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 2013  aprile 02 Martedì calendario

Lorenzetto e il suo ricordo di Craxi ad Hammamet (articolo dell’8/1/2000)

Il Giornale, venerdì 8 gennaio 2010
«Porta il computer». Quale computer, scusi? «Se non hai con te il computer, con che cosa la scriviamo l’intervista?». Ero arrivato in hotel a Tunisi da mezz’ora e già temevo di dover tornare indietro a mani vuote. Bettino Craxi – l’avrei imparato solo l’indomani – non dava interviste: le dettava. Sillabava le parole, torniva le frasi, scolpiva i concetti. Quindi uno scalpellino, gli serviva, come si confà a chi consegna alla Storia massime eterne, non un giornalista. Mi dava del tu senza che ci fossimo mai incontrati o sentiti in precedenza. Ma, al telefono da Hammamet, dietro il tono confidenziale dissimulava il tratto distintivo del suo carattere: la perentorietà. «E vabbè, vieni domattina col registratore».

Porta, vieni. Parlava solo per imperativi. Il giorno dopo non fu da meno: entra, siediti, scrivi, aggiungi, cancella, dimmi, spiegami, raccontami, spegni (il registratore, «ti rivelo il nome del politico democristiano che condannò a morte Aldo Moro»), bevi (il rosso dell’Oltrepò pavese), assaggia (il salame felino, «ma qui mi mandano anche il pecorino sardo e la burrata pugliese e mangio pure i mondeghili, come a Milano, che ti credevi?»). Una vita passata a dare ordini, a decidere per gli altri. Continuava. Non da esule, non da latitante. Da statista. Il mestiere per cui era nato.

Per la prima volta me lo immaginai indifeso. Non è burbanza, pensai, ma timidezza. Quante gliene avevo dette, appena quattro anni prima, sul giornale della mia città! Per la sua insistenza nel trasmettere in fac–simile memoriali e rettifiche a Procure e quotidiani, scrissi che non ad Hammamet avrebbe dovuto rifugiarsi, bensì a Sfax. E quando aveva confessato a Panorama che non trovava il mezzo di trasporto adatto per tornare in Italia («E come? In carrozzella? A cavallo?»), in prima pagina mi offrii persino di pagargli il biglietto, 271.000 lire, del volo TU 752 per Roma della Tunis Air, in partenza ogni mattina alle ore 10.55 da Tunisi. Sarcasmi così, d’accatto.

Era il 28 gennaio 1999. Un anno dopo, di questi giorni, sarebbe morto. Credo che il presentimento del congedo lo accompagnasse a ogni passo. Però gli seccava moltissimo ammetterlo. «La questione non mi sembra attuale», rispose sbrigativo quando gli chiesi se avesse già individuato il luogo dove farsi seppellire. «Oggi vedo che la vita si allunga in modo straordinario. Io sono già arrivato ai 65. Ma alla morte ci dobbiamo pensare tutti, vero?». Fece una delle sue pause, un po’ studiate e un po’ sincere. «Il meno possibile...». Poi, per non sottrarsi alla domanda, mi confidò che era pronto per lui «un posticino» nel cimitero cattolico di Hammamet, accanto alla tomba del parroco italiano, don Vittorio Lombardi, nativo di Tunisi.

Riposa lì da dieci anni. Non ha fatto nemmeno in tempo ad arrivare ai 66. «La mia libertà equivale alla mia vita» è inciso nel libro di marmo bianco sulla lapide. Poteva bastare così, c’erano già nome e cognome, tutti avrebbero capito. No, ha voluto che aggiungessero il suo autografo. Fedele al personaggio fino all’ultimo.

La libertà. La sera prima di partire per Tunisi, Indro Montanelli mi aveva spiegato che, fosse dipeso da lui, Craxi sarebbe potuto rientrare in Italia anche subito senza transitare da San Vittore. A una condizione: «Che se ne stia zitto e si faccia dimenticare». Lo riferii all’interessato, che commentò tagliente: «È l’esatto contrario di ciò che intendo fare. Non mi metto nelle mani della giustizia politica. Neanche morto. O da uomo libero o mai più». Mai più.

Ma non fu affatto una libertà vera, quella di cui godette nei 2.074 giorni finali della sua breve vita. «Non sono costretto in una condizione di dolore e infelicità, sarebbe ingiusto se ti dicessi questo. che non ci sono abituato. Prima giravo il mondo, lavoravo». Gran sospiro. «Forse è la fine di tutti i pensionati», cercava di sviare la malinconia. Lo sapeva persino Amhadi, il tassista che da Tunisi mi portò fino ad Hammamet, come stavano le cose: «Et voilà la prison!», aveva esclamato, fermando la vecchia Peugeot davanti al muro bianco di cinta in route El Fawara. Craxi viveva prigioniero in casa propria, guardato a vista dagli agenti della polizia tunisina, almeno una quarantina suddivisi in vari turni di guardia. Io ne contai sette soltanto all’ingresso della villa.

