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 2014  agosto 17 Domenica calendario

Piccole storie di Borsa

IoDonna, 17 dicembre 1998

Speculatori e affini
Differenza, relativamente alla Borsa, tra il risparmiatore e lo speculatore. Risparmiatore: colui che compra le azioni sperando nel dividendo che la società distribuisce tutti gli anni; il risparmiatore cioè spera che il dividendo sia buono e che valga la pena tenersi le azioni tutta la vita. Speculatore: colui che compra le azioni oggi sperando che salgano di prezzo e che si possano poi vendere, già domani, con profitto; lo speculatore non ha alcun interesse al dividendo, cioè all’andamento reale della società; gli basta che l’azione si rivaluti e non importa se per caso si rivaluta per sbaglio.

Che cosa perciò dovrebbe fare un governo Un governo dovrebbe quindi incoraggiare i risparmiatori e far la guerra agli speculatori. Ma ecco invece che cosa è accaduto (fra l’altro) in Italia per scoraggiare l’acquisto di azioni in Borsa: «Al momento di pagare il dividendo, la società tratteneva il 15 per cento dell’ammontare e lo inviava al fisco insieme alla segnalazione del soggetto (persona fisica o giuridica) che lo aveva incassato» (riforma della cosiddetta "cedolare d’acconto" varata nel 1962 e abrogata, dopo vari cambiamenti, negli anni Ottanta). Risultato: fuga generale dalla Borsa. Tanto più che i titoli di Stato (o Bot) garantivano l’anonimato e non provocavano versamenti di soldi al fisco. Al contrario, la riforma non aveva effetto sugli speculatori: compro oggi a 10 e rivendo domandi a 20, senza dar niente al Fisco.

Che cosa a loro volta avrebbero dovuto fare le aziende Le aziende, per incoraggiare i risparmiatori, avrebbero a loro volta dovuto distribuire ogni anno un dividendo incoraggiante. Non bisogna dimenticare che, quando hanno bisogno di soldi (soprattutto nei periodi in cui la Borsa sale) le aziende fanno i cosiddetti "aumenti di capitale", cioè chiedono soldi ai risparmiatori di Borsa. Sarebbe giusto perciò ripagare questi risparmiatori con dividendi accettabili. Ecco invece quello che dice Mediobanca: «Tra il luglio del ’96 e il luglio del ’97 sono stati chiesti alla Borsa, tra aumenti di capitale e collocamento di nuove azioni, ben 23.030 miliardi. Ne sono stati restituiti, tra dividendi e offerte pubbliche, appena 11.000: vale a dire meno della metà". Eppure, come risulta anche da una ricerca dell’Irs, nessuna Borsa al mondo ha fornito alle aziende tanti soldi quanto la Borsa di Milano: "Le società italiane hanno raccolto mediamente ogni anno capitali per importi pari al 4,5 per cento della capitalizzazione di Borsa, contro valori del 2,4 per cento per la Germania, del 2,2 per cento per la Francia, dell’1,7 per cento per il Regno Unito, dell’1,3 per cento per gli Usa, dello 0,7 per cento per il Giappone».

Altre ragioni per cui la Borsa di Milano vale poco La Borsa di Milano vale poco anche per questa ragione: è troppo piccola, cioè vi sono quotate troppo poche società. In questo momento poco più di trecento contro le migliaia iscritte a Francoforte, Londra, Parigi. Quando una società è piccola, basta vendere poche azioni per svalutarla. Quindi un risparmiatore preferirà non investirci sopra. Infatti il 75 per cento dei contratti che si stipulano a Milano riguardano i primi 30 titoli. Nel 1986, durante il famoso crollo, Antonello Zunino, che manovrava un fondo di 10.000 miliardi, si lamentava: «Non posso muovermi liberamente. Se solo movimento l’1 per cento del patrimonio sposto l’intero listino. Non posso che appiattirmi sull’indice».

Chi si potrebbe quotare «Scorrendo le annuali classifiche di Mediobanca, è facile vedere che in Italia ci sono solamente una ventina di aziende, tra quelle non ancora quotate, che, avendo un fatturato superiore ai mille miliardi, potrebbero possedere un vero interesse per gli investitori di taglia forte. Tra queste: le acciaierie della famiglia Riva (10.000 miliardi di fatturato), la Barilla e la Ferrero (più di 3000 miliardi), la Bormioli (vetro) e la Lavazza (tra i 1000 e i 1200 miliardi). Altrimenti bisognerà accontentarsi di aziende medie, piccole o piccolissime. I Fondi e gli altri gestori avranno interesse ad acquistare quote dei bonsai italiani oppure preferiranno guardare con interesse crescente all’estero, puntando su Royal-Dutch, Nestlé, Danone, Ibm e via elencando? Da quello che si vede, la migrazione è già in corso. Lo svantaggio della Borsa in miniatura, infatti, non è superabile, perché il tessuto economico italiano è composto da una foresta di piccole e medie imprese».

Totoborsa Fino all’estate del ’45 nessuna donna mise mai piede in Borsa, non si dice per fare l’agente di cambio: nemmeno per fare la centralinista. La prima a vincere il concorso fu Anna Filippini (1976) seguita dalla marchesa napoletana Maria Teresa Sersale, con cui l’elenco delle agenti di cambio si chiude. Quanto alle impiegate, dopo il ’45 ce ne furono, ma - per toglier loro anche una parvenza di femminilità - le si chiamava con il cognome dell’agente presso cui prestavano servizio: "la Nanda del Corona" o "la Rosina del Besana". Della figlia dell’agente Gino Norsa - detta Norsina - si ricorda ancora il "seno rotondo, procace e libero nelle camicette attillate e... appuntite".

Notizie tratte da: Nino Sunseri, Piazza affari. Storia della Borsa, Longanesi, Milano 1998

Giorgio Dell’Arti