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 2014  luglio 13 Domenica calendario

Un giudizio sul suo governo (Sergio Romano)

Corriere della Sera, 19 settembre 2005
In questi giorni si è tornati spesso sulla vicenda umana e politica di Salvador Allende, sul suo tentativo di socialismo e sui suoi drammatici ultimi giorni di vita. Mi pare che oggi si possa dire che politicamente sono stati i partiti socialista e comunista a ucciderlo, perché non hanno accettato il referendum popolare che invece Allende voleva. Questo mi porta a pensare che Allende credesse in una democrazia popolare, e che ad essa non credessero invece le formazioni politiche che lo hanno portato al potere: è anche per questo che l’esperimento cileno fallì?
Gianni Mereghetti, Abbiategrasso (Mi)

Caro Mereghetti, una lettrice, Barbara Cuoco, si è chiesta invece perché il quarto anniversario dell’11 settembre 2001 abbia oscurato, nella nostra memoria, il ricordo di un altro 11 settembre, ventotto anni fa, quando un colpo di Stato militare in Cile mise fine all’esperimento socialista di Salvador Allende. Per la verità quella vicenda cilena non è mai uscita dall’orizzonte della nostra attenzione. Ne abbiamo parlato ripetutamente quando il generale Pinochet, leader del golpe, venne arrestato a Londra su richiesta di un giudice spagnolo. Ne abbiamo parlato quando emersero dall’archivio del Dipartimento di Stato alcuni documenti sulla politica degli Stati Uniti in quel periodo. Ne ha parlato recentemente Antonio Carioti nel Corriere a proposito di altri documenti, di origine sovietica, sui rapporti che il Kgb aveva con lo stesso Allende. E continuiamo a parlarne, nel contesto della politica italiana, quando ci accade di ricordare che il compromesso storico, proposto da Enrico Berlinguer sulle colonne di Rinascita, fu per molti aspetti il risultato del golpe cileno. Dopo avere assistito alla disfatta di Allende, Berlinguer giunse alla conclusione che i comunisti avrebbero avuto responsabilità di governo soltanto se il Pci e la Democrazia cristiana avessero concordato una strategia comune. Ma l’osservazione di Barbara Cuoco e la sua domanda, caro Mereghetti, mi confermano indirettamente nella convinzione che la vicenda cilena del 1973 non susciti più, nemmeno a sinistra, le deplorazioni e le condanne con cui venne esaminata e commentata per molti anni. Visto alla luce di ciò che è accaduto nell’ultimo trentennio, l’esperimento del Fronte popolare cileno non rappresenta più un modello a cui i partiti progressisti possano ispirare la loro azione. Anzitutto la vittoria di Allende fu fragile e contestabile. Alle elezioni presidenziali del 1970 giunse primo con una maggioranza relativa (il 36,3%) e s’installò al vertice dello Stato con il voto determinante, al Congresso, dei parlamentari democristiani. Dopo la vittoria, il nuovo presidente sembrò attenuare i propositi più radicali del programma elettorale, ma in una conversazione con Régis Debray (il compagno del Che nella foresta boliviana) disse che il proletariato si sarebbe imposto alla borghesia. Non basta. Convinto che la polizia non potesse proteggerlo dai controrivoluzionari, creò una guardia politica personale e permise che il Mir (movimento della sinistra rivoluzionaria) collocasse alcuni dei suoi esponenti nella cerchia presidenziale. La sua politica economica fu ispirata dalla estrema sinistra (nazionalizzazioni, esproprio di società straniere, vertiginosi aumenti del salario minimo) e dette risultati catastrofici. Il tasso di crescita andò progressivamente declinando, la produzione agricola scese del 16,8%, l’inflazione bruciò rapidamente i vantaggi salariali concessi nei mesi precedenti. Il colpo di grazia fu dato dallo sciopero dei camionisti, forse finanziato dalla Cia. In un Paese lunghissimo (4220 chilometri) la paralisi dei trasporti su strada creò grandi disagi e accese l’incendio dell’irritazione popolare. Allende fu travolto da un colpo di Stato a cui l’America probabilmente non fu estranea. Ma la grande manifestazione popolare con cui il presidente sperò di fermare i generali e di suscitare in alcune formazioni militari un movimento di lealtà repubblicana, non ebbe luogo. Prima di perdere il potere aveva perduto, con i suoi errori politici, il consenso di buona parte della società cilena. La sua nobile morte merita di essere ricordata con rispetto, ma credo che la sua presidenza, quasi trent’anni dopo, susciti anche nelle sinistre più dubbi che consensi.
Sergio Romano