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 2013  luglio 21 Domenica calendario

Tasse da record in Italia • Come spendono le Province • Chi studia di più rischia meno la povertà • In Italia il 47,8% dei laureati trova un lavoro entro il primo anno successivo al diploma

 

Tasse Negli ultimi vent’anni, in Italia, le imposte nazionali sono raddoppiate e i tributi locali sono aumentati cinque volte. Le addizionali Irpef regionali e comunali, negli ultimi dodici anni, sono cresciute del 573% e il loro peso sui redditi è triplicato arrivando in alcuni casi oltre il 17% (Sensini, Cds).

Province 1 Pesa otto miliardi e 633 milioni la spesa «corrente» delle Province, vale a dire i soldi per il personale, gli affitti, le bollette, la benzina nelle macchine, gli stipendi degli assessori, i gettoni dei consiglieri… L’equivalente dei soldi necessari per eliminare l’Imu sulla prima casa ed evitare l’aumento dell’Iva, «e avanzerebbe ancora qualcosa. La cifra è contenuta in una tabella che sta sul tavolo del ministro degli Affari regionali, l’ex sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio. Certo, non sparirebbe d’incanto, quel costo, se le Province dovessero scomparire dall’oggi al domani. Ma una bella fetta sì. Eppure il ritornello del Ptpt, il Partito Trasversale delle Province in Trincea che comprende uomini della sinistra e della destra e soprattutto della Lega Nord, non cambia mai: dall’eliminazione delle Province si risparmierebbero solo poche briciole. C’è perfino chi argomenta, dati alla mano, che la spesa aumenterebbe per parte di quei 56 mila dipendenti provinciali eventualmente trasferiti alle Regioni, dove le buste paga sono più pesanti» (Rizzo e Stella, Cds).

Province 2 Nel 2011 le entrate delle Province sono state pari a 11 miliardi 289 milioni, le spese a 10 miliardi 963 milioni. Avanzo: 326 milioni. Tolti gli 8,6 miliardi di spese correnti, ne restano per le spese in conto capitale solo 2 e 330 milioni. «Traduzione: per ogni euro di investimenti nei vari settori di competenza addirittura 3,7 se ne vanno solo per mantenere in vita le strutture. Quasi il quadruplo!» (ibidem)

Istruzione e povertà 1 Eurostat — l’ufficio statistico dell’Unione europea — pochi giorni fa ha pubblicato dati, riferiti al 2011, che mettono a confronto il rischio di povertà e il livello di educazione nei diversi Paesi. Nella Ue a 27, il 16% dei cittadini vive a rischio di povertà, cioè in una famiglia con un reddito disponibile (compresi gli aiuti sociali) inferiore al 60% della media nazionale. Tra chi ha un livello di studio alto (educazione terziaria, universitaria) rischia però la povertà solo il 7,3%. Quota che sale al 14% per un livello di studio medio (scuola secondaria superiore) e al 24,2% per un’educazione bassa (scuola primaria o secondaria inferiore). Da noi la situazione è un po’ peggiore, rispetto alla media europea. A rischio povertà è il 18,1% degli italiani: ma solo il 7,7% dei laureati, mentre la quota sale al 14% per chi ha un’educazione media e al 23,6% per chi ne ha una bassa. «Non si può dire che un certo livello di istruzione determini in modo meccanico il reddito. Però, conta parecchio. Soprattutto nei Paesi che sono poveri e con reti di protezione sociale modeste. In una Nazione ricca e ad alto Welfare State come l’Olanda, per esempio, i laureati a rischio povertà sono il 6,4%, coloro con istruzione bassa l’11,9%. Nell’egualitaria Danimarca, i due estremi sono 9,4% e 17%. Al contrario, tra i rumeni laureati solo il 2% rischia la povertà, mentre tra chi ha studiato poco si arriva al 34,6%. In Bulgaria, il divario è tra 3,6% e 44,3%. E così via. Se pensate — come molti — che nei prossimi anni l’Italia difficilmente torni a creare seriamente ricchezza, il semplice messaggio della statistica è questo: studiate e fate studiare figlie e figli (nelle università italiane, ogni cento studenti maschi ci sono 136 studentesse)». (Taino, Cds)

Istruzione e povertà 2 Il consorzio universitario AlmaLaurea calcola che in Italia il 47,8% dei laureati trovi un lavoro entro il primo anno successivo al diploma; mentre il 26,8% lo cerca ma non lo ha e il 22,2% non lo cerca ma è impegnato in un corso di specializzazione o nel praticantato. Tre anni dopo la laurea, il 70,3% lavora, il 15,1% si dice disoccupato, il 10,7% studia ancora o fa pratica. A cinque anni dalla laurea, gli occupati sono l’81,8%, i disoccupati l’8,8%, coloro che non cercano lavoro il 5,6%. «Dati non strepitosi ma nemmeno da disperazione. Raccontano che il futuro non è nelle mani dello Stato: è molto più nelle nostre». (ibidem)

(a cura di Roberta Mercuri)