Rassegna, 7 maggio 2013
Andreotti e il rapimento Moro
• Giulio Andreotti era il presidente del Consiglio del governo di unità nazionale che nel 1978, nei cinquantacinque giorni del sequestro Moro, dispiegò la cosiddetta «linea della fermezza» e andò allo scontro frontale con la Direzione strategica delle Br e al rifiuto proclamato di ogni trattativa. Sorgi sulla Sta: «Riuscì perfino ad influenzare il famoso appello di Paolo VI, un Papa assai vicino per generazione e formazione a Moro e allo stato maggiore del suo partito, che finì per rivolgere ai terroristi solo un invito, purtroppo rivelatosi inutile, a liberare il prigioniero senza condizioni. Per questo, o anche per questo, Andreotti e Zaccagnini, l’ascetico segretario della Dc in quei giorni, divennero, insieme al ministro dell’Interno Cossiga, i bersagli principali delle strazianti lettere di Moro dal carcere brigatista. Nelle quali, il prigioniero mostra di conoscere come nessun altro le sfumature di carattere dei suoi amici di partito, e mettendoli uno contro l’altro di fronte alle loro responsabilità, tenta il sottile gioco psicologico di aprire una breccia nel muro rigido della fermezza: scelta inevitabile, ma impensabile, per un partito molle come la Dc. Di Andreotti, come risulta chiaro dalle lettere che lo riguardano, Moro in particolare conosceva due aspetti che da soli ne definivano la personalità, individuale e politica: il carattere romano indifferente, profondamente conoscitore dei valori, e dei limiti di osservanza degli stessi, dei cattolici impegnati in politica. E la natura esterna del rapporto con il partito, che mai lo aveva portato, unico tra i grandi leader Dc, a correre per la segreteria, e sempre o quasi sempre per quarant’anni a entrare, con ruoli di rilievo, nei governi democristiani».