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 2014  agosto 12 Martedì calendario

L’ultima notte di John Belushi

Rolling Stone, marzo 2012
 Era circa mezzanotte quando De Niro arrivò insieme all’attore Harry Dean Stanton. Catherine e Stanton si sedettero a chiacchierare e decisero di andare a cena insieme uno di quei giorni. John vide De Niro e gli chiese di raggiungerlo al bungalow quando chiudeva l’On the Rox. L’altro disse che sarebbe passato a trovarlo. John parlò con Lou Adier. Adier gli chiese di Alyce Kuhn, la ex compagna di casa di Jeremy Rain, che aveva conosciuto a febbraio quando erano passati di lì dopo il concerto dei Police. Alyce Kuhn, una donna bellissima, snella e molto sportiva, abitava a casa della sorella, nel quartiere residenziale di Rodeo Drive. Si stava preparando ad andare a letto quando suonò il telefono. «Ciao, sono John. Sono qui all’On the Rox con Lou Adier. Perché non vieni anche tu?» Alyce Kuhn adorava John, era una delle cose più belle della sua vita, ma disse che era troppo tardi. E poi sarebbero andati a cena l’indomani insieme a Jeremy Rain. «Be’, forse Lou riesce a convincerti», disse John passando la comunicazione ad Adier, che si limitò a salutarla e a confermare l’appuntamento per la sera dopo. Poi ripassò la comunicazione a John. «Dai, perché non vieni qui?» «No», disse lei. «E troppo tardi.» «Lasciami venire a casa tua, così posso andare in bicicletta in sala e fare un po’ di pattinaggio per i corridoi.» Alyce rise e disse di no. «Ci siamo divertiti un sacco insieme, vero?» le chiese. Al concerto dei Police, le ricordò. Il party, la cena, la limousine. Non era stato divertente? Alyce rispose di sì, che era stato molto divertente. Lui voleva continuare a chiacchierare. «John, vai a casa e dormi, ci vediamo domani sera.» John presentò Richard Bear a Nelson Lyon, dicendo che quest’ultimo avrebbe diretto il film punk. Bear pensò che Lyon si fosse fatto di eroina, perché aveva un’aria molto assente. Più tardi Bear scese al parcheggio con John e gli disse che pensava di trasferirsi permanentemente a Los Angeles. La cosa scatenò un torrente di proteste da parte di John. «Io non vedo l’ora di andarmene da questa città del cazzo. Odio questo posto di merda. Odio la gente. Le palle. Odio gli studi. Vieni qui quarantott’ore e poi alza le chiappe. Grazie a Dio, me ne vado. Grazie a Dio è la mia ultima notte a LA.» Bear disse che doveva andare via. «Senti, vediamoci più tardi», disse John e gli spiegò dove si trovava il suo bungalow. Avrebbe parlato della nuova sceneggiatura. Ci sarebbe stato anche De Niro. Richard Bear stava andando a un altro party, ma disse che forse sarebbe passato. Erano circa le due, John, Catherine e Nelson aspettavano la Mercedes nel parcheggio dell’On the Rox. John vide qualcuno che spacciava e comprò un grammo di coca per 100 dollari. «Ho della coca», disse a Catherine. «Torniamo al Marmont.» Le chiese se voleva guidare. Lei adorava la Mercedes. Si mise al volante e si diresse a est, giù per il Sunset. John le chiese di fermarsi in fretta. Catherine girò in una stazione di servizio chiusa. «Sto male», disse John aprendo la portiera. Vomitò ansimando. Al Chateau, Nelson e Catherine lo aiutarono a entrare nel bungalow. John andò in bagno e vomitò di nuovo. «John, come stai?» chiese Catherine. «... Che cos’è che ti ha fatto male?» «Non so», disse. «Deve essere stata quella roba unta che ho mangiato da Rainbow.» Poi disse a Lyon che sarebbe uscito un attimo con Cathy, e se ne andò. Quella sera il comico Robin Williams si era fermato al Comedy Store sul Sunset Boulevard. Come spesso accadeva ci era andato spinto da un impulso di fare un’improvvisazione di 30 minuti. Scelse di farla all’1.30, il momento che preferiva; c’era meno tensione a quell’ora del mattino. Dal palcoscenico