Corriere della Sera, sabato 7 agosto 1999, 13 maggio 2013
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Il 24 maggio di Indro Montanelli
Corriere della Sera, sabato 7 agosto 1999
Un bambino assiste alle discussioni casalinghe fra zii interventisti e un nonno perplesso 24 maggio 1915, l’Italia va in guerra e mette a rischio la pace in famiglia Un testimone d’eccezione racconta come ha vissuto un evento memorabile della nostra storia. Diario tra pubblico e privato Al compleanno del Vecchio c’eravamo tutti e fu stabilito che la conversazione s’incentrasse sull’acquisto di una nuova fornace Anche noi nipotini venimmo indottrinati a evitare che fosse pronunciata la parola «intervento» nemmeno riferita ai mattoni.
Quel 24 maggio del 1915 avrebbe dovuto essere in casa nostra di festa perché segnava il sessantesimo compleanno del Vecchio, come già veniva chiamato mio nonno. E almeno formalmente lo fu. All’adunata generale nel «palazzone» (così chiamato, ma solo per le sue dimensioni) nella parte alta di Fucecchio, e il cui unico lusso era un giardino pensile a tre piani, c’eravamo tutti: i quattro figli, di cui uno laureato, gli altri studenti universitari, e le tre figlie di cui due sposate con relativa prole fra cui io, che avevo fatto da poco sei anni. Ma sotto sotto covava la discordia per via della guerra. I miei zii erano tutti ardenti interventisti. Uno perché repubblicano ortodosso, e quindi nemico giurato degli Imperi Centrali. Un altro perché socialista alla Bissolati, che nella guerra vedeva la guerra alla guerra. Il terzo perché, ammaliato dal Vate D’Annunzio, ci vedeva la fuga dalla mediocrità e la «bella avventura». L’ultimo, liceale diciassettenne, per amor di baldoria e voglia di menar le mani. Liberale giolittiano, il Vecchio era invece neutralista irriducibile («L’Italia – diceva – è appiccicata con lo sputo: non ha le ossa per affrontare una simile prova: ci si spappolerà»). Ma trovava appoggio solo in un suo genero, Giulio Nardini, capitano medico che da Tenente si era guadagnata una medaglia d’argento a Adua dove, con una coscia trapassata da una pallottola abissina, era riuscito a sgombrare quasi tutti i feriti del suo ospedaletto da campo; e, caduto prigioniero, era stato condotto a piedi e febbricitante fino a Addis Abeba, dov’era diventato medico di Menelik, il quale gli aveva affidato la cura si un suo nipotino malaticcio, di nome Tafari, il futuro Hailè Selassiè . «Contro i tedeschi? – diceva – Ma siamo matti? Loro, la guerra la sanno fare...».
Per i lunghi mesi della vigilia, discussioni e litigi in casa non ce n’erano stati. Nessuno avrebbe osato dare sulla voce al Vecchio che, da liberale, riconosceva ai giovani il diritto alle «mattane». Solo quando sapeva che uno di loro era stato arrestato per qualcuna di queste mattane che mettevano a soqquadro il paese, andava dal maresciallo dei carabinieri per raccomandargli di tenerlo al fresco piu’a lungo che poteva. Col pieno consenso di sua moglie, mia nonna. La quale non solo si chiamava Rosmunda, ma lo era, lo rimase fino a novant’anni, e uno dei suoi ultimi gesti fu un solenne ceffone a una sua figlia ultracinquantenne che aveva osato darle sulla voce. In casa quindi l’argomento guerra era considerato off limits. Ma covava in tutti i rapporti e conversari che avevano assunto qualcosa di convenzionale, rendendoli faticosi. E questo si avvertiva soprattutto ai pasti ai quali – a mezzogiorno in punto e alle sette di sera altrettanto in punto – non si poteva mancare che per qualche causa di forza maggiore, e che costituivano i due maggiori riti del culto domestico. Da garruli quali erano sempre