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 2014  agosto 19 Martedì calendario

Cronaca giorno per giorno tratta dal Corriere della Sera



11 agosto 2014

DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK — Per la polizia Michael Brown ha aggredito il poliziotto che l’ha ucciso spingendolo dentro l’auto con la quale stava pattugliando Ferguson, un sobborgo nero di St. Louis, in Missouri. Secondo diversi testimoni, invece, è stato il poliziotto a prendersela senza motivo col ragazzo che passava di lì, sparandogli appena questo ha tentato una blanda reazione. Nemmeno il capo della polizia di St. Louis che ha cercato di difendere il suo agente (comunque sospeso dal servizio), è stato in grado di spiegare perché contro il ragazzo, disarmato, siano stati sparati diversi colpi.
Quello che è certo è che questo ragazzo di 18 anni che aveva appena finito il liceo, non potrà presentarsi al college dove proprio oggi avrebbe dovuto iniziare il suo percorso universitario: un’altra vita di un ragazzo nero spezzata senza motivo. Come Trayvon Martin, il ragazzo di 17 anni ucciso due anni fa a Miami da un altro giovane, membro di un gruppo di autoproclamati guardiani del quartiere. Come allora, anche a St. Louis la vicenda sta provocando la dura protesta della comunità afroamericana e delle organizzazioni dei diritti civili. Mentre in caserma il capo della polizia Jon Belmar cercava di spiegare alla stampa il comportamento del suo agente, fuori centinaia di persone manifestavano urlando «smettete di spararci addosso» e agitando cartelli con su scritto «Niente pace senza giustizia», «Basta col terrorismo della polizia» e anche un più allarmante «Uccidere la polizia».
Nella notte c’è voluto un cordone di poliziotti, soprattutto neri, coi cani lupo al guinzaglio, per tenere testa alla folla furibonda. Mentre la polizia locale si trincera dietro la riservatezza delle indagini, il governo federale è deciso a vederci chiaro. Ci sarà un’inchiesta parallela della polizia federale, l’Fbi, e il ministro della Giustizia Eric Holder ha mobilitato i magistrati del dipartimento diritti civili.
La vicenda di St. Louis avrà ripercussioni anche a New York dove da giorni la comunità nera è in fermento per la morte di un altro nero disarmato a causa di un intervento troppo brutale della polizia. Eric Garner, che stava vendendo sigarette di contrabbando e che forse ha cercato di sottrarsi a un controllo, è stato bloccato dalla polizia che gli ha stretto un braccio attorno al collo, una tecnica proibita. L’uomo, un obeso, è morto per mancanza d’ossigeno. Un passante ha ripreso e messo in rete la scena nella quale si vedono i poliziotti che non mollano la presa nonostante a Garner manchi chiaramente l’aria. De Blasio è fra due fuochi: i poliziotti che accusano il sindaco di non averli difesi e i suoi elettori afroamericani furibondi. Ancora ieri cercava di far rientrare la protesta che il 23 agosto dovrebbe paralizzare il ponte Giovanni da Verrazzano, il più grande di New York. Adesso sarà più difficile.
M.Ga.

