Libero, 16 settembre 2014
«Sì, l’Italia dovrà presto affrontare sempre maggiori spinte autonomiste»
Sì, l’Italia dovrà presto affrontare sempre maggiori spinte autonomiste». Harold James, inglese di origine, ha 58 anni ed è uno degli storici dell’economia più rilevanti nel panorama attuale. Insegna a Princeton, è senior fellow del Centre for International Governance Innovation (CIGI, un think tank canadese) e collabora con altri centri di ricerca internazionali. Il suo recente «Making the European Monetary Union», dedicato alla crisi dell’euro, è prefato dal governatore della Bce, Mario Draghi, ed è in attesa di un editore italiano che ne curi la traduzione per il nostro pubblico. Tra i maggiori conoscitori dell’economia-guida dell’eurozona, quella tedesca cui ha dedicato decine di pubblicazioni internazionali, James risponde a Libero sui temi della stretta attualità: la recessione infinita – confermata anche dalle pessime previsioni Ocse di ieri per il 2014 –, la crisi dell’euro, le spinte autonomiste che sembrano scuotere l’intero continente proprio come forma di reazione alla gabbia dell’Eurozona. Professore, i recentissimi dati economici confermano una situazione nera per l’Italia nello stagno comunque fosco dell’Eurozona. Dal suo punto di vista, qual è il problema del nostro Paese? Il debito pubblico è davvero causa della nostra condizione? «Il problema fondamentale mi pare la bassa crescita, non il debito pubblico. Casomai quello ne è conseguenza. E il problema di crescita italiano è di vecchia data: precede l’introduzione dell’euro, e affonda le sue radici in un mercato del lavoro troppo rigido e in un sistema educativo non all’altezza. Con l’euro, piuttosto, alcuni analisti speravano di creare un contesto utile ad accelerare un’uscita dalla stagnazione». Da anni, forse decenni, sentiamo ripetere che l’Italia deve realizzare «riforme strutturali», spesso a prescindere dal contenuto delle riforme stesse. Di cosa avremmo realmente bisogno? E come realizzarlo senza sforare il 3%? «In realtà credo sia piuttosto chiaro il tipo di provvedimenti indispensabili all’Italia: una deregulation del mercato del lavoro e una modernizzazione del sistema scolastico. Ovviamente si tratta di riforme che presentano un costo, e per questo mi pare quasi inevitabile che l’Europa conceda deviazioni rispetto al vincolo del 3% allo scopo di permettere il finanziamento di questi stimoli alla crescita nel lungo periodo». Di recente, in un suo editoriale apparso sul Sole 24 Ore dedicato al referendum scozzese, ha accennato alla possibilità che un’eventuale vittoria del «sì» abbia un riverbero sulle pulsioni autonomiste italiane. Può spiegare meglio? «Preciso che non mi auguro la vittoria del “sì”: credo che nel breve periodo produrrebbe gravi squilibri economici. Quel che vorrei sottolineare è che i Paesi più piccoli, per esempio Slovacchia o Slovenia, hanno poche alternative a qualche forma di accordo monetario che li leghi a monete più forti. Come conseguenza, queste economie presentano anche l’esigenza politica di raggiungere accordi più flessibili. Il punto principale è proprio questa flessibilità, che è spesso più agevole da raggiungere in Stati di dimensioni ridotte. Dal punto di vista puramente intellettuale, se l’Italia fosse divisa in più staterelli, questi si adatterebbero meglio nel contesto della moneta comune». Forse per questo il Veneto ha indetto qualche mese fa un referendum – il cui valore legale non è riconosciuto – per raggiungere l’indipendenza. Ma allora c’è stata in passato una sottovalutazione dei problemi derivanti dall’ingresso dell’Italia nell’euro? «Non penso che il problema sia stata la scelta di adottare la moneta unica con quel cambio in sé, quanto piuttosto la sottovalutazione della conseguenza principale: non consentire più all’Italia svalutazioni del tasso di cambio per compensare aumenti dei costi e dei prezzi. Molti hanno pensato che questa dinamica preesistente avrebbe potuto interrompersi senza grandi traumi, mentre altri (specialmente la Banca d’Italia) erano fin da allora più scettici». Non è un problema da poco, come mostra il presente. L’Italia corre il rischio di dover presto fronteggiare un bivio tra difesa della moneta unica e difesa dell’integrità della nazione? Visto l’attuale contesto partitico, si aspetta la crescita di uno spazio politico indipendentista? «Sì. Penso che ci sarà una domanda sempre crescente di autonomia o devolution in molti Paesi. Ma credo che questo livello di auto-governo possa essere raggiunto con una certa efficacia solo in un contesto europeo. E in questo dibattito non assegnerei alla moneta un ruolo straordinario: per esempio, in Catalogna l’euro non è un oggetto di discussione». Torniamo all’Italia. Di fatto, con l’eccezione della Lega Nord, partito storicamente indipendentista che ha recentemente fatto propria la campagna per l’uscita dall’euro, le altre formazioni paiono aver rinunciato ad affrontare sia il tema della moneta sia quello dell’autonomia: tanto il Partito democratico quanto Forza Italia e Ncd sono di fatto a favore dell’impianto attuale della moneta unica. Lei crede che una fuoriuscita del nostro Paese dall’euro potrebbe avere conseguenze positive, viste le nostre performance dal 2008, che sono tra le peggiori di tutto il club della moneta unica? «Ritengo che l’uscita dalla moneta unica – una soluzione che in alcuni momenti Silvio Berlusconi sembra aver accarezzato – non risolverebbe granché. Una scelta del genere richiederebbe anche una parallela ristrutturazione del debito (dal momento che i vecchi debiti sarebbero presumibilmente più pesanti nella nuova valuta) che sarebbe altamente distruttiva. Lo scenario potrebbe non essere molto diverso da quello dell’esempio dell’Argentina, spesso indicata come un modello di strategia alternativa: alta inflazione, economia prossima al collasso e distruzione o fuga del ceto medio. Inoltre un’uscita dell’Italia comporterebbe molto probabilmente non solo una distruzione dell’Eurozona ma della stessa Unione europea, dal momento che creerebbe una attesa e una pressione per una scelta simile anche in Francia».