stati, e scoppiettanti di reciproci sfottò, da cui solo il Vecchio era immune, senza diritto a fermarli, si erano fatti stentati, evasivi, e carichi di nuvole, anche se non davano acqua. Ma quel 24 maggio era per tutti una dura prova. Non si poteva affrontarlo che come una festa, dato che così lo si era sempre celebrato. Ma stavolta c’era il rischio che la festa venisse interpretata come quella di qualcosa che per il festeggiato rappresentava invece un lutto. Per cui fu stabilito (questo mi fu spiegato, si capisce, parecchio tempo dopo) che la conversazione s’incentrasse sull’acquisto di una nuova fornace di mattoni – la nostra famiglia ne possedeva già due –, e sull’uso che si doveva farne. Ma evitando, anche se riferito ai mattoni, la parola «intervento». E a questo venimmo indottrinati anche noi tre nipotini, che il Vecchio voleva nei giorni canonici alla sua tavola, vasta come una zattera. Quel pranzo me lo rammento nei minimi dettagli anche perché il suo ricordo fu, nella nostra famiglia, continuamente rinfrescato. Fuori di casa sfilavano, con fanfare e sventolio di bandiere, i «guerrafondai”, come già venivano chiamati dai «panciafichisti». Ma in quella sala da pranzo che dava sul giardino i rumori della strada giungevano così fiochi che si poteva anche ignorarli, o fingere d’ignorarli. Come convenuto, si parlò di mattoni e di fornaci, e delle prospettive di quello che oggi si chiamerebbe «il mercato”, ma allora questo termine non era ancora entrato nel lessico quotidiano, lo si chiamava in un altro modo, non ricordo quale. E qui la discussione corse il rischio di precipitare nell’argomento proibito per lo sconsiderato intervento dello zio diciassettenne (che allo stato civile era iscritto col nome di Curtatone, ma in famiglia era chiamato Bibi), il quale disse che l’acquisto della fornace era certamente un buon affare perché di mattoni, dopo, ci sarebbe stato un gran bisogno. «Dopo cosa?» chiese il Vecchio, e un brivido di sgomento passò nella schiena di tutti, anche di noi ragazzi che non capivamo bene di che si trattasse, ma sentivamo il sottofondo d’imbarazzo che dominava quei conversari. Per fortuna proprio in quel momento la cuoca Filomena entrò, accolta da un grande applauso liberatorio, spingendosi avanti il carrello su cui fumigava la zuppa preferita dal Vecchio: l’acquacotta (la pasta non essendo ancora entrata nel repertorio delle mense toscane). Sicchè, messo da parte quel periglioso dopo, la discussione potè riprendere e procedere senz’altri intoppi fino in fondo, cioè fino al caffè . Preceduta da quella del Vinsanto coi biscotti di Prato, quella del caffè era una cerimonia a parte, che il Vecchio officiava sempre allo stesso modo, rovesciando un bicchiere vuoto, stendendovi sopra il lungo ed esile sigaro Virginia, sfilandone la pagliuzza che sporgeva fuori da una delle due estremità, usandola a mo’ di miccia, con quella accendendo l’altra estremità del sigaro e lasciandolo per qualche minuto bruciare prima di portarsene alla bocca l’altra estremità . Lo fece anche quel giorno, ma tutti capirono che invece che di un epilogo, qual era sempre stato, stavolta si trattava di un prologo, e di colpo il chiacchiericcio si spense. Il Vecchio aspettò che quel silenzio si caricasse bene di attesa. Poi, tratta la prima boccata di fumo, e fissando figli e generi negli occhi, disse pacatamente: «L’avete voluta? E ora andate a farla. Da domani, intorno a questa tavola, non voglio vedere piu’nessuno. Tutti in trincea. Anche te – aggiunse rivolgendosi a zio Bibi –, che non hai l’età e quindi hai bisogno del mio permesso. Portami stasera la domanda: te la firmo».