13 agosto 2014

DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK — Dopo un’altra notte che ha fatto pensare più a una sommossa che a una protesta — la folla inferocita che ha cercato di assaltare la caserma della polizia, negozi saccheggiati, gli agenti che hanno lanciato lacrimogeni e sparato proiettili di gomma per disperdere i manifestanti — a Ferguson, il sobborgo nero di St.Louis dove sabato è stato ucciso senza motivo Michael Brown, un ragazzino nero di 18 anni disarmato che forse aveva disobbedito all’ordine di un poliziotto di non camminare in mezzo alla strada, è tornata ieri una precaria calma. I
Effetto anche dell’atteggiamento della famiglia di Michael con la madre, Lesley McSpadeen che, dopo aver invocato giustizia per due giorni con toni comprensibilmente rabbiosi, ieri ha scelto parole più pacate e ha chiesto soprattutto che venga posta fine alle violenze. Anche il presidente Obama è intervenuto ieri notte, invitando la gente a pregare «per aiutarsi anziché ferirsi a vicenda». Ma due notti di scontri con case bruciate e 32 arresti hanno lasciato un clima pesante in questa cittadina di 21 mila abitanti divenuta negli ultimi anni un ghetto abitato quasi totalmente da afroamericani.
Nuova benzina sul fuoco l’ha gettata la stessa polizia con la decisione di non comunicare l’identità del poliziotto che ha sparato ripetutamente contro il ragazzo. Era stato deciso di rendere noto il nome nella giornata di martedì, ma alla fine la polizia ci ha ripensato. Il responsabile delle forze dell’ordine della contea ha confermato la sospensione cautelativa dell’agente, ma ha aggiunto che, viste le molte minacce arrivate alla polizia via social network, non era il caso di esporlo al rischio di una vendetta. Su Internet, però, vari blogger sostengono di aver individuato il poliziotto in questione (a Ferguson non ce ne sono molti). Il collettivo Anonymous dice che sta facendo le ultime verifiche e poi renderà pubblica l’identità dell’agente. Anonymous sostiene anche di aver lanciato dei cyberattacchi contro il sito web della polizia di Ferguson. Sul reale comportamento dell’uomo che sabato era di pattuglia in questa cittadina alle porte di St.Louis, in Missouri, le versioni rimangono contrastanti. Secondo gli investigatori locali l’agente sarebbe stato spintonato da Michael nella macchina con la quale stava sorvegliando il quartiere. Diversi testimoni oculari, però, negano questa circostanza. E Dorian Johnson, l’amico che sabato accompagnava Michael che stava andando a trovare la nonna, ha detto che il poliziotto ha aperto il fuoco quando il ragazzo si è rifiutato di spostarsi dal centro della strada e di tornare sul marciapiede. Sul caso stanno indagando gli agenti dell’Fbi che conducono l’inchiesta federale. Spalleggiati, in questo, dai magistrati della direzione diritti civili del ministero della Giustizia che l’attorney general Eric Holder ha mobilitato appena saputo della meccanica del tragico incidente. Il capo della polizia di Ferguson, John Belmar ha ammesso che il suo agente ha sparato contro Michael, disarmato come detto, diverse volte. Colpito da almeno tre pallottole, il ragazzo è crollato al suolo a 12 metri di distanza dall’auto della polizia.
Il caso di Michael ha suscitato particolare emozione per la sua giovane età, per il fatto che era disarmato e anche per la sua storia di studente modello che aveva appena conseguito il diploma liceale ed era stato ammesso ad un college dove proprio in questi giorni avrebbe dovuto iniziare il suo percorso accademico.
Massimo Gaggi

15 agosto 2014
DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK — È dovuto intervenire per la seconda volta Barack Obama, con un appello alla «pace e alla calma» in diretta tv dalla residenza estiva di Martha’s Vineyard, per cercare di riportare alla normalità nel sobborgo di Ferguson, vicino a St. Louis, in Missouri, i 21 mila abitanti, due terzi dei quali afro-americani, dopo cinque giorni tesissimi di proteste e scontri con la polizia — che ha anche fatto ricorso a gas lacrimogeni e proiettili di gomma, arrestato una decina di persone e fermato due giornalisti — in seguito all’uccisione del 18enne di colore Michael Brown, disarmato, da parte di un poliziotto durante un banale controllo.
«Non ci sono scuse», ha detto Obama, «per un uso eccessivo di forza da parte della polizia contro manifestanti pacifici e per mettere in carcere chi protesta esercitando legalmente il Primo Emendamento (quello sulla libertà di espressione). Negli Stati Uniti la polizia non dovrebbe usare prepotenza o arrestare giornalisti che stanno cercando di fare il proprio lavoro», riferendosi ai due cronisti del Washington Post e dell’Huffington Post , fermati dalla polizia dentro un McDonald’s senza un apparente motivo e poi rilasciati. E ha chiesto senza mezzi termini un’inchiesta «aperta e trasparente». Inchiesta che evidentemente non può essere lasciata nelle mani della polizia locale — 53 agenti quasi tutti bianchi —, che si è mostrata palesemente inadeguata a gestire il caso. Obama ha detto di aver chiesto al Dipartimento della Giustizia e all’Fbi di indagare sull’uccisione del ragazzo, che potrebbe avere avuto anche un risvolto razziale. Ma ha anche difeso il governatore del Missouri, il democratico Jay Nixon, criticato per non essere riuscito a contenere gli animi: «uno bravo, un governatore attento». Nixon ha anche preannunciato cambi al vertice della polizia locale.
La situazione in città rischia di sfuggire di mano. Mercoledì notte gli agenti hanno utilizzato lacrimogeni e sparato proiettili di gomma per disperdere le migliaia di persone esasperate per il fatto che la polizia — cinque giorni dopo l’uccisione di Brown — non avesse ancora rivelato il nome del poliziotto che aveva sparato, secondo i responsabili locali per la necessità di proteggerlo dalle minacce di morte. Almeno due persone sono rimaste ferite da colpi di arma da fuoco sparati dagli agenti. La polizia si è giustificata affermando che i manifestanti avevano lanciato molotov. Ma sono proprio i metodi duri utilizzati nei controlli e ancora di più nel reprimere le proteste degli afro-americani ad alimentare le maggiori critiche. In particolare ha destato impressione l’eccessiva militarizzazione delle polizie locali, armate fino ai denti con armi da guerra come fucili mitragliatori M16 e corazzati Humvee, anche se spesso prive della cultura e della preparazione necessaria per farne uso, specialmente in situazioni di gestione dell’ordine pubblico. Ieri il ministro della Giustizia, Eric Holder, si è detto preoccupato per un uso di equipaggiamenti militari che manda «un messaggio ambiguo». E un secondo caso di questi giorni negli Stati Uniti, l’uccisione di un altro ragazzo nero da parte della polizia a Los Angeles, non fa che gettare benzina sul fuoco.
Intanto ad alimentare le tensioni ci ha pensato il gruppo di hacker Anonymus, diffondendo via Twitter — l’account è stato subito sospeso — l’identità di un agente che ritengono sia il responsabile dell’uccisione di Brown. Ma la polizia ha detto che il nome diffuso dal gruppo non è di un agente di Ferguson.
Fabrizio Massaro