Anche se fingeva con se stesso sulla sua reale situazione («non sono protetto dalle autorità, ma benvoluto dal popolo»), appariva evidente anche a lui, l’uomo che in Italia era stato per due volte capo del governo, come la deferente custodia assicuratagli dal presidente Zin al–Abdin Ben Ali si fosse trasformata in una dorata reclusione. Me l’aveva lasciato intendere chiaramente nella telefonata: «Quando arriverai ad Hammamet, all’entrata di casa troverai i militari. Digli che sei un amico di famiglia, non un giornalista. Non esibire tessere professionali, mi raccomando. Se non ti lasciassero passare, vai all’albergo Abou Nawas e telefonami da lì. Vedrò di raggiungerti».

Gli agenti nella guardiola erano armati di pistola e muniti di metaldetector e ricetrasmittenti. Dal cinturone di uno di loro pendevano un paio di manette. Filò tutto liscio. Nel vialetto d’ingresso i mulinelli di vento sollevavano brandelli di Corriere della Sera, foglie secche, gomitoli di lanugine vegetale proveniente dai tronchi delle palme. Ricordo d’aver pensato: e questa sarebbe la reggia da mille e una notte del più grande tangentiere di tutti i tempi? manco un giardiniere può permettersi? ma allora dove l’ha nascosta tutta la ricchezza accumulata illecitamente? come l’ha spesa? a chi l’ha data, visto che i figli lavorano e in casa l’unica colf è la moglie? Considerazioni che facevano il paio – me ne rendevo conto solo in quell’istante – con la scoperta che la contessa Marina Lante della Rovere, poi Ripa di Meana, assidua frequentatrice del buen retiro tunisino, aveva fatto anni prima, ai tempi d’oro: Craxi dava da bere ai suoi numerosi ospiti l’acqua del pozzo, riempiendo le bottiglie di minerale vuote. Di lì a un paio d’ore, l’ex leader socialista m’avrebbe letto nel pensiero: «A proposito, ma tutti questi casi di arricchimento personale dove sono? Si dovrebbero vedere, no? Perché non saltano fuori?». Collimava con ciò che il suo storico avversario, Francesco De Martino, il segretario del Psi che nel 1976 all’hotel Midas di Roma fu disarcionato dai quarantenni capeggiati da Craxi, m’aveva detto appena un mese prima: «Bettino ha applicato con eccessiva disinvoltura il principio machiavellico del fine che giustifica i mezzi. Ma io non credo che egli si sia arricchito personalmente. Il denaro era per lui soltanto uno strumento della politica».

Il freddo africano, tanto più fastidioso di quello europeo quanto più inaspettato, nel villino di Hammamet era appena mitigato dal ciocco che ardeva in un caminetto troppo lontano per riscaldare le ossa. Fuori s’intravedeva una piscina anni Sessanta. L’insieme della scena era di una tristezza infinita, quasi angosciosa. Il padrone di casa si mostrò molto docile nel lasciarsi ritrarre mentre sfogliava un libro pubblicato nel 1848 che pareva procurargli una mesta ilarità, Les gens de justice di Honoré Daumier, il caricaturista fustigatore di giudici e avvocati. Prima che scattassi la foto, si preoccupò di aprirlo su una pagina dove non comparisse un magistrato: gli scocciava passare per vittimista. La scelta cadde sulla vignetta di un leguleio altezzoso che accompagna all’uscita del palazzo di giustizia una povera vedova piangente, sorretta dal figlioletto vestito come un martinitt. La didascalia in francese suonava pressappoco così: «Avete perso il processo, è vero, ma avete potuto provare il piacere di sentirmi perorare la vostra causa».

Il Craxi di Hammamet sembrava straziato dal pendolarismo fra due sentimenti contrapposti: un’orgogliosa rivendicazione di autonomia da un lato, una nostalgica afflizione dall’altro. I quotidiani italiani freschi di stampa, in bella mostra sul tavolo, avevano lo scopo di confermare la prima e smentire la seconda agli occhi del visitatore. Al pari di certe affermazioni d’un candore disarmante: «Prima che tu arrivassi stavo giusto guardando una corsa di cavalli a San Siro in televisione...». Ma il suo stato d’animo era ben altro e gli proruppe dal petto, insieme con una lacrima liberatoria, qualche istante dopo: «La verità è che l’Italia mi incombe in casa a tutte le ore del giorno e della notte. Vedo Milano in Tv e mi viene il magone. Vorrei andare in piazza del Duomo, vorrei sostare sulla tomba dei miei genitori nel cimitero di Musocco». Rievocò la sua partenza dall’Italia in aereo, maggio 1994, con gli accenti lirici dell’«addio monti» manzoniano: «Guardavo Roma giù sotto, i campi ben pettinati, il profilo del litorale, il mar Tirreno... Sentivo che non li avrei più rivisti».

