9 agosto 2014
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Vita e opere
MILLER Arthur New York (Stati Uniti) 17 ottobre 1915, Roxbury (Stati Uniti) 11 febbraio 2005. Scrittore. Drammaturgo • «[...] l’ultimo dei giganti americani che una volta ci facevano sognare - gli Abramo Lincoln, i Gary Cooper, i Gregory Peck - uomini alti, forti, silenziosi, ascetici, leali; uomini che ti guardavano negli occhi, e che sapevano costruirsi la casa con le loro mani. Miller aveva il fisico e anche la riflessività dell’artigiano abituato a stare molto con se stesso e a risolvere i suoi problemi da sé. Era un bricoleur, anzi un falegname dilettante, e passava ogni giorno diverse ore nel suo atelier a piallare il legno e a concepire incastri. Lavorava nello stesso modo le sue commedie. Una pièce non era mai finita finché non gli sembrava che ogni minimo meccanismo funzionasse alla perfezione: finché non poteva dire a se stesso, in piena coscienza, che non avrebbe saputo fare meglio [...] Di questa sua serietà sul lavoro faceva parte il non parlare mai a vanvera. Ogni suo dramma nasceva quando sentiva di avere qualcosa da dire [...] si votò molto presto al teatro, ma i suoi primi lavori - e ne scrisse parecchi, cominciando quando era all’Università e vinceva premi di drammaturgia - non sfondarono, nemmeno quello che avrebbe continuato ad amare, The Man Who Had All the Luck, approdato a Broadway ma subito sparito malgrado le buone critiche. Mentre lavorava ai telegrafi per mantenersi, decise di compiere un ultimo sforzo, o la va o la spacca - e scrisse Erano tutti miei figli (1948), attenendosi, cosa che non avrebbe fatto mai più, alle regole della tragedia classica, con unità di tempo, di luogo e di azione. Come conflitto insanabile scelse un argomento di rovente attualità, la cattiva coscienza di uno speculatore che ha consapevolmente fornito all’esercito materiale avariato, causando così la morte di molti aviatori. Eschilo celebrò la grande vittoria sui Persiani con un testo in cui si metteva nei panni dei vinti. Miller nel momento del trionfo cercò di fare riflettere i suoi compatrioti sul lato oscuro della guerra in cui avevano appena prevalso. E i suoi compatrioti risposero apprezzando, anche se il film che fu prontamente tratto dalla pièce non fu mostrato alle truppe ancora di stanza in Europa, per non minarne il morale. Miller rivolse allora il suo sguardo ad un altro aspetto della facile euforia americana: al mito del successo senza fatica, del consumismo sregolato, e scrisse Morte di un commesso viaggiatore, apologo così universale che negli anni sarebbe stato recitato in Russia come una critica al capitalismo, in America come una esortazione a fare la cicala e non la formica, in Cina come l’analisi della disintegrazione di una famiglia. Nel Commesso Miller non rivoluzionò il modo di fare teatro più di quanto avesse fatto con Erano tutti miei figli, ma vi introdusse un linguaggio che teneva conto di quell’arte fondamentalmente americana, ossia del cinema, con un montaggio di scene brevi, non necessariamente in sequenza temporale. Poi, sulla cresta dell’onda, si dedicò ad un’operazione che gli parve, al solito, necessaria: quella di adattare Un nemico del popolo di Ibsen perché gli americani potessero recepirne la lezione (il latore di un messaggio impopolare viene messo al bando dalla comunità quando ne minaccia gli interessi venali) senza gli orpelli del dettato ottocentesco. Con Uno sguardo dal ponte parlò di immigrati clandestini. Aveva già rivolto la sua attenzione alla vita dei moli di New York, preparando un film dal quale uscì quando in clima di maccartismo la produzione tentò di imporgli di identificare i cattivi con i sindacalisti. Non per nulla in seguito il suo amico e regista Elia Kazan, uno di quelli che denunciarono ex comunisti al senatore McCarthy, diresse Fronte del porto, un film il cui eroe Marlon Brando denuncia i prepotenti. Dal canto suo Miller, che si rifiutò di comparire davanti alla commissione - e che per questo fu incriminato e privato del passaporto - trattò il tema delle delazioni e dell’isterismo collettivo in un apologo drammatico tratto dalla storia patria, Il crogiuolo. Dopo le chiacchieratissime nozze con Marilyn Monroe, a parte