17 agosto 2014
La brutalità di una polizia abituata a non andare tanto per il sottile quando pattuglia i ghetti neri. La fine della segregazione razziale che è fissata nelle leggi federali, ma in molti Stati del Sud è rimasta sulla carta. La rabbia dei giovani che non si sentono trattati con giustizia: troppi di loro finiscono in galera, pochi possono vantare una carriera di successo. I bianchi che tengono le distanze: non si sentono razzisti (così come non si sente razzista chi da noi ce l’ha con gli zingari o gli albanesi), ma pensano che se un giovane nero su quattro finisce dietro le sbarre un motivo c’è. I problemi sociali ci sono e vanno affrontati, ma intanto la violenza va repressa. E poi saccheggi e sommosse di quartiere sedate schierando blindati e forze di polizia armate come i marines in Afghanistan. C’è questo e molto altro nell’eruzione di violenza urbana a Ferguson, sobborgo di St. Louis (dove ieri è stato proclamato il coprifuoco) dopo l’uccisione del diciottenne disarmato Michael Brown. Obama è intervenuto subito, condannando la violenza urbana dei teppisti ma anche richiamando la polizia a un comportamento più responsabile: nel suo ultimo intervento ha parlato più di questo che di Iraq. Lo ha fatto anche perché teme che la situazione possa degenerare e non solo in Missouri.
I neri d’America da anni protestano sostenendo che la discriminazione razziale, più o meno superata nei posti di lavoro, nelle università, negli alberghi, oltre che sugli autobus dell’Alabama, esiste ancora nei quartieri delle città (bianchi e asiatici ricchi da una parte, ghetti neri dall’altra con poche zone miste) e, soprattutto, nei rapporti con la polizia. Che concentra la sua attività di sorveglianza e controllo soprattutto sugli afroamericani nonostante che questo gruppo sia assolutamente minoritario. «Discriminati in base al colore della pelle», inveisce da anni il reverendo Al Sharpton, controverso attivista dei diritti civili. A New York l’ex sindaco Michael Bloomberg ha sempre tenuto duro replicando che se la grande maggioranza dei reati viene commessa da gente di colore, il fatto che i controlli la polizia il faccia in prevalenza nei quartieri neri non può essere considerato in alcun modo discriminatorio. Il suo successore Bill de Blasio, famiglia multietnica e sindaco progressista eletto sulla base di una piattaforma che promette maggiori garanzie e rispetto per le minoranze etniche, chiede alla polizia di essere meno brutale nell’azione di repressione, pur non rinunciando alla severità e alla «tolleranza zero»: la strategia che negli ultimi vent’anni ha consentito di rendere molto più sicura New York e anche il resto degli Stati Uniti.
Una legislazione solida a tutela dei diritti civili, un presidente nero, ministri asiatici, governatori indiani (come Jindal in Louisiana), norme anti discriminazione severe (impensabili negli Usa cori come quelli dei nostri stadi): l’America ha fatto molto per diventare una democrazia multietnica. Ma non è mai riuscita a rimarginare completamente la ferita aperta quando gli antenati degli afroamericani sono stati ridotti in schiavitù. Ci è andata vicino New York, crogiuolo di razze e miracolo di tolleranza interetnica e interreligiosa. Ma anche qui certe asprezze della polizia e una crisi economica sfociata in un allargamento del fossato tra ricchi e poveri hanno alimentato di nuovo il risentimento dei neri, scavalcati anche dagli immigrati ispanici nella geografia economica e sociale della città. La morte di un venditore di sigarette di contrabbando soffocato dalla presa violenta (una mossa proibita) del poliziotto che cercava di immobilizzarlo, ha creato nuove tensioni e proteste con nuove, massicce manifestazioni in programma la prossima settimana.
Un altro momento difficile per il melting pot americano. Oggi proprio Al Sharpton sarà in Missouri a guidare nuove manifestazioni. De Blasio, sindaco di New York, lo ha invitato ad essere prudente: è facile appiccare incendi e difficile spegnerli. L’America ha vissuto disordini razziali ben più drammatici e sanguinosi. Ne verrà fuori anche stavolta anche se, rispetto al passato, ci sono asperità della crisi dei ceti meno abbienti e i social media che soffiano sul fuoco. Un’altra prova per il primo presidente nero della storia americana. Ormai con i capelli quasi completamente bianchi.
Massimo Gaggi

