La Stampa, venerdì 11 aprile 2008, 27 agosto 2014
Tags : Il primo libro delle profezie (Marsilio 2008)
Dell’Arti e profezie dalla polvere del mondo
La Stampa, venerdì 11 aprile 2008
Sono già diverse settimane che giro e rigiro le pagine del Primo libro delle profezie di Giorgio Dell'Arti (Marsilio Ed. 213 pag. 13 euro). Lo leggo aprendolo a caso, consultandolo come se si trattasse di Nostradamus o del Libro dei Mutamenti, I’Ching. Lo degusto come un libro sapienziale, oltre che preveggente, volume che suggerisce cose e idee sul passato oltre che sul futuro. L’ho anche letto da cima a fondo, ma ogni volta che lo apro per una consultazione, per ritrovare qualcosa che avevo già letto e volevo rileggere, mi accorgo che conteneva qualcosa d’altro che non avevo visto, quasi avessi tra le mani il fatidico Libro di sabbia citato da Borges: non si apre mai alla stessa pagina e non dice mai le stesse cose.
La ragione di questo è che il libro di Dell’Arti, uno dei più brillanti giornalisti italiani, inquieto chiosatore dell’universo mondo, si fonda sui dettagli: è una rassegna di dettagli. Meglio: sono dettagli di dettagli. Ci si sofferma, come in certi romanzi d’appendice – una parentela, credo – sul dettaglio del colore del vestito della protagonista, sul particolare della sua casa, sulla frase che avrebbe detto e che non siamo sicuri di ricordare esattamente: «Ah, eccola qua!». E tuttavia il libro ha anche un suo centro fortissimo, un nocciolo duro che s’afferra sin dalla prima apertura di pagina: vuole dare di questo universo folle, impazzito, maniacale, disordinato, una visione d’insieme, inseguendo, pedinando, la follia stessa del mondo in cui viviamo. Lo fa sfoderando una delle armi migliori del giornalista: il cinismo. Il cinismo mescolato all’ingenuità, poiché il vero giornalista non è mai un uomo del partito preso, non ha idee preconfezionate, si fonda invece sulle impressioni, in particolare sulla prima impressione. Come diceva Oscar Wilde, «Mai fidarsi della prima impressione. quella giusta!».
Anche questo libro, per fortuna, è così. Dell’Arti ha scritto un libro in apparenza cinico eppure altamente sentimentale (il sentimentalismo è l’altra faccia del cinismo). Un libro costruito sulla polvere del mondo – a questo servono i numeri accanto a ogni singolo brano: dare un ordine, apparente ordine, al pulviscolo delle informazioni e delle notizie in cui viviamo immersi. Sono colpito dal fatto che il libro sia ossessionato dalle medesime cose che ossessionano me: i cinesi e le banche. I cinesi sono diventati per molti una sorta di fantasma che aleggia nell’aria, ma anche nelle nostre menti. Qualcosa di inafferrabile, e al tempo stesso di ben presente. I cinesi sono tutto e il contrario di tutto: comunismo e capitalismo, sfrenatezza e serenità, forza bruta e leggerezza del pensiero. Sono il nostro passato e il nostro futuro. Qualcosa con cui temiamo di dover far presto i conti – ogni settimana le riviste e i settimanali dedicano ai Cinesi almeno una copertina – e al tempo stesso qualcosa con cui vogliamo, desideriamo, fare i conti. Forse perché sentiamo che il nostro mondo, la nostra civiltà non ci basta più, sappiamo che è finita e vogliamo che arrivino i Barbari. Li aspettiamo da tempo. Per rinnovarci, per cambiarci, e al limite per scomparire. Nulla dura per sempre. I cinesi come cura, ma anche come contraddizione della contraddizione – Dell'Arti è un filosofo, anche se finge di essere solo un «filosofo della domenica».
L’altra cosa che lo tormenta, che insegue di continuo, sono le banche. Meglio: è attratto e insieme atterrito dal potere immateriale del denaro – fonte sostanziale del capitalismo finanziario –, il quale ha nelle banche, sempre più brand piuttosto che luoghi fisici, il proprio centro virtuale ed effettuale. Dedica alle banche italiane e internazionali almeno un quarto del libro. Ci torna e ritorna sopra, racconta storie, personaggi, situazioni. Ha ragione. Questo è uno dei pilastri che reggono il nostro mondo. Più ancora della politica – vera cenerentola del libro, poiché i politici che contano nel volume sono già entrati nella storia o stanno per farlo – è la Storia come eterna ripetizione, come «eterno ritorno», che ossessiona Dell’Arti. La sua cronaca finale - chiamata alla latina Annale – degl’ultimi 365 giorni è impietosa. Un altro anno da dimenticare? Purtroppo no, Giorgio Dell’Arti è lì coerente a ricordarcelo: il prossimo sarà uguale. Amen.