la sceneggiatura del film Gli spostati, fu per alcuni anni lontano dal teatro, e parve che il suo ciclo si fosse concluso. Dopo la caduta, scritto dopo la morte di Marilyn, sembrò ad alcuni un tentativo di sfruttare la notorietà della diva; altre commedie che seguirono, Il prezzo, L’orologio americano, furono accolte con rispetto ma non con troppa attenzione. Ma alla lunga la coerenza di Miller pagò. Dopo una eclisse durante la quale non cessò mai di produrre, Miller fu riscoperto come un classico, e accanto ai suoi lavori antichi ci si rivolse a quelli dell’ultimo periodo, contrassegnato talvolta da una nota di secco umorismo. Giù dal monte, Morgan presenta la situazione di un bigamo che si chiede dove ha sbagliato, dato che entrambe le sue mogli fino a quando non lo hanno smascherato sono state felici. E ripensa agli echi delle persecuzioni naziste come incubo di una donna ebrea che li sente da lontano, nell’indifferente America degli anni ’30. Il mondo di Mister Peters descrive lo sbigottimento di un ottuagenario in cui il presente e il passato si sovrappongono e sembrano avere la stessa valenza. Come si vede sono argomenti molto diversi, e nuovi per Miller, sia con l’ingresso del privato e forse di un certo autobiografismo, sia con la parte centrale - in Vetri rotti - data ad un personaggio femminile (Miller ha fama di essere soprattutto autore ”di uomini”, come il suo coetaneo e rivale Tennessee Williams lo era ”di donne”). Ma sono solo alcuni prodotti di una vecchiaia che è stata oltre che produttiva, coerente - contrappuntati da commenti rari ma puntuali, sulla politica e su altre direzioni prese dal Paese - interventi pacati ma sarcastici, dove Miller fu sempre dalla parte della ragione. Fu dunque questo ebreo newyorchese un uomo necessario, e anche un uomo fortunato. [...] Chi altro ha avuto una prima consorte semplice e devota, per poi passare quattro anni con Marilyn Monroe, e quindi a 40 con una persona intelligente, spiritosa, concreta e positiva come la sua compagna Inge Morath? [...]» (Masolino D’Amico, La Stampa 12/2/2005) • «Alto, magro, dinoccolato, se non fosse stato per gli occhiali cerchiati di tartaruga, chiunque avrebbe potuto scambiare Arthur Miller, da giovane, per un giocatore di basket invece che per il drammaturgo più importante d’America. Una lunga vita felice, la sua [...] a parte le solite difficoltà dell’infanzia e i molti mestieri esercitati nell’adolescenza. Conquistò presto la celebrità: il suo primo romanzo, Focus, sull’antisemitismo in una comunità americana, è del 1945. Ma due anni dopo, con Erano tutti miei figli, sulla responsabilità individuale d’un industriale che vendeva al governo motori d’aeroplano difettosi, poneva autorevolmente la sua candidatura a primo drammaturgo degli Stati Uniti. Miller aveva studiato con attenzione la tecnica teatrale di Ibsen, la più solida costruzione drammaturgica della fine del secolo scorso (un suo adattamento di Un nemico del popolo andò in scena alla fine del 1950). Ancora più evidente l’interesse per la costruzione ibseniana in Morte d’un commesso viaggiatore, suo secondo dramma (1949), considerato generalmente il suo capolavoro. Grosso modo, il tema è lo stesso dell’ibseniana Anitra selvatica, la verità, distruggendo l’illusione, distrugge la vita. Sospettato di simpatie per il comunismo, nel 1948 Miller era stato chiamato a deporre davanti alla famigerata Commissione per le attività antiamericane presieduta dal senatore McCarthy. E quando, nel 1953, fece rappresentare il suo nuovo dramma, Il crogiolo, sulla caccia alle streghe nella cittadina di Salem, nel XVII secolo, molti, in tutto il mondo, pensarono che lo scrittore avesse voluto vendicarsi. In realtà, malgrado le evidenti analogie con l’ondata di maccartismo, il dramma verteva sulla questione della responsabilità individuale, con un linguaggio che a volte ricordava quello del dramma elisabettiano. Il tentativo di fondere psicologia e sociologia nell’ambito di un dramma è all’origine l’ispirazione di Uno sguardo dal ponte (1956), il cui protagonista, Eddie Carbone, uno scaricatore del porto di New York, muore, ucciso a coltellate, in un finale alla Cavalleria rusticana. Malgrado il dispiego della consueta abilità tecnica, il