Fior da fiore, 5 giugno 2013
Tutti i giorni, in Occidente, ogni cittadino spreca una quantità di cibo pari a circa duemila calorie • I danni da fame ci costano 500 dollari a testa • Balene sterminate anche se i giapponesi non le mangiano più • L’arte di disconnettersi da Internet • La gente non si guarda più negli occhi • Il crollo delle vocazioni religiose
Cibo 1 Nella Giornata mondiale dell’Ambiente, il Barilla Center for Food and Nutrition fa sapere che tutti i giorni, nel mondo occidentale, ogni cittadino spreca una quantità di cibo pari a circa 2.054 chilocalorie: quanto basta a sfamare una persona. Lo spreco, oltre a produrre rifiuti inquinanti, disperde risorse preziose come acqua, terra, petrolio ed energia impiegati per produrre il cibo. In Italia gli sprechi agroalimentari emettono circa 4 milioni di tonnellate di CO2, energia sufficiente ad alimentare i consumi energetici della popolazione italiana in un anno (Cds).
Cibo 2 Secondo il rapporto Sofa (State of food and agricolture) della Fao, nel mondo ci sono due miliardi di persone che soffrono per la malnutrizione, e quasi 900 mila patiscono letteralmente la fame. Dall’altra parte del globo, invece, si conta un miliardo e 400 milioni di persone che di cibo abusano, tanto da risultare scientificamente sovrappeso (mezzo miliardo è proprio obeso). Non solo: nel mondo il 26 per cento dei bambini sotto i cinque anni soffrono di rachitismo e presentano disturbi della crescita, mentre il 31 per cento soffre per la carenza di vitamina A. «Sono numeri che pesano sul bilancio dell’economia mondiale. E pesano davvero parecchio. Nel rapporto Sofa della Fao sono stati fatti i conti, con precisione. Ed è venuto fuori che i costi sociali ed economici della malnutrizione sono alti e pesano per circa il 5% del Pil mondiale equivalente a 3,5 trilioni di dollari l’anno. Per capire di che cifre stiamo parlando: un trilione di dollari nel conteggio convenzionale equivale a mille miliardi di dollari. Tradotto ancora: se si divide questa cifra per la popolazione mondiale, viene fuori che il costo della malnutrizione pesa per 500 dollari a persona per ogni cittadino del mondo, neonati e ultrasessantacinquenni inclusi. Il costo principale della malnutrizione è quello che grava sulla parte povera del mondo, su quella che è sottoalimentata: presenta un conto di circa 2,1 trilioni di dollari ogni anno. Ma c’è anche il costo dell’altra parte del mondo, quello ricco, quello che di cibo abusa, e lo butta via per eccessi. Non è un costo da poco quello delle persone obese e di quelle che sono sovrappeso, di poco inferiore a quello della sottoalimentazione. Anche qui il rapporto Sofa della Fao ha fatto i conti precisi. I costi della parte florida del mondo sono sostanzialmente costi di tipo sanitario e gravano sul bilancio dell’economia mondiale per circa 1,4 trilioni di dollari» (Alessandra Arachi, Cds).
