di contare sulla solita complicità della Germania, che in passato ha già ripetutamente garantito ai francesi una tolleranza negata ad altri Paesi. Oppure veramente il presidente francese ha deciso di provocare apertamente Bruxelles e Berlino scommettendo che nessuno oserà sanzionare la seconda potenza d’Europa. Potrebbe essere un calcolo avventato. Parigi rischia di vedersi respinta la finanziaria, con l’obbligo di riscriverla. Oppure di dover pagare una multa salatissima, che può arrivare fino allo 0,2% del Pil [Sunseri, Lib].
 
Il Documento di economia e finanza (Def) approvato dal governo conferma quanto avevamo previsto: senza avere concordato nulla con Bruxelles, con la scusa di «un quadro economico molto deteriorato», l’Italia ha deciso di rinviare al 2017 il pareggio di bilancio, ignorando così un obbligo imposto dal Fiscal Compact. In cambio, come hanno promesso il premier Matteo Renzi e il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, il nostro Paese farà alcune riforme «pesanti», a cominciare da quella del lavoro, con l’abolizione dell’articolo 18. Per rendere meno traumatico l’addio (temporaneo) al Fiscal Compact, il ministro Padoan, parlando alla Camera, ha tenuto a ribadire che l’Italia rispetterà comunque il paletto di Maastricht del 3% nel rapporto deficit-pil [Oldani, Ita].

Se la valutazione di Bruxelles sarà positiva per la Francia, l’Italia può sperare che lo scostamento di qualche decimale nei conti pubblici venga accettato dall’Europa. Ma ora l’insubordinazione francese rende la nostra posizione più precaria. Se si deciderà di punire la Francia, sarà infatti più difficile mostrarsi flessibili con l’Italia. «Noi siamo diversi da loro – si è sfogato con i suoi il premier Matteo Renzi – se avessimo lasciato andare il deficit al 4,4% avremmo avuto altri venti miliardi a disposizione. Ma non lo faremo. Però temo che qualcuno cercherà comunque di metterci sul banco degli imputati con la Francia per via della mancata riduzione del debito». Un timore che dovrebbe spingerlo a premere ulteriormente sull’acceleratore delle riforme [Sunseri, Lib].
 
I conti italiani dunque sono decisamente migliori di quelli francesi. Con un’eccezione rilevante: il nostro debito pubblico è al 131,6% quest’anno, mentre quello francese viaggia intorno al 95 per cento. È questo il tallone d’Achille italiano che riduce i margini di manovra di Renzi con Bruxelles [Moussanet, S24].
 
È vero che se l’Italia avesse un costo del debito «francese» — al 2,5% e non al 5% del Pil — il suo deficit scenderebbe automaticamente a zero come in Germania. Ma questo è solo un periodo ipotetico dell’irrealtà. I fatti invece dicono che la Francia, paralizzata dalla crisi di legittimità della sua vecchia élite politica, non riesce a gestire i suoi conti eppure per ora non ne paga il prezzo: forse succederà tra tre o quattro anni quando, di questo passo, il debito transalpino sarà a livelli italiani. Ma se l’Italia seguisse le orme francesi sul deficit oggi, il suo debito pubblico salirebbe verso livelli greci e tutto il Paese ne pagherebbe il prezzo subito. Lo farebbe anche se il Fiscal Compact semplicemente non fosse mai stato scritto. Per questo né Roma né Parigi, con tutta la simpatia reciproca, hanno voglia di imitarsi a vicenda [Fubini, Rep]
 
L’annuncio che la Francia infrangerà le regole per la terza volta può darsi non aiuti l’Italia, poiché i casi dei due Paesi sono molto diversi. L’obbligo principale, quello del 3% di deficit, il nostro governo promette di rispettarlo. Ma la relazione presentata ieri al Parlamento spiega che fare onore agli altri due, deficit strutturale e debito, avrebbe effetti disastrosi. L’Italia ha migliorato i suoi bilanci, ma è rimasta inefficiente. Il presidente francese è riuscito nel capolavoro alla rovescia di giocarsi il consenso pur non avendo cambiato quasi nulla; giura che manterrà la settimana di 35 ore, unica al mondo. Se pur con questi torti ora Roma e Parigi riescono a vantare ragioni, la responsabilità è della Germania [Lepri, Sta].
 
«La Francia si è assunta le proprie responsabilità, ora spetta all’Europa fare altrettanto, a partire dai Paesi in surplus» (il ministro Sapin).
 
Le regole europee di stabilità sono importantissime, ma non possono diventare il feticcio contro il quale schiantare l’eurozona se non si trova un punto di mediazione tra chi non lo sopporta e chi lo difende. Ed è la storia stessa dell’euro a indicare metodo e contenuto dell’approccio che Bruxelles e le capitali nazionali possono seguire per affrontare il momento critico di un’area in semi-recessione e vicina alla deflazione. Tra il 2003 e il 2004, proprio Germania e Francia decisero di non rispettare gli impegni presi con il Trattato di Maastricht sui loro deficit: segno che possono esserci passaggi economici e politici che in casi eccezionali spingono in quella direzione. E ciò che valse per due capitali dai muscoli robusti non può non valere oggi per altri se ciò ha una giustificazione. Berlino, però, usò lo spazio di bilancio conquistato per rendere meno dolorose le riforme, soprattutto del mercato del lavoro, che in quegli anni realizzò; Parigi non fece alcuna riforma strutturale. [Taino, Cds].