dramma risultò sconcertante, forse per le eccessive (e ambigue) ambizioni di cui l’autore lo aveva caricato. Immigrato da molto tempo, Eddie vive con la moglie, una ragazza che ha adottato, e due cugini che lui ha fatto entrare clandestinamente negli Stati Uniti. Ma è tormentato per il sentimento che prova per la ragazza, molto superiore a quanto sarebbe lecito. E quando scopre che uno dei cugini è innamorato di lei, perde la testa e denuncia i due clandestini all’Immigration Office, con la conclusione finale già anticipata. Lo stesso Miller, del resto, manifestò qualche perplessità nei confronti del suo dramma. ”Quando sentii questa storia per la prima volta”, scrisse nella presentazione, ”mi sembrò di averla ascoltata già tanto tempo fa... Come un mito greco la cui eco risuonasse nella mia mente... c’era una tale purezza, una tale egocentrica autonomia negli scopi delle persone che s’incontrano in questa storia che l’intrecciarsi delle loro vite sembrava quasi l’opera di un fato. Conosco vari modi di spiegare questa storia, ma nessuno ne svela esaurientemente il significato”. Quale credito si poteva dare, viene fatto di chiedersi, a una storia della quale l’autore confessa di non conoscere il significato? È un problema che il pubblico evidentemente non si pose: Uno sguardo dal ponte ebbe a Broadway 149 repliche e fu rappresentato in tutto il mondo. In quello stesso 1956 fu un altro ”mito” ad incontrare Arthur Miller, nella persona dell’attrice più desiderata d’America, Marilyn Monroe. Il matrimonio fra il Grande Cervello e il Magnifico Corpo fece epoca. Ma quel magnifico corpo era bacato, divorato da un senso di autodistruzione che non tardò a manifestarsi. Per alcuni anni lo scrittore non produsse nulla, tranne la stesura della sceneggiatura per il film di John Houston Gli spostati, interpretato, oltre che dalla Monroe, da Clark Gable e Montgomery Clift (1961); per tutti e tre fu l’ultimo film al quale presero parte, morirono tutti nel giro di pochi mesi. Ma il fantasma di Marilyn continuò a perseguitare lo scrittore. Nel 1964, due anni dopo la scomparsa dell’attrice, Miller mandò in scena quello che può considerarsi il più autobiografico dei suoi drammi, Dopo la caduta. Al centro dell’opera c’è una coppia formata da Quentin, un intellettuale, e da Maggie, un’attrice di cinema in rapida ascesa che morirà uccisa da un’eccessiva dose di barbiturici. Che altro occorreva perché critica e pubblico vedessero in Quentin e Maggie lo stesso Miller e l’infelice Marilyn? Era, in parte, almeno, un equivoco (il vero tema del dramma è l’impotenza dell’amore), ma grazie a questo equivoco il dramma ebbe un enorme successo (in Italia fu rappresentato da Monica Vitti e Giorgio Albertazzi, diretti da Franco Zeffirelli).
Con Incidente a Vichy (1964) lo scrittore tornò al tema che gli era più congeniale, gli ebrei e la loro persecuzione da parte dei nazisti. Il lungo atto unico (circa un’ora e mezzo) descrive con molta semplicità la reazione di un gruppo di ebrei raccolti in una stazione di polizia, a Vichy, nel 1942; gli interrogativi che s’intrecciano (perché il sopruso? Che fare per non subirlo?) hanno varie risposte, dalla incredulità alla ribellione, dall’apatia al sacrificio. Ma c’è una battuta ammonitrice: ”Vincano o perdano questa guerra, loro (i nazisti) hanno indicato la via del futuro. L’essere umano quale era concepito una volta non avrà più posto su questa terra”. Parole che, lette oggi, acquistano un sinistro sapore di profezia. Nel 1987 Miller pubblicò Svolte, un’ampia autobiografia che molti ritennero venisse a concludere il lungo lavoro di drammaturgo; i drammi che l’avevano preceduta, forse anche per le difficoltà che s’incontravano a Broadway, divenuto il regno dei musical, non avevano ottenuto un grande successo. Il prezzo (1968), La creazione del mondo (1973) e L’orologio americano (1980) avevano mostrato uno scrittore incerto, dubbioso sulla via da seguire. Ma in compenso le due coppie di atti unici raccolti sotto il titolo Una specie di storia d’amore (1982 e 1987), pur nell’assenza di una conclusione, testimoniano la presenza di ”una voce teatrale originale e autorevole” (Masolino d´Amico). Nove anni furono necessari a Miller per elaborare il nuovo