Si alzò . Mi prese per mano (ero il suo preferito), e insieme scendemmo in giardino come lui sempre faceva dopo pranzo. Camminammo un po’ in silenzio. Poi trovai il coraggio di chiedergli: «Nonno, ma la guerra chi la vincerà ?». Mi carezzò la testa, e rispose: «Chi la vincerà, figliolo mio, non lo so. Ma so con sicurezza chi la perderà : l’Italia». E, come mosso a pietà dalla mia aria incomprensiva e smarrita, aggiunse: «Beh, questo ora non puoi capirlo, ma lo capirai da grande”, e riprendemmo a passeggiare. Dopo un po’ mi fermai e gli chiesi: «Ma i tedeschi arriveranno fin qui, come dice zio Giulio?». « È probabile» rispose lui ripigliando a camminare. «E, noi allora che faremo?» incalzai fermandomi a mia volta. «Noi chi? – ribattè lui –. Io e te? Io e te li aspetteremo coi nostri schioppi lì dentro la limonaia, e non smetteremo di sparargli addosso fin quando non ci avranno ammazzato.... Ci stai?». Ecco come vissi il mio 24 Maggio 1915. Poscritto. Partirono tutti, come il Vecchio aveva voluto. Uno non tornò . Di un altro tornò solo un brandello. Il terzo, quello della «bella avventura”, emigrò disgustato in Messico e non si fece piu’vedere. L’ultimo, accolto dai compaesani a insulti e sputacchi, diventò squadrista, ma dopo l’assassinio di Matteotti uscì clamorosamente dal partito, e ad ogni anniversario del delitto partiva per Roma a portare un mazzo di fiori nel punto del Lungotevere in cui la vittima era stata aggredita e sequestrata. Lì, altrettanto regolarmente, trovava ad aspettarlo un ex camerata fiorentino armato di un bicchiere d’olio di ricino, che mio zio inghiottiva senza protestare. Con gli anni quest’altra cerimonia finì, anzi i due erano ridiventati amici. E il venticinque luglio si ritrovarono per una bicchierata alla caduta del regime, al termine della quale l’ex ricinista disse: «Ora, grazie a Dio, non c’è piu’nulla a dividerci». «No – disse mio zio –, qualcosina c’è : questa». E tirò fuori, aprendola, una scatolina d’argento piena di qualcosa che somigliava a dei detriti. «È uno scampolino di conseguenze della robina che mi propinavi a Roma, ricordi?» spiegò in risposta allo sguardo interrogativo dell’altro. «Mi contento che tu ne assaggi un cucchiaino. Ma il cucchiaino me lo devi». E non ci fu verso: un cucchiaino, l’altro, dovette trangugiarlo. Peccato che il Vecchio fosse morto. Avrebbe molto apprezzato quel poscritto. Anzi, vi si sarebbe riconosciuto.
Un bambino assiste alle discussioni casalinghe fra zii interventisti e un nonno perplesso 24 maggio 1915, l’Italia va in guerra e mette a rischio la pace in famiglia Un testimone d’eccezione racconta come ha vissuto un evento memorabile della nostra storia. Diario tra pubblico e privato Al compleanno del Vecchio c’eravamo tutti e fu stabilito che la conversazione s’incentrasse sull’acquisto di una nuova fornace Anche noi nipotini venimmo indottrinati a evitare che fosse pronunciata la parola «intervento» nemmeno riferita ai mattoni.
Quel 24 maggio del 1915 avrebbe dovuto essere in casa nostra di festa perché segnava il sessantesimo compleanno del Vecchio, come già veniva chiamato mio nonno. E almeno formalmente lo fu. All’adunata generale nel «palazzone» (così chiamato, ma solo per le sue dimensioni) nella parte alta di Fucecchio, e il cui unico lusso era un giardino pensile a tre piani, c’eravamo tutti: i quattro figli, di cui uno laureato, gli altri studenti universitari, e le tre figlie di cui due sposate con relativa prole fra cui io, che avevo fatto da poco sei anni. Ma sotto sotto covava la discordia per via della guerra. I miei zii erano tutti ardenti interventisti. Uno perché repubblicano ortodosso, e quindi nemico giurato degli Imperi Centrali. Un altro perché socialista alla Bissolati, che nella guerra vedeva la guerra alla guerra. Il terzo perché, ammaliato dal Vate D’Annunzio, ci vedeva la fuga dalla mediocrità e la «bella avventura». L’ultimo, liceale diciassettenne, per amor di baldoria e voglia di menar le mani. Liberale giolittiano, il Vecchio era invece neutralista irriducibile («L’Italia – diceva – è appiccicata con lo sputo: non ha le ossa per affrontare una simile prova: ci si spappolerà»). Ma trovava appoggio solo in un suo genero, Giulio Nardini, capitano medico che da Tenente si era guadagnata una medaglia d’argento a Adua dove, con una coscia trapassata da una pallottola abissina, era riuscito a sgombrare quasi tutti i feriti del suo ospedaletto da campo; e, caduto prigioniero, era stato condotto a piedi e febbricitante fino a Addis Abeba, dov’era diventato medico di Menelik, il quale gli aveva affidato la cura si un suo nipotino malaticcio, di nome Tafari, il futuro Hailè Selassiè . «Contro i tedeschi? – diceva – Ma siamo matti? Loro, la guerra la sanno fare...».
