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 2014  settembre 26 Venerdì calendario

L’oro nero dell’Isis e il nucleare di Rohani

Dagli articoli di oggi sul contrabbando del petrolio e sulla guerra in Iraq: Fabio Caporale, Francesco Semprini e Paolo Mastrolilli sulla Stampa; Roberto Bongiorni sul Sole 24 Ore, Maurizio Ricci e Federico Zampaglione su Repubblica.

«Raid Usa contro le raffinerie dell’Isis in Siria, bombe francesi sull’Iraq, miliziani costretti dai peshmerga curdi alla ritirata nei pressi di Kobane, al confine con la Turchia. All’indomani della decapitazione di Hervé Gourdel, l’ostaggio francese ucciso in Algeria, la guerra al Califfato di Al Baghdadi subisce una nuova accelerata, mentre dal premier iracheno Haidar al-Abadi arriva la notizia di un piano per colpire le metropolitane di New York e Parigi e l’Fbi annuncia di aver identificato il boia di James Foley e Steven Sotloff, i giornalisti americani decapitati in Siria» [Caporale, Sta].
 
«“I soldi ricevuti dai donatori stranieri ormai impallidiscono rispetto a quelli che l’Isis riesce a raccogliere con il traffico del petrolio”. Così, pochi giorni fa, una fonte del dipartimento di Stato descriveva le dimensioni del contrabbando di greggio gestito dai terroristi. Così si spiega perché il Pentagono abbia bombardato mercoledì 12 raffinerie mobili in Siria, nelle zone di Mayadin, Hasakah, Abu Kamalz» [Mastrolilli, Sta].

«Abu Bakr al-Baghdadi, lo spietato califfo dello Stato islamico, si è dimostrato più scaltro di quanto si pensasse. Aveva compreso che conquistare un territorio esteso quanto il Regno Unito – e farlo con un’offensiva fulminea – richiedeva un grande sforzo militare; uomini addestrati, mezzi e le giuste alleanze. (…) Occorrevano dunque ingenti somme per comprare la lealtà delle tribù locali, reclutare nuovi jihadisti in tutto il mondo, pagare i salari per migliaia di mujaheddin e funzionari pubblici» [Bongiorni, S24].
 
L’Is conta di ingrandirsi soprattutto in Arabia: «Se questa strategia funzionasse, secondo i calcoli di Luay al Khatteeb del Brookings Doha Center, l’Isis metterebbe le mani sul 60% delle riserve petrolifere mondiali, e sul 40% della produzione attuale di gas e greggio» [Mastrolilli, sta]. 
«Sono estremamente creativi nel trovare fonti di finanziamento e possono operare indipendentemente da fonti esterne» (Douglas Ollivant, ex direttore per l’Iraq presso il Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, al Wall Street Journal».
 
«Sin dall’inizio di quest’anno, quando l’Isis ha conquistato la strategica città siriana di Raqqa, la voce maggiore del "Prodotto interno lordo" del Califfato è divenuto il contrabbando di petrolio: un commercio capace di generare dai due a tre milioni di dollari al giorno. (…) Secondo fonti israeliane citate dal quotidiano Haaretz, il nuovo network del terrore controlla aree con 60 pozzi di petrolio attivi». [Bongiorni, S24]. [Su Raqqa leggi anche l’articolo di Adriano Sofri]

«Figlio delle sanzioni contro Saddam, venduto anche all’arcinemico Assad, la storia dell’oro nero dei jihadisti affronta un’altra contorsione. Buona parte delle raffinerie in cui finisce il greggio controllato dagli uomini del califfo si trova, infatti, in Kurdistan, cioè nella patria dei peshmerga che, ogni giorno, combattono contro i jihadisti. Sono raffinerie clandestine che il governo curdo ha sempre tollerato, perché servivano a lavorare e smerciare il petrolio che i leader di Kirkuk non volevano consegnare al governo di Bagdad. Adesso, forniscono ai jihadisti i soldi con cui armano i volontari che tentano di sfondare le linee dei peshmerga ed entrare in Kurdistan». [Ricci, Rep]

«Dopo la condanna dell’Onu, commerciare il greggio dell’Is è pericoloso ed espone a sanzioni. Ma nasconderlo è facile. Il greggio arriva fino al terminale petrolifero di Ceyhan, dove il petrolio islamista viene mischiato negli oleodotti al petrolio legale. È una rete di contrabbando robusta e sperimentata. In una seconda contraddizione mediorientale, infatti, questo commercio non è stato inventato dall’Is. Esiste da decenni. Da quando, all’inizio degli anni ‘90, le sanzioni colpirono l’Iraq di Saddam Hussein e il greggio iracheno poteva arrivare sul mercato solo di contrabbando. Le dimensioni del traffico di greggio non vanno, tuttavia, esagerate. Concentrando l’attacco sulle raffinerie, piuttosto che sui giacimenti, gli americani mostrano di saperlo. La parte maggiore degli 80 mila barili estratti dai campi petroliferi ancora funzionanti, infatti, viene lavorata e trasformata in benzina e gasolio in Iraq e in Siria nella ragnatela di raffinerie, spesso improvvisate, che si irraggia intorno ai giacimenti. Una parte viene esportata attraverso gli stessi canali di mediatori e contrabbandieri del greggio, ma una parte cospicua va a soddisfare il fabbisogno del mercato interno». [Ricci, Rep]. 