testo che fece rappresentare a Londra nell’ottobre 1991. Nove anni per ottenere un risultato che piacque molto al pubblico, ma lasciò perplessa parte della critica. Si trattava infatti d’un Miller del tutto diverso da quello che tutti erano abituati a conoscere, un Miller grintoso e solido come sempre, ma brillante. È la storia d’un bigamo, scoperto come tale in seguito a un incidente che lo fa ricoverare in ospedale. Ancora un ospedale, ma psichiatrico questa volta, è il luogo in cui si incontrano due coppie, due mariti venuti a trovare le rispettive mogli ricoverate, in L’ultimo yankee. Il dialogo tocca molti argomenti di conversazione, la negligenza affettiva, il razzismo, il matrimonio borghese, la malattia mentale, gli affari. [...]» (Luciano Lucignani, la Repubblica 12/2/2005) • «[...] Ho scritto il mio primo testo teatrale nel Michigan, nel 1935. Durante una vacanza primaverile. Lo scrissi in sei giorni. Ero talmente giovane che osavo fare cose del genere, iniziare un testo e finirlo in una settimana. A quell’epoca avevo visto solo un paio di messe in scena, quindi non sapevo quanto dovesse essere lungo un atto, ma al college c’era un ragazzo che faceva i costumi per il teatro dell’Università, e che disse ”Be’, più o meno quaranta minuti”. Avevo scritto un’enorme quantità di materiale, e in quel momento ebbi anche una sveglia. Per me era tutto un gioco, da non prendere seriamente... ecco cosa mi dissi. Poi risultò che gli atti duravano di più, ma il senso del tempo fu in me fin dall’inizio, e la pièce aveva una forma fin dalla prima battuta. [...] Un pomeriggio, quando avevo circa 12 anni, mia madre mi portò a teatro. Vivevamo ad Harlem: lì c’erano due o tre teatri che facevano parecchi spettacoli di seguito e molte donne ci facevano un salto per tutti, o quasi tutti, gli spettacoli pomeridiani. Tutto quello che ricordo è che c’erano delle persone nella stiva di una nave, il palco oscillava - in realtà c’era qualcuno che faceva oscillare il palco - e un cannibale sulla nave aveva una bomba a orologeria. Tutti cercavano il cannibale: era elettrizzante. L’altro spettacolo era una morality play sulla droga. Evidentemente in quel periodo a New York c’era molta eccitazione riguardo ai cinesi e alla droga. I cinesi rapivano splendide ragazze bionde dagli occhi azzurri che - così pensava la gente - avevano perso la loro moralità. Questi erano i due capolavori che avevo visto. Ne avevo letti altri, ovviamente, al tempo in cui cominciai a scrivere. Avevo letto Shakespeare e Ibsen, ma solo qualcosa. Non ho mai legato la drammaturgia al nostro teatro, neanche all’inizio. [...] Non penso che il Comitato per le Attività Antiamericane si sarebbe occupato di me se non fossi stato sposato con M. Se fossero stati realmente interessati, mi avrebbero chiamato prima. E infatti un fonte sicura mi rivelò che l’allora presidente del Comitato, Francis Walter, disse che se Marilyn avesse fatto una foto con lui, mentre gli stringeva la mano, avrebbe ritirato tutto. Erano stai sulle prime pagine per anni, ma la questione iniziava a perdere la sua forza. Erano finite a fondo pagina o nelle pagine interne, e con un evento del genere avrebbero riguadagnato le copertine. Quella gente faceva i calcoli per finire sul giornale in una data precisa. Venni accusato di oltraggio per essermi rifiutato di dare o confermare il nome di uno scrittore, di dire se lo avessi visto a una riunione di scrittori comunisti alla quale avevo partecipato otto o dieci anni prima. Dopo un anno venni condannato al termine di un processo durato una settimana. Poi, più o meno a distanza di un anno, la Corte d’Appello respinse tutto. Poco tempo dopo venne dimostrato che il maggior consulente legale del comitato, colui che era stato il mio interrogatore, era sul libro paga di una fondazione razzista e venne congedato. Tutto questo fu solo una terribile perdita di tempo, denaro e rabbia. Ma io ho sofferto poco, davvero, in confronto ad altri che hanno perso il lavoro o non lo hanno mai riavuto. [...]» (la Repubblica 12/2/2005) «John Huston, il regista che tentò di tradurre per il cinema la sceneggiatura dei Misfits e fare finalmente di Marilyn Monroe una grande attrice drammatica, ricordava nelle sue memorie: ”Una