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 2014  agosto 15 Venerdì calendario

Fulvia Caprara sulla Stampa del 14/8/2014

La Stampa, 14/8/2014
LAUREN BACALL L’ULTIMA DIVA –
Nello sguardo che fece di lei la diva incontrastata del cinema più cinema di tutti i tempi, quello delle avventure mozzafiato e delle commedie spumeggianti, quello delle dark ladies e dei melò a tinte forti, c’era una miscela insolita di fascino e sarcasmo, mistero e ironia, eleganza e intelligenza, niente a che vedere con le altre attrici della stessa epoca. D’altra parte, chi mai sarebbe riuscita a catturare, senza armi di quel genere, l’uomo dei sogni, il re del disincanto, il divo non più bello, ma più desiderabile di tutti?
Quando la vide per la prima volta, nel 1944, sul set di Acque del Sud, Humphrey Bogart perse subito la testa per quella ventenne che avrebbe voluto essere ballerina e che, invece, grazie a una foto sulla copertina di Harper’s Bazar, era stata scelta per interpretare il personaggio di Slim nella trasposizione del romanzo di Hemingway To Have and Have not. Il contrasto tra la matura virilità di Bogart e la disinvoltura sfrontata della giovane esordiente fece il successo della pellicola e tracimò dal grande schermo, dando vita a un amore intenso e saldo, uno di quei miracoli che di rado si realizzano a Hollywood: «Se mi vuoi - era la battuta pronunciata, nel film, dalla ragazzina mentre usciva dalla stanza di lui - non hai che da fare un fischio. Sai fischiare, no? Unisci le labbra, così, e soffia». Per questo, sulla bara di Bogart stroncato da un tumore, il 14 gennaio ‘57, Lauren Bacall volle che ci fosse un fischietto: «In lui - spiegherà anni dopo - c’era qualcosa che traspariva ogni volta, qualunque ruolo recitasse. Credo che sarà sempre affascinante, per questa generazione, e anche per tutte quelle che seguiranno».
Di lei, che in realtà si chiamava Betty Joan Perske ed era nata a New York da un padre di origine polacca e una madre di provenienza ebrea-rumena-tedesca, si capì subito che non era una stella destinata a cadere. Dopo gli studi alla New York School of Theatre, vennero gli anni dorati dei film con il marito, soprattutto Il grande sonno, ancora di Hawks, nel ‘46, e Key Largo - L’isola del corallo di John Huston, poi Chimere di Michael Curtiz in cui recitò al fianco di Kirk Douglas e Le foglie d’oro, con Gary Cooper. Accanto a Marilyn Monroe, nel ’53, Bacall, diretta da Jean Negulesco, incarnò, in Come sposare un milionario, un personaggio che le apparteneva profondamente, l’opposto della bionda svaporata, il prototipo della ragazza bella e sveglia che gli uomini li usa, senza farsi usare, con un sorriso smagliante e la consapevolezza che, dalla guerra fra i sessi, sarà lei a uscire vincitrice.
Al dolore per la fine di Bogart, Bacall, che con lui aveva avuto due figli, rispose senza fermarsi e senza mettersi da parte, né nella vita né nel lavoro. Il primo flirt da neo vedova arrivò con Frank Sinatra, poi fu la volta del secondo marito, Jason Robards, e di un’altra maternità, prima del divorzio, dopo otto anni di convivenza: «Durante i miei due matrimoni ho sempre messo la mia carriera in secondo piano e ne ho sofferto. Non ho nessun rammarico, nella vita si fanno delle scelte, se vuoi avere una buona intesa coniugale devi metterci cura e attenzione».
Eppure la tempra ferrea necessaria a tenere tutto insieme non le è mai mancata. Così come la chiarezza nelle idee politiche democratiche («Sono una democratica totale - diceva - antirepubblicana, ed è bene che voi lo sappiate, sono una liberal, la mia lettera è L»), la capacità di raccontare se stessa e il suo mondo nelle due biografie (Lauren Bacall by myself del ‘79 e Now del ‘94), la tenacia per fare teatro nei periodi di lontananza dal set, il coraggio di polemizzare con le majors abituate a dettare legge, la lucidità per recuperare il valore delle sue origini ebraiche, celate ai tempi del debutto per il timore di reazioni negative. Cugina di primo grado dello statista israeliano Shimon Peres (di cui portava lo stesso cognome, Perske), Bacall tornò al cinema con la bellezza altera offuscata dagli anni (in Pret à porter di Altman e perfino con il maniacale Lars von Trier, in Dogville e in Manderlay) fino all’Oscar alla carriera nel 2010.
A tenerla viva e salda, nella giungla hollywoodiana, erano stati i pochi rimpianti («Non aver interpretato Rossella O’Hara in Via col vento e non aver girato un film importante insieme a Mastroianni) e alcune, granitiche, convinzioni: «Credo che l’humour sia la chiave di tutto, prendersi sul serio è mortale... quando si passa gran parte della vita da soli, come ho fatto io, ci si costruisce una corazza. Io me la so cavare da sola, sempre, non chiedo aiuto a nessuno». Ad avere bisogno di lei sono stati, piuttosto, gli altri, il pubblico, i registi, gli attori, i compagni di vita. Come Bogart quando, per avere Slim, doveva solo avvicinare le labbra e soffiare.

Fulvia Caprara