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 2013  luglio 17 Mercoledì calendario

Il “caso Kazakistan” fa saltare la prima testa: quella del capo di gabinetto di Alfano, Giuseppe Procaccini

Il “caso Kazakistan” fa saltare la prima testa: quella del capo di gabinetto di Alfano, Giuseppe Procaccini. Si è dimesso ieri. Ma è in pericolo lo stesso Alfano: il Movimento 5 Stelle e Sel hanno presentato una mozione di sfiducia che sarà discussa e votata venerdì prossimo. È scontato che verrà chiesto il voto segreto ed è quindi non impossibile che, in incognito, i tanti nel Pd e nel Pdl che detestano le larghe intese si prendano le loro vendette e buttino giù il ministro, che è anche segretario del Pdl e vicepresidente del Consiglio. Un pezzo troppo grosso per non essere anche un pezzo molto ghiotto. La caduta (eventuale) di Alfano porterebbe con sé anche la caduta del governo? Non è automatico, ma ieri Epifani, segretario del Pd, ha detto: «Un passo indietro del ministro dell’Interno lascerebbe comunque poche speranze di vita all’esecutivo». Alla cui sopravvivenza, invece, Berlusconi tiene tantissimo.

Che ruolo ha avuto questo Procaccini nella vicenda?
Lei dice «questo Procaccini» come se si trattasse di uno qualunque. Ma Procaccini, napoletano, 65 anni, era un funzionario di altissimo livello - come è ovvio che sia un capo di gabinetto -, introdotto benissimo, e da molto tempo, nella politica. A quarant’anni accompagnò Guido Carli alla firma del trattato di Maastricht, poi venne distaccato alla presidenza del Consiglio e al ministero del Tesoro. Rientrato al ministero è stato l’uomo di fiducia - senza se e senza ma - di Maroni, della Cancellieri e adesso di Alfano. Era candidato a diventare capo della polizia e lo scorso 12 giugno ha aperto lui la conferenza dei prefetti, alla quale subito dopo parlarono Alfano e il presidente della Repubblica. Prendeva uno stipendio di poco inferiori ai 400 mila euro l’anno. Non è un caso che Epifani abbia definito le sue dimissioni «inusuali». E in effetti: ieri ha consegnato la lettera al suo ministro (il contenuto per ora ci è ignoto) ed è uscito di scena. La sua colpa: aver incontrato il 28 maggio l’ambasciatore kazako Andrian Yelemessov e il suo primo consigliere, aver ascoltato la storia del dissidente Ablyazov, in quel momento presentato come un truffatore, e aver indirizzato i due al Dipartimento di Pubblica sicurezza, senza avvertire il suo ministro. Fu quello il primo atto che doveva portare al quasi-sequestro con rimpatrio di Alma Shalabayeva e della sua piccola Alua di sei anni.  

Ieri Alfano ha riferito in Parlamento.
Sì, prima al Senato, poi alla Camera. Ha ribadito la linea già esposta nei giorni scorsi: lui e il governo di questo caso kazako non sapevano nulla, come nulla sanno in genere delle espulsioni che non vengono di norma segnalate al ministro. E però «resta grave la mancata informativa al governo sull’intera vicenda. Dobbiamo lavorare perchè ciò non accada mai più». Alfano ha letto il rapporto che gli aveva preparato il capo della polizia ad interim Alessandro Pansa: «Nella prassi non esisteva obbligo di segnalazione al ministro, sia perchè si trattava di una espulsione ordinaria, sia perchè non c’era né evidenza né consapevolezza che il marito della donna fosse un dissidente. Sicché nessuna informazione è stata data al ministro». Tuttavia, «l’attenzione di un altro Paese, così evidente e tangibile attraverso l’impegno diretto del proprio ambasciatore, e l’utilizzo di un volo non di linea per il rimpatrio delle due cittadine kazake avrebbe dovuto rappresentare elemento di attenzione tale da far valutare l’opportunita di portare l’evento a conoscenza del ministro stesso. In nessuna fase della vicenda i funzionari italiani hanno avuto informazione alcuna che Ablyazov fosse un rifugiato politico e non un pericoloso latitante». Sempre secondo la relazione del Capo della Polizia Pansa, nessuna domanda di asilo da parte di Alma Shalabayeva era stata presentata prima del blitz di fine maggio che ha portato alla sua espulsione. «Nel corso dell’intera istruttoria e dalla consultazione di tutta la documentazione fornita non risulta che Alma Shalabayeva o i suoi difensori abbiano mai presentato o annunciato domanda di asilo, pur avendone la possibilità, né è risultato che la citata cittadina kazaka abbia mostrato o affermato di possedere un permesso di soggiorno rilasciato da paesi Schengen, cosa che hanno fatto i difensori solo in sede di ricorso contro il provvedimento». Sulle «modalità esecutive» andranno fatti, dice il ministro, ulteriori accertamenti. Anche l’Unione europea vuole notizie, per esser certa che nella procedura d’espulsione si siano seguite le norme europee.  

Non c’è stata anche della brutalità, nel modo con cui Alma è stata catturata?
Il Financial Times pubblica un suo memoriale, secondo il quale il cognato venne percosso dagli agenti. Le irruzioni nella casa sono state quattro e Ablyazov è rimasto nella villa di Casal Palocco fino a due giorni prima. Lo sappiamo grazie a un pedinamento commissionato dai servizi israeliani. Usciva poco di casa. Lui e la moglie avevano a disposizione una Volvo e una Lancia Voyager. Siamo tutti concentrati su quello che ha fatto o non ha fatto il ministro Alfano, ma certo un approfondimento sul dissidente e la sua famiglia, sul loro modo di muoversi nel mondo, sui loro contatti non sarebbe inutile. Non dimentichiamo che si tratta di un ex banchiere.  

Esiste qualche possibilità che Alma e la bambina tornino in Italia?
Alfano ha fatto capire che esistono. Un loro rientro, magari prima di venerdì, disinnescherebbe di certo questa bomba politica. È chiaro che sono in corso fortissime pressioni da parte di Roma su Astana.  

Siamo sicuri che Berlusconi, amico di Putin a sua volta amico del dittatore kazako, non c’entri niente?
La stampa di sinistra lo insinua quasi ad ogni riga nei suoi articoli ed è chiaro che va cercando proprio questo. Ma, al momento, nulla risulta.