Corriere della Sera, 15 novembre 2011, 17 agosto 2014
Tags : Storia della Borsa italiana
Tutto cominciò a Venezia
Corriere della Sera, 15 novembre 2011
Che cos’è la Borsa Valori e perché si chiama così? La definizione classica è quella di un mercato nel quale si scambiano titoli di credito. Fino a pochi decenni fa un luogo fisico. Così come fisicamente tangibile era la «merce» trattata: certificati in preziosa carta filigranata, che venivano custoditi nei dossier delle banche per conto dei loro proprietari, piccoli e grandi risparmiatori. Ma che potevano anche essere tenuti nella cassaforte di casa (nel gergo della finanza c’è un termine, cassettista, che identifica chi i titoli li detiene per lunghi periodi, in contrapposizione al trader, che invece compra e vende continuamente lucrando sulle differenze di prezzo). Oggi grazie alla telematica tutto è immateriale: lo sono i titoli scambiati e lo è lo stesso mercato, il quale però continua a chiamarsi Borsa. Qual è dunque l’origine di questo termine? Benché gli storici facciano risalire al Trecento le prime «lettere di credito» oggetto di scambi presso i banchieri fiorentini, vere e proprie antenate delle odierne azioni e obbligazioni, per incontrare la parola Borsa bisogna fare un salto di un paio di secoli. E approdare ad Anversa, in Belgio, dove nel 1531 nasce il primo mercato finanziario con caratteristiche simili a quelli moderni.
A dare ospitalità a uomini d’affari, banchieri e intermediari è il palazzo di una ricca famiglia fiamminga, i van der Borse, che vanta una discendenza nobile, tanto che sul portone dell’edificio è inciso in bassorilievo lo stemma del casato: tre borse (intese esattamente come contenitori di oggetti o documenti). Da qui la possibile origine del nome. C’è anche chi ha ipotizzato (ma la tesi è controversa) che questa famiglia fosse di origine italiana, in particolare veneziana. Il cognome originale sarebbe stato proprio Borsa, diventato van der Bourse soltanto dopo il trasferimento in Belgio.
Insomma, da Venezia, città da sempre all’avanguardia nel commercio internazionale, sarebbe partita la storia della Borsa moderna. La tesi, pur non provata scientificamente, è certamente suggestiva. Ed è confortata da una straordinaria coincidenza: a Venezia è sorta la prima Borsa italiana. La data di nascita è il 1600. Bisognerà aspettare più di un secolo prima di trovare traccia della seconda, quella di Trieste, che ha aperto i battenti nel 1775. Tutte le altre — in Italia fino all’avvento della telematica si contavano ben nove Borse Valori — risalgono ai primi dell’Ottocento. Quella di Milano, diventata ben presto la più importante del Paese, è datata 1808. Pur attraverso guerre e cambiamenti politici, nel tempo la Borsa di Milano non ha mai smesso di funzionare. Dall’Impero napoleonico alla dominazione austriaca, dall’Unità d’Italia al Fascismo, dalla Resistenza a Tangentopoli, il mercato finanziario milanese ha conosciuto rapidi periodi di sviluppo e altrettanto rapide cadute, ma è sempre rimasto un punto di riferimento per l’economia del Paese. Una presenza costante, nonostante non siano mancati scontri e tensioni. Come quando, nel 1956, il mercato si bloccò per ben tre mesi, da giugno ad agosto, per lo sciopero degli intermediari contro l’introduzione di nuove norme fiscali, note come «decreti Tremelloni» dal nome dell’allora ministro delle Finanze. La protesta interruppe una lunga fase di rialzi, alla quale sono legati due personaggi-simbolo: Giulio Brusadelli e Giulio Riva, imprenditori diventati spericolati finanzieri.