Per i lunghi mesi della vigilia, discussioni e litigi in casa non ce n’erano stati. Nessuno avrebbe osato dare sulla voce al Vecchio che, da liberale, riconosceva ai giovani il diritto alle «mattane». Solo quando sapeva che uno di loro era stato arrestato per qualcuna di queste mattane che mettevano a soqquadro il paese, andava dal maresciallo dei carabinieri per raccomandargli di tenerlo al fresco piu’a lungo che poteva. Col pieno consenso di sua moglie, mia nonna. La quale non solo si chiamava Rosmunda, ma lo era, lo rimase fino a novant’anni, e uno dei suoi ultimi gesti fu un solenne ceffone a una sua figlia ultracinquantenne che aveva osato darle sulla voce. In casa quindi l’argomento guerra era considerato off limits. Ma covava in tutti i rapporti e conversari che avevano assunto qualcosa di convenzionale, rendendoli faticosi. E questo si avvertiva soprattutto ai pasti ai quali – a mezzogiorno in punto e alle sette di sera altrettanto in punto – non si poteva mancare che per qualche causa di forza maggiore, e che costituivano i due maggiori riti del culto domestico. Da garruli quali erano sempre stati, e scoppiettanti di reciproci sfottò, da cui solo il Vecchio era immune, senza diritto a fermarli, si erano fatti stentati, evasivi, e carichi di nuvole, anche se non davano acqua. Ma quel 24 maggio era per tutti una dura prova. Non si poteva affrontarlo che come una festa, dato che così lo si era sempre celebrato. Ma stavolta c’era il rischio che la festa venisse interpretata come quella di qualcosa che per il festeggiato rappresentava invece un lutto. Per cui fu stabilito (questo mi fu spiegato, si capisce, parecchio tempo dopo) che la conversazione s’incentrasse sull’acquisto di una nuova fornace di mattoni – la nostra famiglia ne possedeva già due –, e sull’uso che si doveva farne. Ma evitando, anche se riferito ai mattoni, la parola «intervento». E a questo venimmo indottrinati anche noi tre nipotini, che il Vecchio voleva nei giorni canonici alla sua tavola, vasta come una zattera. Quel pranzo me lo rammento nei minimi dettagli anche perché il suo ricordo fu, nella nostra famiglia, continuamente rinfrescato. Fuori di casa sfilavano, con fanfare e sventolio di bandiere, i «guerrafondai”, come già venivano chiamati dai «panciafichisti». Ma in quella sala da pranzo che dava sul giardino i rumori della strada giungevano così fiochi che si poteva anche ignorarli, o fingere d’ignorarli. Come convenuto, si parlò di mattoni e di fornaci, e delle prospettive di quello che oggi si chiamerebbe «il mercato”, ma allora questo termine non era ancora entrato nel lessico quotidiano, lo si chiamava in un altro modo, non ricordo quale. E qui la discussione corse il rischio di precipitare nell’argomento proibito per lo sconsiderato intervento dello zio diciassettenne (che allo stato civile era iscritto col nome di Curtatone, ma in famiglia era chiamato Bibi), il quale disse che l’acquisto della fornace era certamente un buon affare perché di mattoni, dopo, ci sarebbe stato un gran bisogno. «Dopo cosa?» chiese il Vecchio, e un brivido di sgomento passò nella schiena di tutti, anche di noi ragazzi che non capivamo bene di che si trattasse, ma sentivamo il sottofondo d’imbarazzo che dominava quei conversari. Per fortuna proprio in quel momento la cuoca Filomena entrò, accolta da un grande applauso liberatorio, spingendosi avanti il carrello su cui fumigava la zuppa preferita dal Vecchio: l’acquacotta (la pasta non essendo ancora entrata nel repertorio delle mense toscane). Sicchè, messo da parte quel periglioso dopo, la discussione potè riprendere e procedere