Sono già diverse settimane che giro e rigiro le pagine del Primo libro delle profezie di Giorgio Dell'Arti (Marsilio Ed. 213 pag. 13 euro). Lo leggo aprendolo a caso, consultandolo come se si trattasse di Nostradamus o del Libro dei Mutamenti, I’Ching. Lo degusto come un libro sapienziale, oltre che preveggente, volume che suggerisce cose e idee sul passato oltre che sul futuro. L’ho anche letto da cima a fondo, ma ogni volta che lo apro per una consultazione, per ritrovare qualcosa che avevo già letto e volevo rileggere, mi accorgo che conteneva qualcosa d’altro che non avevo visto, quasi avessi tra le mani il fatidico Libro di sabbia citato da Borges: non si apre mai alla stessa pagina e non dice mai le stesse cose.
La ragione di questo è che il libro di Dell’Arti, uno dei più brillanti giornalisti italiani, inquieto chiosatore dell’universo mondo, si fonda sui dettagli: è una rassegna di dettagli. Meglio: sono dettagli di dettagli. Ci si sofferma, come in certi romanzi d’appendice – una parentela, credo – sul dettaglio del colore del vestito della protagonista, sul particolare della sua casa, sulla frase che avrebbe detto e che non siamo sicuri di ricordare esattamente: «Ah, eccola qua!». E tuttavia il libro ha anche un suo centro fortissimo, un nocciolo duro che s’afferra sin dalla prima apertura di pagina: vuole dare di questo universo folle, impazzito, maniacale, disordinato, una visione d’insieme, inseguendo, pedinando, la follia stessa del mondo in cui viviamo. Lo fa sfoderando una delle armi migliori del giornalista: il cinismo. Il cinismo mescolato all’ingenuità, poiché il vero giornalista non è mai un uomo del partito preso, non ha idee preconfezionate, si fonda invece sulle impressioni, in particolare sulla prima impressione. Come diceva Oscar Wilde, «Mai fidarsi della prima impressione. quella giusta!».
Anche questo libro, per fortuna, è così. Dell’Arti ha scritto un libro in apparenza cinico eppure altamente sentimentale (il sentimentalismo è l’altra faccia del cinismo). Un libro costruito sulla polvere del mondo – a questo servono i numeri accanto a ogni singolo brano: dare un ordine, apparente ordine, al pulviscolo delle informazioni e delle notizie in cui viviamo immersi. Sono colpito dal fatto che il libro sia ossessionato dalle medesime cose che ossessionano me: i cinesi e le banche. I cinesi sono diventati per molti una sorta di fantasma che aleggia nell’aria, ma anche nelle nostre menti. Qualcosa di inafferrabile, e al tempo stesso di ben presente. I cinesi sono tutto e il contrario di tutto: comunismo e capitalismo, sfrenatezza e serenità, forza bruta e leggerezza del pensiero. Sono il nostro passato e il nostro futuro. Qualcosa con cui temiamo di dover far presto i conti – ogni settimana le riviste e i settimanali dedicano ai Cinesi almeno una copertina – e al tempo stesso qualcosa con cui vogliamo, desideriamo, fare i conti. Forse perché sentiamo che il nostro mondo, la nostra civiltà non ci basta più, sappiamo che è finita e vogliamo che arrivino i Barbari. Li aspettiamo da tempo. Per rinnovarci, per cambiarci, e al limite per scomparire. Nulla dura per sempre. I cinesi come cura, ma anche come contraddizione della contraddizione – Dell'Arti è un filosofo, anche se finge di essere solo un «filosofo della domenica».
L’altra cosa che lo tormenta, che insegue di continuo, sono le banche. Meglio: è attratto e insieme atterrito dal potere immateriale del denaro – fonte sostanziale del capitalismo finanziario –, il quale ha nelle banche, sempre più brand piuttosto che luoghi fisici, il proprio centro virtuale ed effettuale. Dedica alle banche italiane e internazionali almeno un quarto del libro. Ci torna e ritorna sopra, racconta storie, personaggi, situazioni. Ha ragione. Questo è uno dei pilastri che reggono il nostro mondo. Più ancora della politica – vera cenerentola del libro, poiché i politici che contano nel volume sono già entrati nella storia o stanno per farlo – è la Storia come eterna ripetizione, come «eterno ritorno», che ossessiona Dell’Arti. La sua cronaca finale - chiamata alla latina Annale – degl’ultimi 365 giorni è impietosa. Un altro anno da dimenticare? Purtroppo no, Giorgio Dell’Arti è lì coerente a ricordarcelo: il prossimo sarà uguale. Amen.
Marco Belpoliti