Gli anni Sessanta, invece, furono caratterizzati dalle gesta di Michelangelo Virgillito, un piccolo costruttore edile siciliano che riuscì a costruire, grazie a fortunate operazioni borsistiche, un vero e proprio impero finanziario. È a lui che per primo venne attribuito l’appellativo di «fuochista», sinonimo di «rialzista» (colui che soffia sul fuoco del rialzo). Il successivo periodo, caratterizzato dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica, vede invece le quotazioni delle azioni crollare. Ma anche questa fase ha il suo interprete rappresentativo: Aldo Ravelli, il primo ad applicare lo strumento dello short selling (vendite allo scoperto), facendone anzi una filosofia operativa, che permette di guadagnare nei periodi di forti ribassi.
Negli anni successivi altri nomi caratterizzeranno la vita della Borsa italiana. Alcuni, come Michele Sindona e Roberto Calvi, finiranno tragicamente i loro giorni. Ma intanto la stagione degli operatori d’assalto, come venivano definiti per la loro temerarietà, stava ormai per concludersi. Non solo: la Borsa italiana, quasi a segnare un netto confine con il passato, cambiava pelle sotto i colpi di riforme epocali, come l’abolizione degli agenti di cambio (che avevano sempre mantenuto il monopolio dell’intermediazione e ai quali era riconosciuto lo status di pubblico ufficiale) o come, soprattutto, la fine delle cosiddette «grida», sostituite dalle compravendite in automatico attraverso il web. A tutto ciò va aggiunta la trasformazione giuridica della Borsa stessa, che da ente pubblico si trasforma in società per azioni.
L’inizio dell’era telematica porta la data del 25 novembre 1991, un lunedì, quando in via sperimentale per cinque titoli azionari inizia la contrattazione continua attraverso l’immissione in Rete degli ordini di acquisto e vendita. L’informatizzazione del listino si completerà poi nel 1994, quando va definitivamente in soffitta l’antico rito delle «grida», che si svolgeva nelle corbeille, recinti intorno ai quali si disponevano gli agenti di cambio per contrattare ad alta voce prezzi e quantità su ciascun titolo chiamato da uno speaker secondo un rigoroso cerimoniale. Da allora la gestione degli scambi è affidata a un sistema informatico, freddo e impersonale ma anche assolutamente imparziale.
Che cos’è la Borsa Valori e perché si chiama così? La definizione classica è quella di un mercato nel quale si scambiano titoli di credito. Fino a pochi decenni fa un luogo fisico. Così come fisicamente tangibile era la «merce» trattata: certificati in preziosa carta filigranata, che venivano custoditi nei dossier delle banche per conto dei loro proprietari, piccoli e grandi risparmiatori. Ma che potevano anche essere tenuti nella cassaforte di casa (nel gergo della finanza c’è un termine, cassettista, che identifica chi i titoli li detiene per lunghi periodi, in contrapposizione al trader, che invece compra e vende continuamente lucrando sulle differenze di prezzo). Oggi grazie alla telematica tutto è immateriale: lo sono i titoli scambiati e lo è lo stesso mercato, il quale però continua a chiamarsi Borsa. Qual è dunque l’origine di questo termine? Benché gli storici facciano risalire al Trecento le prime «lettere di credito» oggetto di scambi presso i banchieri fiorentini, vere e proprie antenate delle odierne azioni e obbligazioni, per incontrare la parola Borsa bisogna fare un salto di un paio di secoli. E approdare ad Anversa, in Belgio, dove nel 1531 nasce il primo mercato finanziario con caratteristiche simili a quelli moderni.
A dare ospitalità a uomini d’affari, banchieri e intermediari è il palazzo di una ricca famiglia fiamminga, i van der Borse, che vanta una discendenza nobile, tanto che sul portone dell’edificio è inciso in bassorilievo lo stemma del casato: tre borse (intese esattamente come contenitori di oggetti o documenti). Da qui la possibile origine del nome. C’è anche chi ha ipotizzato (ma la tesi è controversa) che questa famiglia fosse di origine italiana, in particolare veneziana. Il cognome originale sarebbe stato proprio Borsa, diventato van der Bourse soltanto dopo il trasferimento in Belgio.