scherzò con un ubriaco tra il pubblico. Williams si stava preparando per una lunga tournée in cui avrebbe toccato sessanta città. Anche se era tardi, il pubblico cordiale e la direzione era soddisfatta di averlo lì (Williams non si faceva pagare), provava sempre una certa trepidazione quando si esibiva dal vivo. Aveva bisogno di provare quella sensazione di tanto in tanto, però. Era una specie di terapia. Se passava troppo tempo dalla sua ultima esibizione dal vivo, Williams sentiva che dentro di sé c’era qualcosa che non funzionava. Quando si sentiva teso o le cose non andavano come sarebbero dovute andare, andava al Comedy Store. Quando ebbe finito quella sera, percorse i pochi isolati che lo separavano dall’On the Rox, ma il locale era già chiuso. Il parcheggio era affollato. Uno dei buttafuori lo notò e gli disse che Belushi e De Niro l’avevano cercato. Williams telefonò a De Niro, e venne a sapere che aveva appuntamento da John. Robin Williams salì sulla sua BMW metallizzata e si diresse verso il Chateau. Nelson Lyon lo fece entrare e disse che John sarebbe tornato subito. Williams chiamò il numero della stanza di De Niro. «Ehi, dove sei?» gli chiese sentendosi a disagio. Dall’altro capo del telefono sentiva le voci di almeno due donne in camera. «Non posso venire adesso», rispose De Niro. Poco dopo squillò il telefono e Williams rispose. Era Derf Scratch che stava ancora aspettando John a casa sua. Williams disse che sarebbe dovuto tornare all’hotel da un momento all’altro. Qualche minuto dopo John entrò nel bungalow. Salutò calorosamente Williams e si sedette sul divano con Catherine Smith. Lei fu molto contenta di conoscere Robin Williams. L’aveva visto una volta al Comedy Store e l’aveva trovato brillante. Ed eccolo lì, così dolce e modesto. Dal momento in cui Catherine Smith aveva varcato la soglia, il disagio di Williams era aumentato. Non aveva mai visto John con una donna simile. Non si considerava certo un pivellino, ma Catherine Smith lo terrorizzava. Lei e Lyon sembravano fuori posto nella vita di John, o almeno a lui davano quell’impressione. Perfino la stanza, sporca e in disordine, sembrava non appartenergli. C’erano in giro dozzine di bottiglie di vino aperte, e Williams si chiese cosa stesse combinando John, e perché. Era così grasso e depresso. Emanava una certa malinconia. Sembrava non imbarazzato, ma dispiaciuto perché Williams lo vedeva in quelle condizioni. John prese la chitarra e suonò alcuni accordi; insoddisfatto, lasciò perdere. Si alzò e tirò fuori della coca. Ne diede anche a Williams. Poi si risedette e abbandonò la testa come se si fosse improvvisamente addormentato. Dopo cinque secondi la tirò su. «Che cosa succede?» chiese Williams che non aveva mai visto nessuno tornare in sé con tanta rapidità. «Stai bene?» «Sì», rispose John distrattamente. «Ho preso un paio di Quaalude.» Sembrava sul punto di addormentarsi. Williams decise che era ora di andarsene. Gli dispiaceva per John e pensò che se l’avesse conosciuto meglio sarebbe riuscito a capire che cosa c’era che non andava – forse avrebbe persino potuto raccomandargli di lasciar perdere quella strana compagnia e di uscire da quell’aura di decadenza che si respirava nella stanza. Ma fu soltanto un pensiero. Williams si rese conto di essere tagliato fuori da quell’ambiente. Si alzò e augurò la buonanotte. Mentre se ne andava vide la carta geografica della regione vinicola e indicò la strada che passava dal suo ranch. «Io vivo lì», disse. Sapeva che John aveva fatto delle escursioni nei vigneti di recente. «Se passi di lì, vieni a trovarmi.» John lo ringraziò e si voltò dall’altra parte. Williams tomo alla sua casa di Topanga Canyon, vicino alla spiaggia e raccontò alla moglie. Valerie, di aver visto Belushi. «Mio Dio, era con questa tipa – una testa – metteva paura». Al bungalow apparve De Niro, entrato dalla porta a vetri sul retro. Catherine Smith non volle stringergli la mano. Il suo sguardo tranquillo e penetrante sembrava dire: sta’ al tuo posto, sta’ attenta. Prendi pure della coca, disse John. De Niro ne tirò un po’ dal tavolo. Trovò Catherine Smith terribilmente squallida, e si stupì che John girasse con una donna del genere. John gli parve giù di corda. Non avevano molto da dirsi, e così tornò in camera sua poco dopo le 3. John disse che aveva freddo e alzò il riscaldamento. «Andatevene tutti», disse a Catherine. Erano rimasti soltanto lei e Nelson Lyon. In due giorni e mezzo, Lyon si era fatto almeno dodici buchi di coca e di speedball. Considerò che si era fatto tardi e che aveva lasciato Viviane a casa da sola; era stanchissimo e di malumore. La serata era stata noiosa, non come quelle eccitanti e divertenti che passava con John quando ancora non si facevano in quel modo, quando con lui si poteva scherzare, chiacchierare e ridere. «Me ne vado», gli disse. «Tu non puoi guidare in quelle condizioni e con lei non ci voglio andare. Mi farò chiamare un taxi.» «Non ce n’è bisogno», disse John. «Basta che tu vada sul Sunset.» «Sei pazzo», disse Lyon. «Figurati se uno può mettersi lì ad aspettare che passi un taxi vuoto.» «Ci sono un sacco di taxi sul Sunset», replicò John. Lyon decise di credergli. «Hai 10 dollari?» chiese John che apparentemente aveva finito i contanti. «Sì», rispose Lyon. «Me li presti?» Lyon gli diede i 10 dollari e se ne andò. Nel giro di due minuti, con sua grande sorpresa, trovò un taxi. «Vuoi che me ne vada anch’io?» chiese Catherine. «No, resta qui. Mi puoi procurare dell’altra coca?» Lei gli disse che non avrebbe saputo in che modo, data l’ora. «Sono giorni che non dormi. Perché non cerchi di dormire un po’?» John tirò fuori dell’altra coca dalla tasca. Catherine la mischiò con l’eroina per una speedball. Si fece lei il primo buco e poi ne preparò uno per John con 5 centigrammi di coca e 5 di eroina. John andò a farsi una doccia e lei gli lavò la schiena, poi fece la doccia a sua volta. I vestiti di Catherine erano sporchi e lui le disse di mettersi il suo completo da jogging nuovo, l’ultimo regalo di Michael Ovitz. Si sedette sul letto: voleva parlare. Riconsiderarono le diverse sceneggiature e i vari contratti in sospeso, Noble Rot, The Joy of Sex, Moon Over Miami di Malle, e i film che stava scrivendo Danny. Catherine Smith cercò di provocarlo sessualmente. Era un tentativo più per la compagnia che altro. A John la cosa non interessava. Lei sapeva bene che la droga uccide il desiderio. John disse che aveva i brividi. «Mettiti sotto le coperte. Ti alzo il riscaldamento.» Gli rimboccò le coperte e alzò il termostato. Alle 5.30 circa, Richard Bear se ne andò dal party e cercò di decidere se fosse il caso di fermarsi da John. Da quello che John gli aveva detto sul film punk, pensò che al bungalow si facesse dell’eroina. Al pomeriggio aveva un appuntamento con un cantante rock e, benché fosse completamente sveglio e avesse tirato parecchia coca, pensò che gli avrebbe fatto bene dormire. Però la compagnia al bungalow di John sembrava interessante. Era a metà strada tra casa di Schumer, dove stava e il Chateau. Da che parte va la macchina? pensò. Alla fine decise di tornare indietro e di riposare un poco per non essere troppo sfatto al momento del meeting. Al bungalow Catherine Smith andò in salotto e si mise a scrivere una lettera per Bernie Fielder sul notes giallo. Fielder era il proprietario del Riverboat Club di Toronto, dove lei aveva conosciuto Gordon Lightfoot, una relazione durata quattro anni durante i quali aveva trascorso i suoi giorni più belli e anche quelli più terribili, tante preoccupazioni, ambizioni, desideri. (......)  