sera, alla fine delle riprese nel mezzo di un deserto, vidi un uomo seduto da solo ai bordi della strada, al quale nessuno aveva dato un passaggio. Marilyn, Clark (Gable), Montgomery (Clift) se ne erano già andati via insieme e tutti si erano dimenticati di lui. Rallentai la macchina e vidi chi era quell’uomo. Era Arthur Miller, l’autore, il marito di Marilyn. Nessuno si era ricordato di caricarlo, neppure Marilyn”. [...] Miller era un gigante. Realmente. Alto due metri, con mani enormi come pale e l’incedere sempre lievemente curvo delle persone molto alte circondate da uomini e donne più piccoli, come lo ricordano all’Actors’ Studio di Manhattan dove spesso parlava agli aspiranti attori, si muoveva con quella timidezza gentile del più grosso che i newyorkesi, come lui era, spesso nascondono dietro la scontrosità e la ruvidezza. Era nato da una famiglia di immigrati ebrei in una guerra, la Grande Guerra, ed era cresciuto nella guerra sociale della Depressione, quando l’esplosione di un’altra bolla di Borsa aveva spazzato via la bottega di abbigliamento femminile del padre, Isidore Miller. Apparentemente, nulla nella sua infanzia e nella sua adolescenza aveva segnalato in quello spilungone costretto a fare sport al liceo dalla statura un futuro da intellettuale engaged, impegnato, come si sarebbe detto molti anni dopo. ”Le mie letture erano i giornali di Hearst”, ricordava, quella yellow press, la stampa scandalistica e chiassosa da tabloid che lo accompagnava ogni mattina nei trasferimenti in treno dalla casetta di Brooklyn dove la famiglia aveva dovuto rinchiudersi dopo il fallimento, verso il grossista di ricambi per auto, dove lavorava. Ma tra i fogli della spazzatura giornalistica di Hearst, si insinuò un libro, I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Gli venne voglia di scrivere. Andò a studiare lontano da New York, nell’Università del Michigan. Giornalismo, all’inizio, la solita scorciatoia degli aspiranti scrittori. Merito di Dostevskij o del talento naturale insospettato, Arthur scoprì di saper scrivere bene, talmente bene da vincere il primo premio in una competizione nazionale di scrittura fra gli studenti, vinto anche da un certo Tennessee Williams, il futuro autore di Un tram che si chiama desiderio e La gatta sul tetto che scotta. Come si dice per tagliar corto, aveva trovato la sua vocazione, il teatro, ma la sua vocazione ancora non aveva trovato lui. La prima opera rappresentata, L’uomo che aveva tutte le fortune, aprì a Broadway una sera di primavera del 1944. E chiuse la sera dopo. Avrebbe dovuto aspettare cinque anni, e altri due mezzi fiaschi teatrali consolati dai complimenti della critica, per scrivere e mettere in scena il lavoro che avrebbe per sempre, nel sempre della letteratura e della cultura, inciso il suo nome fra i giganti, non più soltanto fisici. Il 1949 fu l’anno di Willy Loman, il protagonista di quella Morte di un commesso viaggiatore che gli studenti di cose americane e gli esploratori di questa nazione dovrebbero leggere come guida indispensabile all’America. La storia del piazzista di successo, che da un giorno all’altro si trova senza lavoro dunque senza più la propria ragione di essere, e finisce nel suicidio per permettere alla moglie di incassare la polizza per la vita e continuare a vivere il sogno americano, resta la parabola essenziale di una nazione che è, prima di essere ogni altra cosa, una nazione di instancabili venditori di cose, di immagini e di sogni, riassunto nella frase del presidente Calvin Coolidge, ”the business of America is business”, gli affari dell’America sono gli affari. Il successo del Commesso viaggiatore, maturato nel clima di una cultura post depressione impregnata di ”realismo”, ”esistenzialismo”, ”rooseveltismo” che stava producendo i film di Elia Kazan, il teatro di Williams, di O’Neill e la generazione di attori ”ribelli senza una causa” alla Brando e James Dean, spinse ”l’uomo più fortunato del mondo” inesorabilmente in quel crogiolo di politica, di fama, di antipatie e di rancori ideologici che avrebbe preso il nome di maccartismo. Miller fu accusato di essere un ”compagno di viaggio”, un utile idiota, un comunista e come tale fu trascinato davanti al patetico e feroce