senz’altri intoppi fino in fondo, cioè fino al caffè . Preceduta da quella del Vinsanto coi biscotti di Prato, quella del caffè era una cerimonia a parte, che il Vecchio officiava sempre allo stesso modo, rovesciando un bicchiere vuoto, stendendovi sopra il lungo ed esile sigaro Virginia, sfilandone la pagliuzza che sporgeva fuori da una delle due estremità, usandola a mo’ di miccia, con quella accendendo l’altra estremità del sigaro e lasciandolo per qualche minuto bruciare prima di portarsene alla bocca l’altra estremità . Lo fece anche quel giorno, ma tutti capirono che invece che di un epilogo, qual era sempre stato, stavolta si trattava di un prologo, e di colpo il chiacchiericcio si spense. Il Vecchio aspettò che quel silenzio si caricasse bene di attesa. Poi, tratta la prima boccata di fumo, e fissando figli e generi negli occhi, disse pacatamente: «L’avete voluta? E ora andate a farla. Da domani, intorno a questa tavola, non voglio vedere piu’nessuno. Tutti in trincea. Anche te – aggiunse rivolgendosi a zio Bibi –, che non hai l’età e quindi hai bisogno del mio permesso. Portami stasera la domanda: te la firmo».
Si alzò . Mi prese per mano (ero il suo preferito), e insieme scendemmo in giardino come lui sempre faceva dopo pranzo. Camminammo un po’ in silenzio. Poi trovai il coraggio di chiedergli: «Nonno, ma la guerra chi la vincerà ?». Mi carezzò la testa, e rispose: «Chi la vincerà, figliolo mio, non lo so. Ma so con sicurezza chi la perderà : l’Italia». E, come mosso a pietà dalla mia aria incomprensiva e smarrita, aggiunse: «Beh, questo ora non puoi capirlo, ma lo capirai da grande”, e riprendemmo a passeggiare. Dopo un po’ mi fermai e gli chiesi: «Ma i tedeschi arriveranno fin qui, come dice zio Giulio?». « È probabile» rispose lui ripigliando a camminare. «E, noi allora che faremo?» incalzai fermandomi a mia volta. «Noi chi? – ribattè lui –. Io e te? Io e te li aspetteremo coi nostri schioppi lì dentro la limonaia, e non smetteremo di sparargli addosso fin quando non ci avranno ammazzato.... Ci stai?». Ecco come vissi il mio 24 Maggio 1915. Poscritto. Partirono tutti, come il Vecchio aveva voluto. Uno non tornò . Di un altro tornò solo un brandello. Il terzo, quello della «bella avventura”, emigrò disgustato in Messico e non si fece piu’vedere. L’ultimo, accolto dai compaesani a insulti e sputacchi, diventò squadrista, ma dopo l’assassinio di Matteotti uscì clamorosamente dal partito, e ad ogni anniversario del delitto partiva per Roma a portare un mazzo di fiori nel punto del Lungotevere in cui la vittima era stata aggredita e sequestrata. Lì, altrettanto regolarmente, trovava ad aspettarlo un ex camerata fiorentino armato di un bicchiere d’olio di ricino, che mio zio inghiottiva senza protestare. Con gli anni quest’altra cerimonia finì, anzi i due erano ridiventati amici. E il venticinque luglio si ritrovarono per una bicchierata alla caduta del regime, al termine della quale l’ex ricinista disse: «Ora, grazie a Dio, non c’è piu’nulla a dividerci». «No – disse mio zio –, qualcosina c’è : questa». E tirò fuori, aprendola, una scatolina d’argento piena di qualcosa che somigliava a dei detriti. «È uno scampolino di conseguenze della robina che mi propinavi a Roma, ricordi?» spiegò in risposta allo sguardo interrogativo dell’altro. «Mi contento che tu ne assaggi un cucchiaino. Ma il cucchiaino me lo devi». E non ci fu verso: un cucchiaino, l’altro, dovette trangugiarlo. Peccato che il Vecchio fosse morto. Avrebbe molto apprezzato quel poscritto. Anzi, vi si sarebbe riconosciuto.
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