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 2014  agosto 09 Sabato calendario

Gli davano tutti addosso

Il Giornale, 28 aprile 2011

Pochi giorni prima di morire nel feb­braio 2005, Ar­thur Miller confes­sava a un’amica, «quando mi senti­vo deluso o tradito dalla vita, avevo pur sempre la mia scrit­tura». Una dichiarazione par­ticolarmente toccante se si pensa che gli ultimi qua­rant’anni della vita del gran­de scrittore americano, ossia dopo i successi dei suoi dram­mi presto diventati dei classi­ci quali Erano tutti miei figli, Il Crogiuolo, Morte di un com­messo viaggiatore, Uno sguar­do dal ponte, e il penoso divor­zio dalla seconda moglie Ma­rilyn Monroe, sono stati co­stellati di amarezze, di criti­che e di sferzanti attacchi al suo nuovo lavoro, che lottò per vedere allestito nel suo paese. Per poi immancabil­mente subire il disprezzo e il sarcasmo di una critica fero­ce che giudicava le sue nuove pièces delle prediche tediose e mal scritte: Miller, aveva de­ciso il «teatro spaventato di Broadway», come egli stesso lo definiva, era un relitto del periodo postbellico, fermo al­le battaglie ideologiche del passato, e completamente estraneo al teatro moderno. Noel Coward decretava Do­po la caduta (1964) - in cui l’autore cercava di analizza­re il suo rapporto con Mari­lyn Monroe e al tempo stesso trattava i temi dei campi di concentramento nazisti e del­le persecuzini politiche mac­cartiste­ - un lavoro adolescen­ziale, di cattivo gusto se non addirittura volgare, il prodot­to di una mente mediocre. Mentre Susan Sontag espri­meva la sua indignazione per «la sconcertante impertinen­za dell’autore a mettere sullo stesso livello problemi perso­nali e problemi pubblici».
Erano le sue istanze morali­stiche a irritare la critica e il pubblico degli Stati Uniti, che lo accusavano di atteg­giarsi a grande pensatore, «l’onesto Abe Lincoln delle lettere americane che pontifi­ca dall’alto per curare l’ani­ma malata della repubblica». Ormai in America il suo lavo­ro non avrebbe più riscosso la minima approvazione, non solo si sparava a zero sul nuovo, ma ogni occasione era buona per denigrare il vecchio. Per uno scrittore che si sentiva profondamen­t­e americano fu un dolore dif­ficile da elaborare. Fino alla morte fu bersaglio prediletto tanto della destra che della si­nistra, ma non si diede mai per vinto, persistendo nella scrittura fino all’ultimo. In Europa era un’altra fac­cenda, le sue commedie era­no allestite ovunque e accol­te con entusiasmo, non ulti­mo in Inghilterra, dove il pub­blico era abituato ad accetta­re il teatro come arena di di­scussione dei problemi politi­ci e sociali. Attori e registi ap­plaudivano il suo sforzo di da­re un senso a un Ventesimo secolo pieno di orrori e ai pa­radossi delle sue proprie esperienze, affascinati sem­pre ­dai suoi tentativi di elabo­rare drammaticamente il suo vissuto e i suoi pensieri, la sua ebraicità problematica e sempre presente, l’adesione al comunismo, le depressio­ni, i tradimenti. «I miei dram­mi sono la mia autobiografia, ammetteva, non scrivo pièces politiche per dibattere problemi specifici, mi interes­sano gli eventi della vita per la loro influenza sugli indivi­dui… il mio lavoro tratta dell’individuo visto, spero, in una totalità di cui la società è una parte».
Tutto questo illustra il se­condo volume dell’eccellen­te e illuminante biografia di Christopher Bigsby Arthur Miller 1962-2005 (Londra, Edizioni Weidenfeld & Nicolson, pagg. 624, sterline 30) in cui troviamo tutte le virtù del primo, Arthur Miller
1915-1962
uscito nel 2008, che terminava con il divorzio da Marilyn Monroe e il matri­monio con Inge Morath, la fo­tografa intelligente e sensibi­le della Magnum, giá amante di Cartier-Bresson. Per trent’anni amico e ammirato­re di Miller, Bigsby è ora il suo studioso più scrupoloso, pro­fessore per gli Studi america­n­i all’Università dell’East An­glia e direttore dell’Arthur Miller Centre of American Studies, ha avuto accesso esclusivo a una mole di taccu­ini e scritti inediti dai quail emerge il ritratto di un uomo che per sua ammissione ha scartato il 90 per cento di quello che ha scritto. La sua apparente sicurezza in pub­blico tradiva in realtà lunghi momenti di depressione e di dubbio. Sensibilità estrema, «ci sono momenti in cui uno sente il peso dell’intero mon­do sulle spalle», confessò Mil­ler una volta.
Osservatore attento e saga­ce interprete della sua opera, il biografo ne subisce tutto il fascino non senza mantene­re una visione oggettiva, ana­lizza­ndo e mettendo in conte­sto tanto le critiche dei detrat­tori quanto gli intenti dram­matici dell’autore.
Questa seconda parte rac­conta il crescente attivismo politico di Miller, come elo­quente critico della politica estera americana da Lyndon Johnson a George W. Bush, come presidente dell’Inter­national PEN Club nella lotta per la libertà degli scrittori dissidenti in paesi come la Ci­na, la Russia, la Cecoslovac­chia, la Turchia. Racconta an­che del lungo e felice matri­monio con Inge Morath, au­striaca di origine, che l’aiutò ad affrontare il problema per lui inaffrontabile dell’Olocau­sto. Dopo «la straordinaria mancanza di risorse persona­li» di Marilyn, le parole sono di Miller, la sicurezza di Inge fu un’iniezione di vita. Ma non mancarono le pagine tri­sti in un matrimonio da cui nacquero Rebecca (oggi mo­glie di Daniel Day-Lewis) e Daniel, il figlio afflitto dalla sindrome di Down abbando­nato in un ospizio e per lungo tempo ripudiato.
Aridea Fezzi Price