Torquemada dell’inquisizione anti-rossi. Dovette confessare la colpa atroce di avere partecipato a qualche riunione di intellettuali sponsorizzate - pubblicamente - dal partito comunista americano e di avere firmato appelli per la pace. Gli fu tolto il passaporto e non poté partire per Bruxelles, dove sarebbe stato rappresentato il suo dramma Il crogiolo, ricostruzione volutamente allegorica dei processi e delle impiccagioni di streghe nella Salem del 1692 e dei fenomeni di isteria collettiva. Quando rifiutò di fare nomi di altri ”comunisti” come lui davanti all’Inquisitore, fu condannato per ”oltraggio al Parlamento”, una condanna che i tribunali ordinari annullarono nel 1958, restituendogli il passaporto. Ma non la pace, che la vita, i fiaschi, i trionfi, i processi e i successi gli avevano consumato per sempre. Proprio negli anni della persecuzione maccartista, nel 1956, ”l’uomo più fortunato del mondo” aveva sposato, in seconde nozze, la donna che tutti gli uomini del mondo meno fortunati avrebbero voluto sposare, Norma Jean, una Marilyn Monroe trentenne, fresca del divorzio da Joe Di Maggio e non ancora devastata dalla propria insicurezza, dall’alcol e dalle pillole. La relazione tra ”il gufo e la gattina”, come fu prevedibilmente battezzata quell’unione tra l’allampanato scrittore newyorkese ormai perennemente nascosto dietro i suoi enormi occhiali e la succulenta bionda californiana (Marilyn era nata a Los Angeles, il primo giugno del 1926) fu inevitabilmente la materia per ogni tipo di elucubrazione psicoanalitica, di interpretazioni metaforiche, di facili simbolismi. Ma se il matrimonio era costituzionalmente destinato a fallire, come accadde infatti nel 1961 in uno squallido divorzio messicano, nessuna biografia o memoria ha mai stabilito se questi due esseri umani si fossero amati davvero, oltre all’attrazione fra opposti. Marilyn cercava in lui quel visto di uscita dalla gabbia dei bamboleggiamenti sexy, di mutandine esposte da sbuffi di aria, di stupidità bionda da copione che gli studios le imponevano. Arthur, che per lei scrisse la sceneggiatura del pessimo Misfits (Gli spostati, 1961), chiedeva vita, corpo, carnosità per un’esistenza che rischiava di evaporare nell’intellettualismo. Ma se era Miller a nutrire i sogni di emancipazione di Marilyn, era Marilyn a nutrire il portafogli di Miller. Pagava lei, per esempio, gli alimenti alla prima moglie di Arthur Miller. La loro ”story” andò a intercettare, e ad alimentare, un tempo che produceva miti indimenticati e crudeli, i Kennedy, l’alba della rivolta di una nuova generazione di baby boomers inquieti e destinati al Vietnam, l’integrazione razziale, la noia della prosperità post bellica, il confronto sempre più scottante con l’Urss, verso i missili di Cuba. La vita di Arthur Miller non finì con il divorzio da Marilyn, come invece finì la vita di lei, suicida appena un anno dopo, nel 1962, ma nella sua produzione artistica, il periodo ”post Marilyn” non tornò mai allo splendore del periodo ”pre Marilyn”. Dovette trascorrere quasi un decennio, dal matrimonio del ’56, perché tornasse in teatro con Dopo la caduta, un lavoro ovviamente ispirato, nella protagonista che si autodistrugge, alla vita della ex moglie, ma le opere degli anni Novanta passarono accolte dal rispetto, ma non dal successo, riservato al mito, più che alla realtà. ”Il teatro probabilmente non è morto” disse in quegli anni ”ma la televisione, con le cifre che paga ad attori bravi o cattivi, lo sta dissanguando di talenti”. Ci fu, e ancora continua, una piccola resurrezione teatrale, con il ritorno alla scene dei vecchi classici, dell’immortale Commesso viaggiatore, del Crogiolo, rinverdito dalla nuova isteria repressiva da terrore attizzata dai politicanti in cerca di voti, ma l’attualità dei simboli stride contro il tramonto di un tempo americano che l’ultimo dei suoi grandi cantori ha portato via con sé [...]» (Vittorio Zucconi, la Repubblica 12/2/2005) • «La sua popolarità critica ha subito negli Stati Uniti una flessione, mentre ha continuato a crescere nel resto del mondo. Per dirlo con le parole di Celia Wren, critico del New York Observer: è ”educatamente ignorato a casa e venerato all’estero”. Molti osservatori identificano