Si fermò all’inizio della terza pagina. Voleva tornare nell’appartamento di Ponse sulla Bimini, chissà se avrebbe potuto prendere la macchina di John? Si alzò e andò in camera. «Hai fame?» gli chiese. John borbottò qualche cosa e le fece segno di andarsene. Catherine tornò in salotto e cercò di telefonare in Canada. Poi sentì John che tossiva e ansimava in modo strano e tornò a vedere come stava. Sembrava che stesse soffocando. Lo scoprì. «John, stai bene?» «Sì», disse lui svegliandosi. «Che c’è che non va?» «Facevi degli strani rumori... Vuoi un bicchiere d’acqua?» Andò a prenderlo, ritornò e glielo porse. John ne bevve un paio di sorsi e disse che aveva i polmoni congestionati. Catherine disse che sarebbe andata a prendere qualcosa da mangiare. «Non tè ne andare», disse John con voce lamentosa. Si infilò sotto le coperte, si voltò sul fianco destro e chiuse gli occhi. Catherine chiamò il room service, ma non ottenne risposta. Telefonò ad April Milstead, ma anche lei non rispose. Riprovò il room service e questa volta riuscì a trovare qualcuno. Ordinò due fette di pane tostato, confettura e miele e un bricco di caffè. Circa 15 minuti dopo arrivò la cameriera, lei aggiunse un dollaro di mancia e firmò la ricevuta del conto di 4 dollari e 50 a nome di Belushi. Alle 10 circa Gigi Givertz, l’assistente di Brillstein, cercò di telefonare al bungalow numero 3, ma la reception le disse che sulla linea di John c’era il segnale «non disturbare». Alle 10.15 Catherine controllò John. Sembrava che stesse bene e russava forte. Mise in borsa la siringa e il cucchiaio che avevano usato perché non voleva che li trovasse la donna delle pulizie. Prese la macchina di John e andò al bar di Rudy a Santa Monica per bere un brandy e puntare 6 dollari su un cavallo. Intorno alle 11, sia Leslie Marks sia Jeff Katzenberg lasciarono dei messaggi telefonici per John. Jeremy Rain, che non era ancora riuscita a parlare con Belushi dalla sera di mercoledì in cui aveva chiamato tutti gli hotel di Las Vegas, telefonò alle 11.47 e le dissero che il telefono era staccato. Se non altro significava che John era tornato e finalmente dormiva. Le pareva che per tre giorni fosse stato sulla luna. Dettò alla centralinista il seguente messaggio: «Ben tornato sul pianeta Terra!» Bill Wallace, rientrato da Memphis dopo il divorzio, aveva lasciato due messaggi al Marmont. Intorno a mezzogiorno stava facendo spese con la sua ragazza, Susan Morton, e si fermò da Brillstein a ritirare la macchina per scrivere e il registratore per John e glieli portarono al Chateau. «Merda», esclamò Bill notando che non c’era la macchina di John; decise di portare la macchina per scrivere nel bungalow, mentre Susan faceva benzina nella stazione di servizio dietro l’angolo. Quando Wallace arrivò al bungalow, bussò ripetutamente, ma nessuno rispose; allora aprì con la sua chiave. Posò la macchina e gettò uno sguardo in direzione della camera da letto. Sembrava che ci fosse qualcuno nel letto. Se fosse stato John che dormiva, lo si sarebbe sentito russare. Wallace non avvertì neppure il respiro rauco. L’aria nel bungalow era caldissima, secca, faceva fatica a respirare. Il disordine era quello di John, deliberato. Wallace provò una strana inquietudine mentre attraversava gli otto metri di corridoio che lo separavano dalla camera. Sotto le coperte si intravedeva una forma in posizione fetale con la testa sotto il cuscino. Wallace riconobbe la mole di John. Lentamente si avvicinò al letto, gli toccò la spalla e lo scosse gentilmente. «John, è ora di alzarsi», disse. Non ricevette risposta, non un gemito, né il minimo movimento. «John», ripeté, «è ora di alzarsi.» Nulla. Wallace levò con cura il cuscino. Le labbra di John erano viola e la lingua sporgeva parzialmente. Era immobile. Qualcosa scoppiò dentro Wallace: gli avevano insegnato rianimazione cardiopolmonare alla Memphis State e riconobbe i segni dell’insufficienza respiratoria. Girò sul dorso il corpo nudo e pesante di John. Il lato destro, in cui doveva essersi fermato il sangue, era spaventosamente nero. Con il cuore in gola, infilò le dita tremanti nella bocca di John e ne tirò fuori del liquido che si sparse sul lenzuolo. Aveva un odore rancido. Quasi senza rendersi conto di ciò che stava facendo, appoggiò la sua bocca su quella di John e gli praticò la respirazione artificiale. Provò per diversi minuti, all’esperienza subentrava l’orrore. Il corpo era freddo, gli occhi vitrei. Non un solo movimento, un respiro, un sussulto, un lamento. John era morto, se nera andato. Ma c’era in lui una speranza irrazionale. Le lacrime scorrevano sul suo viso. Era disorientato. La stanza era tranquilla. C’era un bicchiere di vino sulla toeletta. Su uno sgabello c’era la sceneggiatura di The Joy of Sex, il numero di aprile, non ancora apparso in edicola, di Playboy con Mariel Hemingway in copertina; una cintura con le borchie punk; della polvere sul tavolo; per terra, le scarpe da jogging rosse di John. BilI Wallace scosse il corpo, ricominciò la respirazione bocca a bocca e poi gemette: «Brutto figlio di puttana! Brutto figlio di puttana! Brutto figlio di puttana!».

Robert Woodward