D’improvviso si ricordò che ero lì per un’intervista. Sul retro di una fotocopia formato A3, che riproduceva un articolo del Tempo di Roma, cominciò a disegnare quella che definì «la mappa». Tracciava le linee con la teatralità di certi chirurghi in sala operatoria quando s’accingono ad affondare il bisturi nelle carni e intanto illustrava la sua teoria: «È come se l’Italia fosse stata divisa in tre zone, regione per regione. La prima è la zona N: sta per ”non”, cioè questi qui non si devono toccare. La seconda è la zona S: sta per ”scomparire”, cioè questi qui devono starsene buoni, non agitarsi, tornare dietro le quinte, soltanto così avranno la certezza di salvarsi. La terza è la zona M: sta per ”massacrare”, cioè questi qui vanno annientati. Devo dirti in che zona stava Craxi?». Proseguì: «Vogliamo applicare la mappa a un partito? Il Pli, per esempio. Nella zona N chi troviamo? Zanone. Non si tocca. Zona S: Altissimo. L’hai più visto, tu, Altissimo? Sparito. Zona M: De Lorenzo. Massacrato». In alto mise l’intestazione: «La mappa». In basso la firma: «B. Craxi». Sottolineata. Aggiunse la data. La conservo ancora, appesa nel mio studio.

Ad Antonio Di Pietro, il pubblico ministero che lo aveva inseguito per anni, riservò cinque parole in tutto: «Di Pietro non guida, è guidato». Per non apparire criptico, soggiunse: «Chi invitavano a parlare ai convegni di Fiuggi presieduti da Giulio Andreotti e organizzati da Giuseppe Ciarrapico? Di Pietro. E a Milano chi erano quelli che preparavano insieme col futuro eroe un’associazione per il rinnovamento dell’Italia? Gli andreottiani».

Pochi giorni prima i giudici tributari della sua città avevano sentenziato che il tesoro di Craxi custodito nei caveau esteri, di cui tanto si favoleggiava, non esisteva, non era mai esistito. Non sembrò affatto sorpreso che la notizia fosse passata sotto silenzio: «A parte Il Giornale, ne ha scritto qualcun altro? Giusto all’Ansa è scappato un flash alle 8 della sera dopo, ma nessuno l’ha ripreso. A proposito di completezza dell’informazione».

Cercai di portare il discorso sui suoi compatrioti. Devoto com’era a Garibaldi, lo troncò con un giudizio sprezzante, che suonava più aspro d’un epitaffio: «Gli italiani! In mille partirono da Quarto. Non ci sarebbe neanche l’Italia se fosse stato per gli italiani». Preferì parlarmi invece del suo destino di prete mancato. «Da bambino avevo le visioni. Mi appariva Gesù. Un’illusione ottica, ma io allora ero convinto che Cristo guardasse proprio me. Accadeva nella sacrestia della chiesa di San Giovanni, in piazza Bernini a Milano, davanti a un dipinto che raffigura il volto della Sindone. Avevo 10 anni, facevo il chierichetto, stavo lì per ore sull’inginocchiatoio a fissarlo. E Gesù a un certo punto apriva le palpebre e mi guardava». Aveva coltivato la vocazione fino all’adolescenza: «Ho studiato al collegio De Amicis di Cantù. Ho girato tutti i seminari della Lombardia. Ma poi, la guerra...».

Passato qualche anno, m’arrivò un’indiretta conferma che quell’antica chiamata aveva lasciato una traccia spirituale profonda: cinque litografie, tirate da Craxi in 50 esemplari, con la preghiera che l’arcangelo Gabriele fece leggere a Maometto nella «notte della Rivelazione», definita dal Corano «più buona di mille mesi». Scritta in arabo, perché ad Hammamet l’artista autodidatta di route El Fawara aveva imparato la lingua locale.

Ho rivisto in questi giorni nel sito Dagospia una foto di Bettino Craxi mentre pedala sulla cyclette nel suo romitaggio tunisino. Ha la medesima tuta color antracite che indossava quando lo incontrai. Ma guarda tu ”sto nababbo che vestiva sempre uguale, non aveva neppure una felpa di ricambio. Solo che quel 28 gennaio la gamba destra dei pantaloni era sollevata fino al ginocchio. Appena entrato in cucina, trovai la moglie Anna accovacciata per terra, intenta a massaggiargli con una pomata la rotula dolorante. Il giorno prima era caduto inciampando nel proprio piede sinistro, infilato dentro una scarpa da ginnastica tagliata in punta per lasciar fuoriuscire l’alluce piagato dal diabete, «un foruncolone», secondo la definizione del pm Di Pietro. E così m’è tornata in mente la telefonata che Craxi mi fece al mio rientro in Italia, dopo che gli avevo spedito via fax l’intervista per il benestare alla pubblicazione, come concordato: «Non c’è una virgola da toccare. Però, ti prego, non scrivere che Anna qui fa l’infermiera, che l’hai vista spalmarmi il Lasonil sul ginocchio». D’accordo. «Grazie. Addio».

Allora non sapevo perché mi salutasse in quel modo. Ma lui sì.

Stefano Lorenzetto