«Le rotte del traffico di petrolio portano in Giordania attraverso la regione di Anbar, in Iran attraverso il Kurdistan, e in Turchia passando dall’area di Mosul. Poi c’è il mercato locale in Siria, servito in larga parte dalle raffinerie modulari che il Pentagono ha colpito mercoledì. Il petrolio pesante viene venduto tra i 26 e i 35 dollari al barile, quello leggero a 60 dollari, mentre per quello trafugato più lontano il prezzo sale in base ai costi del percorso. Comunque l’offerta è conveniente e il mercato frutta profitti significativi per l’Isis. Basti pensare che la Turchia, che all’epoca della Guerra del Golfo già chiudeva un occhio sul contrabbando gestito dai curdi al posto di frontiera di Zakho, ha visto aumentare del 300% il traffico lungo il confine con la Siria, dall’inizio della guerra» [Paolo Mastrolilli, sta].

«Il "Pil" del Califfato dispone di un paniere composto da altre voci. Per quanto minori: i sequestri, e i relativi riscatti, (svariati milioni di Dollari l’anno), rapine (come quella alla Banca di Mosul), la tratta di esseri umani, le estorsioni ai danni della popolazione. E poi furti, contrabbando di grano e di antichità. Soltanto nei monti del Qalamoun, a ovest di Damasco, avrebbero venduto reperti datati anche 4mila anni per un valore di 36 milioni di dollari» [Roberto Bongiorni, S24].
 
«Lo Stato islamico è probabilmente il gruppo terroristico più ricco mai conosciuto. Non sono integrati nel sistema finanziario internazionale e per questo non sono vulnerabili» (Matthew Levitte, direttore del programma d’intelligence e antiterrorismo al Washington Institute for Near East Policy) [Roberto Bongiorni, S24].
 
«Eppure distruggere il sofisticato business sotterraneo dell’Isis non è impossibile. Bombardando le raffinerie, come stanno facendo in questi giorni i caccia della coalizione internazionale (anche se ieri sono state colpite solo quelle modulari, piccole e mobili), si infligge un duro colpo all’Isis. (…) L’Isis può essere indebolito. Anche finanziariamente. Il timore, tuttavia, è che sarà la popolazione civile a farne per prima le spese» [Roberto Bongiorni, S24].
 
Intanto all’Onu «Rohani rivendica il ruolo di nemico del terrore, così come aveva fatto alla vigilia dell’incontro con il premier britannico David Cameron, il quale aveva detto, tra le righe, che Teheran ha sostenuto le organizzazioni terroristiche: “Si deve dare all’Iran la possibilità di dimostrare che può contribuire a una soluzione». «È deplorevole che un Paese che con la sua azione e il suo sostegno ha aiutato il terrorismo e infettato la nostra regione e il mondo con il gruppo Daesh si permetta di accusare l’Iran che è stato in prima linea nella lotta contro il terrorismo. (…) È il colonialismo che ha causato assieme al razzismo quel sentimento anti-occidentale che oggi pervade molti”. Errori che sono stati reiterati nel recente passato con la strategia sbagliata dell’Occidente in Medioriente, dalle aggressioni militari in Iraq e Afghanistan alle “ingerenze non appropriate in Siria”. Infine l’affondo ai Paesi arabi che hanno aderito alla coalizione anti-Isis a guida Usa: “Se fanno ciò per assicurarsi l’egemonia nella regione si sbagliano di grosso». E ancora, tutti i Paesi che hanno contribuito a finanziare e rafforzare i terroristi «devono chiedere scusa non solo alle generazioni passate ma anche quelle future”» [Semprini, Sta].
 
«Ma quello di Rohani è solo un modo, da un lato per distrarre l’attenzione dal problema numero uno, che resta l’ambizione iraniana di acquisire armi atomiche, dall’altro per far fare al Pentagono il lavoro sporco contro i jihadisti» (Daniel Pipes, Presidente del Middle East Forum, autore di una dozzina di libri di politica internazionale, a Federico Zampaglione). 

«Bombardare è uno sbaglio perché i jihadisti non rappresentano per noi una vera minaccia – sostiene Daniel Pipes – sono solo 30-35mila, sventolano mitra e bandiere sui camioncini, ma non sanno neanche adoperare le armi sofisticate americane che hanno trovato negli arsenali iracheni. È vero che la loro conquista di Mosul è stata una sorpresa: ma è stata una prova più della debolezza dell’esercito iracheno. Ora i leader iraniani si fregano le mani. Già con l’invasione del 2003 facemmo loro un grande piacere. (…) Teheran vuole a tutti i costi possedere l’arma nucleare. Le trattative serviranno a guadagnare tempo, ma non risolveranno la questione. Washington ha ormai messo nel cassetto i piani per un attacco aereo: peccato. Gli unici che possono ancora farlo, forti delle loro esperienze in Iraq e Siria, sono gli israeliani. E non hanno certo abbandonato l’idea » [Zampaglione, Rep]. 

«Gli estremisti di tutto il mondo si sono uniti, il punto è: siamo noi uniti contro gli estremisti? Se non uniamo tutti i nostri sforzi in questa guerra il mondo non sarà più sicuro per nessuno» (Hassan Rohani, presidente dell’Iran) [Francesco Semprini, Sta].