con la messa in scena di Dopo la caduta il momento del primo distacco da parte dell’intellighentia e del pubblico americano: se da un punto di vista critico il lunghissimo dramma apparve immediatamente tra i meno riusciti dell’autore, sul piano del contenuto i trasparenti riferimenti al matrimonio con Marilyn Monroe ebbero l’effetto di un tradimento, e, peggio ancora, di un’iconoclastia. Robert Brustein, critico del New Republic definì la commedia come un esempio di ”cattivo gusto della durata di tre ore e mezzo” e Gottfried (Arthur Miller: a Life, 2003) ricorda come il testo sia stato bollato immediatamente come un ”attacco ad una personalità amata e vulnerabile, che si trovava in condizioni di non potersi difendere”. L’infortunio critico accentuò in quel periodo il crescente ed unanime fastidio nei confronti di un autore che aveva interpretato per primo, e meglio di ogni altro, l’immagine dell’intellettuale come superstar. Tuttavia, per comprendere appieno le sfumature di un paradosso che ha generato in America un apprezzamento incondizionato dei lavori precedenti a Dopo la caduta e un graduale disinteresse per quelli successivi, che prescinde da un eventuale declino artistico, è necessario ripercorrere le tappe di un’esistenza segnata da continue scelte etiche, che finiscono per mettere in risalto un altro paradosso: l’uomo accusato di tradimento morale nei confronti della ex-moglie è la stessa persona che fu condannata per oltraggio al Congresso quando rifiutò di fare alcun nome di fronte alla commissione per le attività anti-americane. Soltanto in appello Miller riuscì a riabilitare la propria situazione legale, e trovò anche la forza di riappacificarsi con Elia Kazan, che nel momento di massima pressione da parte della commissione aveva denunciato otto colleghi. Le differenti posizioni etiche che ebbero in quel frangente questi protagonisti della cultura americana del novecento generarono nel giro di poco tempo due tra i massimi risultati delle rispettive carriere artistiche: se Kazan esorcizzò il tormento di una scelta che finì per marchiarlo per tutta la propria esistenza nella denuncia dei sindacalisti corrotti fatta da Marlon Brando in Fronte del Porto, Miller rivendicò nel Crogiuolo la nobiltà di chi preferisce farsi condannare da una giustizia ideologizzata piuttosto che rinunciare ai propri principi morali. In un celebre pezzo scritto per Esquire, John Steinbeck esaltò il coraggio personale ed artistico di Miller, ed individuò nel suo atteggiamento la difesa di quei principi autenticamente americani che la commissione pretendeva di salvaguardare. Uno dei pregi principali della biografia di Gottfried è l’aver messo in evidenza come le scelte opposte siano segnate da sfumature inaspettate, e da un legame affettivo che non si è mai del tutto interrotto. Se è vero che anche in Uno sguardo dal ponte è presente un informatore, è interessante notare che Miller scrisse un copione intitolato The Hook dal contenuto estremamente simile a quello di Fronte del porto. Miller e Kazan ricominciarono a lavorare sin dai tempi di Dopo la caduta, nonostante il regista avesse acquistato una pagina a pagamento sul New York Times per spiegare che il suo gesto era giustificato dalla battaglia da combattere con ogni mezzo contro il comunismo. In seguito lo scrittore ostentò comprensione anche nei confronti di altri collaboratori della commissione (Lee J. Cobb venne scritturato per la ripresa di Uno sguardo dal ponte), e fu tra coloro che diede il proprio assenso per l’Oscar alla carriera a Kazan, fortissimamente voluto da persone insospettabili come Spielberg e Scorsese. Nonostante le ripetute richieste del biografo, Miller si è rifiutato di farsi intervistare sulla propria vita privata, ma ha dato accesso alla sua ricchissima corrispondenza, dalla quale emerge il ritratto di un uomo che ha vissuto in prima persona gran parte dei traumi immaginati per i propri protagonisti, ed ha individuato una possibile catarsi delle debolezze e dei ricorrenti soprusi in un approccio artistico che combina il realismo con la metafora. Il personaggio immortale di Willy Loman, del quale scrive ”non dite che era un grand’uomo: non ha mai fatto molti soldi, e il suo nome non è mai comparso