26 settembre 2014
Stato-mafia, Napolitano sarà testimone
Dagli articoli di oggi sulla decisione della Corte d’Assise di Palermo di far deporre il Capo dello Stato: Salvo Palazzolo, la Repubblica; Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, il Fatto Quotidiano; Nino Amadore, Il Sole 24 Ore; Riccardo Arena, La Stampa; Paolo Cacace, Il Messaggero; Stefano Folli, Il Sole 24 Ore; Liana Milella, la Repubblica; Fabrizio d’Esposito, il Fatto Quotidiano.
«La testimonianza del Capo dello Stato oltre che ammissibile appare né superflua né irrilevante». La Corte d’assise di Palermo ha confermato così che Giorgio Napolitano dovrà deporre al processo sulla trattativa Stato-mafia. Lui ha accettato apparentemente di buon grado. A patto però che lo sentano solo sul limitatissimo tema ammesso dai giudici. Questa la nota del Quirinale: «Prendo atto dell’odierna ordinanza della Corte d’assise di Palermo. Non ho alcuna difficoltà a rendere al più presto testimonianza, secondo modalità da definire, sulle circostanze oggetto del capitolo di prova ammesso» [Salvo Palazzolo, Rep 26/9/2014].
Il presidente della Corte d’assise Alfredo Montalto annuncia che l’udienza si terrà al Quirinale. A porte chiuse, senza pubblico, né imputati. Il Capo dello Stato si troverà di fronte solo i giudici, i pm e gli avvocati. Non ci saranno neanche le videoconferenze con i boss Riina e Bagarella [Salvo Palazzolo, Rep 26/9/2014].
L’insidia sta nelle ultime due righe dell’art. 502 del codice di procedura penale, citato nell’ordinanza della corte per analogia: «L’imputato e le altre parti private sono rappresentati dai rispettivi difensori. Il giudice, quando ne è fatta richiesta, ammette l’intervento personale dell’imputato interessato all’esame». Finora non è accaduto, ma se Totò Riina dovesse richiedere di assistere all’udienza del Quirinale, il giudice dovrebbe ammetterlo. Non fisicamente, naturalmente, visto che non entra neanche nell’aula bunker dell’Ucciardone, ma in video-conferenza [Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, Fat 26/9/2014].
I pubblici ministeri sanno di doversi muovere in un ambito limitato. Non possono, per esempio, fare domanda alcuna sulle telefonate fatte dal consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio (morto d’infarto), al capo dello Stato nel momento in cui l’ex presidente del Senato Nicola Mancino, imputato in questo processo, chiedeva con insistenza un intervento sul coordinamento delle indagini sulla Trattativa. Ma è pur sempre la vicenda che riguarda D’Ambrosio a interessare i pm palermitani: in particolare il contenuto della lettera che il consigliere giuridico del Quirinale ha inviato al capo dello Stato il 18 giugno del 2012, successivamente pubblicata per volontà dello stesso Giorgio Napolitano [Nino Amadore, S24 26/9/2014].
C’è un passaggio che i magistrati palermitani vogliono approfondire: la frase in cui D’Ambrosio – turbato dalla pubblicazione sui giornali delle intercettazioni telefoniche dei suoi colloqui con Mancino, ricordando ciò che ha scritto su richiesta della sorella di Giovanni Falcone, Maria, a proposito del periodo 1989-1993, trascorso in servizio all’Alto commissariato per la lotta alla mafia e poi al ministero della Giustizia – scrive: «Lei sa che non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e mi fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi – solo ipotesi – di cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi». A quali indicibili accordi si riferisce D’Ambrosio? [Nino Amadore, S24 26/9/2014].
L’ipotesi della procura di Palermo è che nel ’93, quando lavorava con Liliana Ferraro all’Ufficio studi degli Affari Penali, D’Ambrosio potrebbe aver avuto un ruolo nelle manovre che portarono alla nomina di Francesco Di Maggio ai vertici del Dap, l’ufficio chiamato a gestire l’applicazione del 41 bis: una nomina ritenuta cruciale nell’ambito del dialogo tra i boss e le istituzioni [Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, Fat 26/9/2014].
La notizia di ieri, poi, è arrivata proprio mentre Giorgio Napolitano stava andando all’atto di insediamento – al Quirinale – del nuovo Csm, la cui nascita come si sa è stata più che travagliata [Riccardo Arena, Sta 26/9/2014].
