La Stampa, 28 settembre 2014
Dormo sepolto nell’Altare della Patria
Agli Europei del XXI secolo manca una cultura della guerra. Questa imbecillità è, da un certo punto di vista, senza precedenti: mai nella nostra storia un intero popolo fu tanto sprovveduto, tanto «disarmato» di fronte all’eventualità del ricorso alle armi. Questa mancanza, più ancora di quella degli Eurobond, lascia l’Europa a uno stadio gassoso, un vapore acqueo perennemente in sospensione, una vaga astrazione sempre impedita a precipitare nella realtà. E così, anno dopo anno, telegiornale dopo telegiornale, ci scopriamo inetti, inconsistenti e puerili, ogniqualvolta il fantasma della guerra entra nelle nostre case dagli schermi dei televisori o dei computer, provenendo dall’Ucraina o dall’Iraq, travestito da autocrate russo o da macellaio sunnita.
Sorta dalle macerie della guerra, l’Europa odierna non l’ha ripudiata, l’ha rimossa, come si rimuove una pulsione inconfessabile o un trauma infantile. Ovviamente – ma è una di quelle ovvietà vastissime e ignorate – non ci siamo liberati dalla guerra, ci siamo esentati dal pensiero e dalla responsabilità di essa. Noi Europei d’Occidente, nati dopo la fine della Seconda guerra mondiale e dopo che fu terminata la ricostruzione, non siamo solo la «generazione Erasmus» – consolante rêverie pacifista di fratellanza tra i popoli – siamo anche la generazione Desert Storm, una generazione cresciuta con la guerra in televisione da consumarsi in tutta comodità e sicurezza come innocuo, edulcorato spettacolo di prima serata per famigliole felici. Una serata trascorsa a guardare la televisione è stato il Vietnam della mia generazione. Ciò ci ha consentito di delegare la nostra violenza bellica ad altri – eserciti professionali o organizzazioni criminali – di proiettarla ai confini oscuri della nostra coscienza e ai confini insanguinati del nostro mondo.
Cultura della guerra non significa culto della guerra. Significa, invece, dottrina delle condizioni alle quali un conflitto è necessario o giustificabile, dei modi leciti o illeciti di condurlo, degli scopi cui finalizzarlo, delle armi e strategie con cui vincerlo; significa un sistema di valori e di rappresentazioni del mondo che si assuma l’onere di una identità e il peso della realtà. Anche il pacifismo può essere una cultura della guerra, anzi, non può non esserlo, quando è solida impresa di civiltà e non mera retorica. Proprio l’Europa si candidò, anzi, nel secolo scorso, a essere la culla del pacifismo quale rivoluzionaria novità culturale e politica. Poi, però, ha preferito ripiegare sulla cattiva retorica, sul falso ideologico delle operazioni militari ribattezzate «peace keeping» e sull’ossimoro concettuale della «guerra umanitaria».
Collocato in questo quadro, il libro di Emilio Franzina, La storia (quasi vera) del milite ignoto (in uscita per Donzelli), ci appare come una lettura, mi si passi la metafora, militante. La Prima guerra mondiale fu, come è noto, sia il culmine del bellicismo europeo sia la scaturigine dell’antibellicismo. Proprio quella guerra, combattuta in principio da un numero di volontari che a noi appare oggi inconcepibile, produsse alla fine il germe del pacifismo quale novità senza precedenti per lo spirito europeo. Come scrisse Leslie Fiedler, fu a seguito di quell’immane carneficina che «l’uomo occidentale (…) per la prima volta dopo mille anni, ammetterà che non c’è niente al mondo per cui valga la pena di morire».
Il libro di Franzina, nel centenario dello scoppio di quel conflitto, si segnala in mezzo a molti altri, per una duplice mossa al tempo stesso spiazzante e sintomatica: sceglie, non a caso, di incentrare il racconto su di un volontario ma lo fa adottando la prima persona e il punto di vista di un morto, anzi, del morto per antonomasia. Il racconto della Prima guerra mondiale ci giunge, infatti, a cento anni di distanza, dalla voce che Franzina immagina essere quella dell’uomo il cui cadavere verrà tumulato nell’Altare della Patria nel monumento funebre dedicato al Milite Ignoto. La sineddoche d’individuo ripercorre a ritroso – e in questo modo la disfa – quella che a oggi resta la più potente operazione simbolica di riconciliazione con la guerra mai tentata da una comunità in lutto: così come l’idea di onorare la salma sconosciuta di un soldato trasformato in simbolo della nazione, «uomo ordinario tra milioni di uomini ordinari», procedeva dal nome proprio del singolo caduto a un nome comune per i senza nome, Franzina retrocede dal nome comune al nome proprio, o meglio al soprannome. Il protagonista viene, infatti, appellato Cravigno, dalla zona di Cravinhos, dove nasce nel 1892 da italiani emigrati in Brasile. E la narrazione comincia dalla fine: «Avevo da poco compiuto ventisei anni quando la scheggia di una granata mi uccise».
Il racconto segue poi l’ordine cronologico degli accadimenti, sciorinando il viaggio transatlantico verso la Patria degli avi, l’intruppamento anti-eroico nel Genio Zappatori «con scalpellini, manovali e altri soggetti dediti a lavori meccanici, in una lista onnicomprensiva di fanteria», il battesimo del fuoco al Monte San Michele, fino alla morte che sorprende Cravigno lontano dai campi di battaglia in circostanze più appropriate a un romanzo sentimentale o picaresco che non a un’epopea bellica. Tutto questo attraverso un singolare impasto di storia e d’invenzione che Franzina, storico di professione, amalgama vincolando, per sua stessa ammissione, la libertà espositiva «al rispetto sostanziale di una miriade di veri documenti storici».
Il risultato, come spesso accade, dice molto più su di noi che non sugli uomini che uccisero e morirono lungo l’Isonzo. Noi, capaci di fronte alla guerra di immaginarci solo come uccisi, e mai come uccisori, perché figli di quella prima sostituzione dell’anonimo eroe-massa al singolo, coraggioso autore di gesta straordinarie celebrato dai tempi antichi. Noi, Europei del XXI secolo, imbelli e ignavi perché discendenti, degni e indegni, del Milite Ignoto.