nei giornali” nasce dall’esperienza drammatica del padre Isidore, costretto a trasferire la famiglia a Brooklyn in una casa identica a quella del dramma dopo che era stato ridotto in rovina dal crack del 1929. In quegli anni Miller frequentò la scuola pubblica ad Harlem, scoprì il teatro con uno spettacolo musicale di Broadway che lo turbò per l’atmosfera escapista, e cominciò a lavorare come autista di camion e cantante in una radio locale. All’epoca non aveva alcun interesse intellettuale e le uniche letture che alternava a lunghe partite a baseball erano quelle delle riviste Hearst. Ma la sua esistenza cambiò per sempre quando lesse I Fratelli Karamazov e comprese che nulla più dell’arte può svolgere una funzione imprescindibilmente etica. Si iscrisse alla Università del Michigan dove studiò febbrilmente letteratura inglese, e si cimentò con un primo testo teatrale intitolato The man who had all the luck, ma la commedia fu chiusa dopo sole quattro rappresentazioni. Il successo arrivò con Erano tutti miei figli, messo in scena dopo cinque anni di lavoro e sei differenti stesure, seguito dal trionfo di Morte di un commesso viaggiatore, premiato con il Pulitzer e tradotto in tutto il mondo. Nel racconto dettagliato del rapporto tra le opere e gli episodi salienti della sua vita, Gottfried sottolinea un approccio creativo rivoluzionario quanto rivelatore (per preparare The Hook si fece assumere al minimo della paga in una fabbrica in cui si inscatolava la birra), dedicando poco spazio al primo matrimonio con Mary Grace Slattery e a quello con la fotografa Inge Morath, dalla quale ha avuto la figlia Rebecca, regista di talento e moglie di Daniel Day-Lewis. La concezione etica e politica dell’arte lo hanno visto impegnarsi in prima fila contro la censura quando ha rivestito la carica di presidente del PEN, mentre l’idea di testimonianza che ha segnato perennemente la sua attività lo ha portato a cimentarsi in reportage giornalistici, adattamenti radiofonici di opere altrui (il più celebre è Orgoglio e Pregiudizio), sceneggiature cinematografiche e interventi pamphlettistici come quello intitolato Should Ezra Pound be shot?. Questa partecipazione appassionata ad ogni aspetto della vita culturale americana ne ha ingigantito soprattutto all’estero la dimensione di icona, scatenando nel proprio paese anche reazioni astiose, come quella di James Walcott, che scrisse su Vanity Fair: ”il fatto che Miller si consideri un grande pensatore è uno dei grandi equivoci della vita”. Nel passaggio centrale della biografia, Gottfried sostiene che la crescente differenza di apprezzamento nei confronti dell’autore sia dovuta ancora una volta ad un elemento puramente etico: l’approccio cinico degli intellettuali americani tenderebbe infatti a leggere l’anelito morale delle sue opere in chiave moralistica, mentre il disincanto del vecchio mondo riconoscerebbe in quello stesso anelito una umanità profonda e vogliosa di redenzione. In una conversazione con John Huston all’epoca degli Spostati, Miller espresse la sua unica critica riguardo al film nell’uso limitato dei campi lunghi, che avrebbero ”accentuato quanto sia isolata la gente da un punto di vista psicologico”. È uno dei principi ispiratori del nuovo testo in preparazione, che sembra voler ribadire quanto racconta Gottfried nella biografia e quanto lo stesso autore ha ribadito in risposta alle critiche più astiose: ”il commediografo vive in un terreno occupato, ed è lui il nemico”» (Antonio Monda, la Repubblica 10/10/2003) • «Sono nato e cresciuto a New York. Ma la campagna mi ha sempre eccitato. Qualunque cosa abbia scritto, l’ho scritta in campagna. molto peculiare. Mi ha sempre stimolato. Buffo. Ero solito dedicarmi alla coltivazione. [...] La mia prima moglie era nata in California da una famiglia cattolica. Lei non era religiosa, ma loro sì. Le correvo dietro, era in Ohio ed eravamo seduti a colazione con la madre e il padre. Arrivò il giornale che riportava a grossi caratteri "Rapina in banca in città!". Non fu mica ucciso nessuno, ma un individuo rapinò la banca. Non appena la madre lesse il titolo dichiarò: "Beh, spero proprio che non sia cattolico". Io pensai: "è la razza umana...". [...]» (la Repubblica 22/8/2001).