Insomma, da Venezia, città da sempre all’avanguardia nel commercio internazionale, sarebbe partita la storia della Borsa moderna. La tesi, pur non provata scientificamente, è certamente suggestiva. Ed è confortata da una straordinaria coincidenza: a Venezia è sorta la prima Borsa italiana. La data di nascita è il 1600. Bisognerà aspettare più di un secolo prima di trovare traccia della seconda, quella di Trieste, che ha aperto i battenti nel 1775. Tutte le altre — in Italia fino all’avvento della telematica si contavano ben nove Borse Valori — risalgono ai primi dell’Ottocento. Quella di Milano, diventata ben presto la più importante del Paese, è datata 1808. Pur attraverso guerre e cambiamenti politici, nel tempo la Borsa di Milano non ha mai smesso di funzionare. Dall’Impero napoleonico alla dominazione austriaca, dall’Unità d’Italia al Fascismo, dalla Resistenza a Tangentopoli, il mercato finanziario milanese ha conosciuto rapidi periodi di sviluppo e altrettanto rapide cadute, ma è sempre rimasto un punto di riferimento per l’economia del Paese. Una presenza costante, nonostante non siano mancati scontri e tensioni. Come quando, nel 1956, il mercato si bloccò per ben tre mesi, da giugno ad agosto, per lo sciopero degli intermediari contro l’introduzione di nuove norme fiscali, note come «decreti Tremelloni» dal nome dell’allora ministro delle Finanze. La protesta interruppe una lunga fase di rialzi, alla quale sono legati due personaggi-simbolo: Giulio Brusadelli e Giulio Riva, imprenditori diventati spericolati finanzieri.
Gli anni Sessanta, invece, furono caratterizzati dalle gesta di Michelangelo Virgillito, un piccolo costruttore edile siciliano che riuscì a costruire, grazie a fortunate operazioni borsistiche, un vero e proprio impero finanziario. È a lui che per primo venne attribuito l’appellativo di «fuochista», sinonimo di «rialzista» (colui che soffia sul fuoco del rialzo). Il successivo periodo, caratterizzato dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica, vede invece le quotazioni delle azioni crollare. Ma anche questa fase ha il suo interprete rappresentativo: Aldo Ravelli, il primo ad applicare lo strumento dello short selling (vendite allo scoperto), facendone anzi una filosofia operativa, che permette di guadagnare nei periodi di forti ribassi.
Negli anni successivi altri nomi caratterizzeranno la vita della Borsa italiana. Alcuni, come Michele Sindona e Roberto Calvi, finiranno tragicamente i loro giorni. Ma intanto la stagione degli operatori d’assalto, come venivano definiti per la loro temerarietà, stava ormai per concludersi. Non solo: la Borsa italiana, quasi a segnare un netto confine con il passato, cambiava pelle sotto i colpi di riforme epocali, come l’abolizione degli agenti di cambio (che avevano sempre mantenuto il monopolio dell’intermediazione e ai quali era riconosciuto lo status di pubblico ufficiale) o come, soprattutto, la fine delle cosiddette «grida», sostituite dalle compravendite in automatico attraverso il web. A tutto ciò va aggiunta la trasformazione giuridica della Borsa stessa, che da ente pubblico si trasforma in società per azioni.
L’inizio dell’era telematica porta la data del 25 novembre 1991, un lunedì, quando in via sperimentale per cinque titoli azionari inizia la contrattazione continua attraverso l’immissione in Rete degli ordini di acquisto e vendita. L’informatizzazione del listino si completerà poi nel 1994, quando va definitivamente in soffitta l’antico rito delle «grida», che si svolgeva nelle corbeille, recinti intorno ai quali si disponevano gli agenti di cambio per contrattare ad alta voce prezzi e quantità su ciascun titolo chiamato da uno speaker secondo un rigoroso cerimoniale. Da allora la gestione degli scambi è affidata a un sistema informatico, freddo e impersonale ma anche assolutamente imparziale.
Giacomo Ferrari