No alle toghe politicizzate e a un Csm «assemblaggio di correnti», sì a una riforma della giustizia «non più rinviabile». E’ un intervento lungo e articolato quello che Giorgio Napolitano rivolge al palazzo del Quirinale ai membri uscenti e a quelli appena insediati dell’organo di autogoverno della magistratura, avendo accanto i presidenti di Camera e Senato. Il capo dello Stato non fa sconti a nessuno ed è molto chiaro nel sottolineare l’urgenza di riformare una macchina giudiziaria «lenta e caotica, il cui funzionamento è largamente insoddisfacente» [Paolo Cacace, Mess 26/9/2014].
È certo una coincidenza, ma fa pensare. Nel giorno in cui Napolitano richiama la magistratura, attraverso il nuovo Csm, all’esigenza di non frenare la riforma che la riguarda, nelle stesse ore si viene a sapere che il capo dello Stato dovrà testimoniare nel processo di Palermo. Senza dubbio la decisione dei magistrati palermitani è del tutto lineare. Tuttavia questa scelta viene inevitabilmente interpretata da molte parti, anche alla luce di vecchie e aspre polemiche, come un ulteriore tentativo di minare il prestigio del presidente della Repubblica, suggerendo il sospetto che al vertice dello Stato ci sono segreti e misteri da tutelare [Folli, S24 26/9/2014].
Poteva essere un giorno di festa per la magistratura sul Colle. È diventato quello dei musi lunghi. Tant’è che quando proprio il magistrato che ha mandato a processo l’inchiesta Stato-mafia, il gip Piergiorgio Morosini, divenuto nel frattempo togato del Csm per Magistratura democratica, si avvicina per giurare nelle mani del capo dello Stato, in platea corre più di un brivido. Il presidente lo guarda gelido, tutto dura un attimo. Morosini torna al suo posto [Milella, Rep 26/9/2014].
Con l’eccezione di Carlo Azeglio Ciampi, che nel luglio del 2004 non ebbe alcuna difficoltà a farsi interrogare come testimone sul caso Telekom-Serbia, Giorgio Napolitano è l’unico altro presidente della Repubblica in carica a rendersi disponibile alla magistratura. Come è noto non lo fecero, riempiendo pagine e pagine di codicilli, né Oscar Luigi Scalfaro – che pure di formazione era proprio un magistrato – né Francesco Cossiga, che nel novembre del 1990 si sottrasse alle domande che l’allora pubblico ministero Felice Casson voleva fargli sulla strage di Peteano e che avrebbero rischiato di avvicinarsi pericolosamente ai misteri dell’«operazione Gladio», di cui peraltro Cossiga rivendicò poi di esser stato un assoluto protagonista [Riccardo Arena, Sta 26/9/2014].
Chi descrive lo stato d’animo di Napolitano, tratteggia «un uomo stremato e insofferente». E la vicenda della mancata elezione dei due giudici costituzionali in quota Parlamento ha fatto aumentare il suo pessimismo. Così, quella nota del 17 settembre scorso, proprio a proposito delle fumate nere su Bruno e Violante, va intesa anche come un avvertimento ai renzusconiani: «Non siete stati capaci di eleggere due giudici e pretendere di eleggere il mio successore?» [Fabrizio d’Esposito, Fat 26/9/2014].
«In gioco c’è l’autonomia e il primato della politica. E Napolitano è d’accordo con me». Matteo Renzi da New York coglie al volo il pressing del Quirinale per la riforma della giustizia. Lo scontro con le toghe ormai è a 360 gradi. Il premier è preoccupato ma ora sa di poter contare sul capo dello Stato anche su questo versante [Milella, Rep 26/9/2014].
Fin d’ora si capisce che la testimonianza del capo dello Stato non vale per quel poco che realmente egli potrà dire, bensì per i riflessi della notizia rilanciata dai giornali. In ogni caso anche lo scontro con Palermo appartiene al passato ed è difficile credere che ci sia qualcuno in grado di riaccendere la tensione con il Quirinale a quei livelli. Il problema è che le riforme in Italia hanno bisogno di un capo dello Stato forte e in grado di affiancare lo spirito innovativo del governo. E fra tutte le riforme promesse o annunciate, quella della giustizia è fra le più urgenti, ma anche fra le più suscettibili di infrangersi contro un muro [Folli, S24 26/9/2014].
Dagli articoli di oggi sulla decisione della Corte d’Assise di Palermo di far deporre il Capo dello Stato: Salvo Palazzolo, la Repubblica; Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, il Fatto Quotidiano; Nino Amadore, Il Sole 24 Ore; Riccardo Arena, La Stampa; Paolo Cacace, Il Messaggero; Folli, Il Sole 24 Ore; Milella, la Repubblica; Fabrizio d’Esposito, il Fatto Quotidiano.