Libero, 24 settembre 2014
La Cgil difende l’articolo 18 ma non lo applica ai suoi
«E chi controlla i controllori?», diceva Giovenale (che oggi avrebbe l’età media per iscriversi alla Cgil) . Strana desacralizzazione del sindacato: i templari dell’articolo 18 che minacciano di scendere in piazza -trascinati dal vento del logos e dello scipoero generale- sono quelli che fanno tranquillamente a meno dell’articolo 18. La storia è risaputa, ma urge memento. La Cgil con tutto il suo pacchetto di mischia ideologico sul Jobs Act in realtà non è tenuta per legge al reintegro dei i suoi lavoratori licenziati senza giusta causa, come sono obbligate a fare tutte le aziende italiane con più di 15 dipendenti. I duri della Cgil (meno gli altri sindacati) licenziano spesso, e spietatamente. Esiste addirittura un sito www.licenziatidallacgil.it che tiene la triste conta. Prendete il caso più recente di Simona Micieli: prima di licenziarla dopo mesi di malattia, la Cgil le aveva proposto «il versamento della somma di 70mila euro in cambio delle dimissioni e del silenzio». Un mercateggiamento del futuro, esattamente quello di cui Susanna Camusso accusa Renzi. C’è pure il caso di Anna Maria Dalò di Andria, licenziata dal patronato per seri motivi di salute, poi reintegrata dopo che il suo caso arrivò al congresso nazionale di Rimini; ma in seguito costretta a dimettersi perchè non voleva lavorare nella stessa sede dove si era sentita umiliata; adesso pare sia ancora in causa su Tfr e pensione. Sempre con la Cgil. C’è anche Romina Licciardi, licenziata dalla Cgil di Ragusa dopo 12 anni di servizio, di cui, 2 denuncia, in nero, dal 1998 al 2000 e gli altri con contratto part time anche se lavorava a tempo pieno. Tutele crescenti. Del sindacato, però. Per dire di Luca Lecardane, ex lavoratore Cgil di Palermo, oggi disoccupato: assunto nel 2006 per riorganizzare l’Ufficio vertenze (un lavoro a tempo pieno, dal lunedì al venerdì), un anno dopo viene trasferito all’Ecap come operatore amministrativo con contratto part-time. Infine, in un’escalation formidabile, ecco all’improvviso, il licenziamento comunicato con missiva dove la Cgil lo fa risultare «solo un volontario». A Cosenza, poi, Umberto Macchione, fa ricorso al giudice del Lavoro dopo aver prestato servizio per 9 anni da precario per il sindacato; la notizia esplode sui quotidiani locali Macchione (che viene pagato da 14 mesi) e in un nanosecondo si trova la serratura del ufficio cambiata. Sono storie urticanti. Il sito dei licenziati Cgil è un’ecatombe, il sepolcro delle utopie socialiste fallite. Vi ribolle di tutto: mobbing, bilanci impossibili, epurazioni, vendette allo stato brado, dirigenti che danzano sul filo dell’illegalità e dell’interpretazione della norma. Il problema è etico, perchè giuridicamente i sindacti sono a posto, per carità. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori brilla per un comma: «non trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto». Fini di lucro, soldi. Si tenga conto che Cgil, Cisl e Uil si nutrono da anni di altri luminosi privilegi: la fiscalità di vantaggio, i contributi pubblici per le attività fiscali e di patronato per milioni di euro, i contributi pubblici per l’editoria e le esenzioni su Imu, eccetera. Finora gli agnelli sacrificali sull’altare dell’incoerenza sindacale belavano in silenzio. Ora, vivaddio, qualcosa è cambiato. E, gente come Giovanni Sapienza da Catania, prende coraggio e presenta ricorso contro la Cgil, dalla quale fu «licenziato “in tronco” dopo 18 anni di lavoro senza contributi previdenziali». E pure Alma Bianco da Messina reagisce quando, dopo mesi di carte bollate, il Tribunale le riconosce 5mila euro di arretrati che il sindacato aveva sempre sostenuto di aver già pagato; e la Cgil si vendica accusando la Bianco di aver distratto dei fondi, firmando assegni e falsificando la firma del segretario generale che «mi aveva autorizzata» in un meccanismo amministrativamente vischioso che durava da vent’anni. E s’incazzano senza remore pure i due operai di cooperativa Pierre Essomba, 37 anni del Camerun e Francesco Zito, a Pieve Emanuele -a sud di Milano- che decidono di passare dalla Cisl alla Cgil, con strascichi di persecuzione politica fino al «licenziamento in tronco», roba da film di Ken Loach. Il sindacato rosso in Italia evoca lo spettro delle masse in piazza, anche se su sei milioni d’iscritti solo tre hanno un mestiere vero. Gli altri sono quasi tutti pensionati. La rappresentazione plastica del privilegio del passato e della miopia del futuro. Il comitato dei licenziati Cgil ha scritto: «Condividiamo pienamente e fortemente la posizione della Cgil sulla riforma del mercato del lavoro, precisamente su due punti: licenziamenti discriminatori, licenziamenti disciplinari. Nel contempo chiediamo alla Cgil di spiegarci perché questa posizione non vale per i suoi dipendenti e i suoi licenziati. Questo è il motivo per cui non possiamo, nonostante il momento delicato, restarcene in silenzio». Non s’è udita risposta da Camusso: i riti del culto nel tempio, lo sciopero, non vogliono distrazioni...