Balene Il sapore di balena ha stancato anche i giapponesi più ghiotti, e il mercato non tira: secondo l’Institute for Cetacean Research nel 2003 sono state congelate nei frigoriferi del pianeta perché invendute 2200 tonnellate di carne di balena, nel 2012 4700, di cui solo in Giappone 4000 (quanto tutte le riserve auree della Cina). Il consumo in Giappone è limitato ad alcune comunità ristrette e agli anziani che ricordano i tempi della scarsità di proteine nel dopoguerra (la carne ha un gusto molto deciso, i giovani non la mangiano). Ciononostante, nessuno ferma lo sterminio: «A sentire gli studi segnalati dai difensori più pugnaci, quelli di Sea Shepherd, le balene hanno una massa cerebrale e una struttura dei lobi tali da poter ipotizzare che abbiano una sviluppata coscienza di sé, una percezione della sofferenza, una capacità artistica e culturale, e persino una potenzialità di riflessione filosofica. Insomma, se ci fa piacere immaginare che i delfini abbiano un cervello simile a quello dell’uomo e possano diventare “compagni” degli esseri umani nelle scorribande acquatiche, per le balene il rispetto dovrebbe essere persino maggiore. E invece gli aspiranti capitan Achab delle flotte norvegesi, islandesi, nipponiche sognano di tingere il blu in rosso, per veder agonizzare sul ponte di navi mattatoio le regine degli abissi. Che importa dove andranno? Filetti di balenottera sono stati trovati al posto del salmone, nel sashimi di ristoranti giapponesi di California e Corea» (Gianpaolo Cadalanu, Rep)
Offline Nuova tendenza americana: ritagliarsi degli spazi in cui vivere scollegati da Internet. Ad esempio Even Sharp, fondatore di Pinterest, la piattaforma digitale per la condivisione delle immagini, almeno una volta al mese, con la moglie, si concede un week end senza Internet in qualche posto dove il telefonino ha poco campo («Figuratevi se io posso essere contro la tecnologia. Non potrei vivere senza il mio smartphone, ma penso che sia giusto e salutare prenderci delle pause»). Anche il mercato del divertimento si sta adeguando, ad esempio la catena di hotel Marriott, dopo che un sondaggio ha rivelato che ben l’85% delle persone è infastidito dall’invasione tecnologica, offre pacchetti “Internet free” ai propri clienti: ci sono zone dove non c’è il wifi ed è vietato l’uso dei gadget tecnologici. Inoltre aumentano i corsi e i manuali che insegnano le regole base per disintossicarsi: «Alcune al confine tra il pratico e il ridicolo: dimenticarsi il carica batterie quando si parte. Altre più realistiche, come decidere che alcune stanze della casa sono denuclearizzate, oppure che ci sono fasce orarie in cui la tecnologia riposa nei cassetti. Si spiega alla gente come staccare i vari “alert” o disattivare Twitter, Facebook, e-mail e sms lasciando invece in funzione la possibilità di ricevere chiamate per le emergenze: “Tanto le telefonate sono così in disuso che nessuno vi disturberà”. E siccome Internet tutto crea, tutto distrugge e tutto ricrea sono sempre di più le applicazioni che aiutano chi vuole prendersi una pausa. I blog dal titolo The art of disconnecting in un apparente paradosso sono i più cliccati. E su Internet un’agenzia immobiliare con un forte senso dell’umorismo mette in vendita case “in zone dove il telefonino prende poco e male”» (Massimo Vincenzi, Rep.)
Nomophobia Nuove malattie che hanno costretto i medici ad aggiornare il loro vocabolario: nomophobia (la paura di non aver segnale) o l’acronimo Fomo (che sono quelli spaventati da perdersi una e-mail, un post di Facebook) (ibidem).
Occhi Gli ultimi studi rivelano che stiamo smarrendo la capacità di guardarci negli occhi. In teoria, secondo la scienza, abbiamo bisogno di 60/70 secondi per accendere un’empatia, ma ora, a causa dei nostri dispositivi digitali, siamo scesi ad una media che va dai 30 ai 60. Noah Zandan, esperto di dinamiche sociali: «Tra i giovani è ormai dato per acclarato che si può stare assieme senza guardarsi in faccia, controllando di continuo il proprio telefonino. È un danno umano, ma persino economico tanto che nascono corsi per insegnare ai manager a riprendere a fissare negli occhi i loro interlocutori. E alcune aziende offrono incentivi a chi abbandona il proprio cubicolo in ufficio per andare a incontrare i colleghi. La Intel invece obbliga i ricercatori ad alcune ore alla settimana di black out informatico per ricaricare le pile e pulire la mente. I benefici sono enormi: quando si ritorna dal viaggio dentro questo rilassante buco nero l’efficienza aumenta sino all’80%» (ibidem).
Numeri Gli americani passano oltre otto ore e mezzo davanti a un video, tempo raddoppiato dal 2005 al 2009 e in continua ascesa. Gli adolescenti ricevono quasi cento messaggini al giorno e tutti noi buttiamo l’occhio sul nostro smartphone oltre 150 volte (ibidem).
Religiosi Secondo i dati diffusi dal Vaticano, le congregazioni religiose stanno vivendo una crisi di vocazioni senza precedenti. Dai gesuiti ai francescani, oggi sono poco più di centomila i religiosi nel mondo, 710mila circa le religiose. Erano rispettivamente più di 150mila e più di un milione all’inizio degli anni Settanta (Paolo Rodari, Rep).
(a cura di Roberta Mercuri)