18 agosto 2014
DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK — Seconda notte consecutiva di coprifuoco da mezzanotte alle 5 a Ferguson, in Missouri, imposta dal governatore Jay Nixon «per contribuire a riportare la pace» e porre fine alla guerriglia urbana che da una settimana sta squassando la cittadina di 21 mila abitanti vicino a St. Louis, a maggioranza afro-americana, dopo l’uccisione di un ragazzo nero disarmato da parte di un poliziotto bianco.
La prima notte di coprifuoco, tra sabato e domenica, non è tuttavia servita a evitare saccheggi e scontri. Circa 200 manifestanti hanno violato il divieto, una persona è rimasta gravemente ferita a colpi di arma da fuoco (non dalla polizia), mentre altre sette sono state arrestate. La polizia ha dovuto usare ancora fumogeni per disperdere la folla rimasta in strada nonostante gli appelli a tornare a casa, arrivati anche da uno dei leader delle Pantere Nere, Malik Shabazz, giunto anche lui in città. Alle manifestazioni di sabato — prima del coprifuoco — hanno partecipato tra gli altri il reverendo Jesse Jackson, campione della difesa dei diritti civili, e il co-fondatore di Twitter, Jack Dorsey, che di St. Louis è originario. E ieri sera a partire dalle 16 (22 ora italiana) era prevista una nuova manifestazione alla presenza della famiglia della vittima e del reverendo Al Sharpton, controverso attivista dei diritti civili. Lo slogan è da una settimana «Hands up, don’t shoot» («Mani in alto, non sparate»), diventato anche l’hastag delle protesta (#handsupdontshoot)
La rabbia è esplosa dopo l’uccisione il 9 agosto del diciottenne Michael Brown da parte di un agente della polizia locale — Darren Wilson, 28 anni, bianco — in circostanze non ancora chiarite. Secondo i testimoni, il ragazzo aveva le mani alzate quando il poliziotto ha sparato, sembra diversi colpi. Ad alimentare la tensione è stato anche il comportamento, da tutti criticato, a cominciare dal presidente Barack Obama, del capo della polizia, Thomas Jackson, per aver rifiutato per sei giorni di rivelare il nome del poliziotto e poi per averlo fatto insieme alla pubblicazione di un video in cui si vedrebbe la vittima mentre ruba da un supermercato una scatola di sigari da 49 dollari, pochi minuti prima di essere ucciso. Un modo surrettizio di collegare l’intervento del poliziotto al furto, anche se l’agente non è intervenuto su Brown in quanto sospettato. «Vogliono giustificare un’esecuzione», è la protesta della famiglia. Anche il governatore ha pesantemente criticato la pubblicazione del video. Della vicenda, che sta infiammando pure altre città americane come Berkeley e Oakland, in California — dove un altro ragazzo nero è stato ucciso da un poliziotto — si stanno occupando 40 agenti dell’Fbi. Anche una nuova autopsia sarà svolta dal dipartimento della Giustizia per accertare le circostanze della morte di Brown.
Ma intanto il clima nella cittadina è sempre più teso: la notte tra venerdì e sabato è stata la più pesante. Le forze dell’ordine tuttavia non sono intervenute con i blindati e l’equipaggiamento militare esibito nei giorni scorsi. Il capitano della Highway Patrol Police, Ron Johnson, afro-americano e originario di Ferguson, cui è stato affidato l’ordine pubblico, ha preferito metodi più leggeri per non esasperare il clima.
Uscita dai confini locali, Ferguson sta facendo tornare a galla temi come la ghettizzazione degli afro-americani nei sobborghi e la eccessiva militarizzazione delle polizie locali, armate con l’equipaggiamento avanzato dalle missioni in Iraq.
Fabrizio Massaro