Corriere della Sera, venerdì 16 settembre 2005, 27 gennaio 2013
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Verdi e Napoleone III, la guerra dei “Vespri” (articolo del 16/9/2005)
Corriere della Sera, venerdì 16 settembre 2005
Nel 1855, centocinquant’anni fa, a Parigi furono rappresentati per la prima volta i Vespri siciliani di Giuseppe Verdi: un’opera lirica composta appositamente per il pubblico parigino, su un libretto in francese, e dedicata all’Accademia imperiale di musica e danza, organismo detestato dal maestro fin dal suo primo soggiorno nella capitale francese, nel 1847-48, e da lui soprannominato la «grande boutique». All’epoca, l’Opéra di Parigi era, con la Scala di Milano, il teatro lirico più importante e più prestigioso d’Europa. E un compositore non era riconosciuto sul piano internazionale se non passava per quella sala. Tutti i grandi nomi della lirica italiana, i Cherubini, Rossini, Spontini, Bellini, vi avevano dovuto dimostrare le loro capacità e Verdi non poteva far eccezione alla regola. Così aveva firmato, fin dal febbraio 1852, poco tempo dopo il colpo di Stato di Luigi Napoleone Bonaparte, un contratto in cui si stabiliva che avrebbe composto, su un testo di Eugène Scribe, librettista abituale del teatro, un’opera in quattro o cinque atti il cui tema non era ancora fissato, ma che doveva essere creata prima della fine del 1855.
Appena preso quest’impegno, Verdi, assorbito da altri progetti – come dal Re Lear che non vedrà mai la luce ”, tentò di liberarsene, prima rifiutando la sceneggiatura che Scribe gli aveva inviato, poi minacciando Nestor Roqueplan, direttore della «grande boutique» e personaggio stravagante oltre che temibile uomo d’affari, il quale non aveva nessuna voglia di rinunciare ai vantaggi che rappresentava la creazione a Parigi di un’opera che portava le firme prestigiose di Verdi e di Scribe. Il maestro, in Francia dal ’53, fu quindi costretto ad ubbidire.
Roqueplan aveva auspicato che lo spartito dei Vespri siciliani – alla fine era stato scelto questo tema – fosse pronto al termine dell’estate 1854 e che le repliche potessero cominciare fin da ottobre. Ma ben presto perse ogni illusione. Infatti Verdi non si dava troppo da fare per consegnare il lavoro. Lo sventurato direttore dovette addirittura dare le dimissioni dopo la «scomparsa» della diva, Sofia Crivelli (che in realtà era in fuga sulla Riviera con il suo innamorato). Dalla diserzione della sua principale interprete, Verdi cercò di trarre il pretesto per giustificare il proprio ritiro. Ma il successore di Roqueplan, Louis-François Crosnier, tenne duro e a Verdi toccò rimettersi al lavoro.
Le ragioni invocate dal compositore per chiedere l’annullamento del contratto erano di natura artistica – trovava enfatico e pieno di luoghi comuni il libretto revisionato da Scribe – e politica. Infatti il testo proposto comportava, secondo lui, gravi offese al popolo italiano. Il soggetto, come sappiamo, evocava la sommossa che finì con il massacro delle guarnigioni francesi in Sicilia, sotto il regno di Carlo d’Angiò, fratello di San Luigi. Visto da parte italiana, l’evento poteva provocare una strumentalizzazione patriottica facilmente comprensibile: gli Angiò erano alla testa di un esercito d’occupazione, contro il quale insorgeva la resistenza di un popolo oppresso. Questa tematica della resistenza aveva funzionato piuttosto bene nel 1819, quando era stata creata la tragedia di Casimir Delavigne da cui Scribe aveva tratto il suo libretto. Nell’insurrezione siciliana del 1282, il pubblico parigino aveva voluto vedere soltanto la metafora dell’occupazione della sua capitale da parte delle truppe dei coalizzati nel 1815. Quarant’anni dopo, il contesto era singolarmente cambiato. L’Impero era stato ristabilito. A Napoleone III si attribuivano mire esterne che si riallacciavano a quelle di suo zio. Per una parte dell’opinione pubblica, la Francia era di nuovo investita di una missione «liberatrice», quindi conquistatrice. L’occupato del 1815 ridiventava un occupante virtuale.
Nel libretto di Scribe, i siciliani non erano rappresentati nella luce migliore. Il loro capo era descritto come un cospiratore che maneggiava il pugnale alla maniera di un fiorentino del Rinascimento. Verdi doveva dunque comporre una musica di un testo che si avvaleva di uno dei cliché più diffusi in Francia: quello dell’italiano, armato di spada o di coltello, che colpisce l’avversario alle spalle. «Non sarò mai complice di un’ingiuria nei confronti del mio popolo», scrisse a Crosnier, minacciando di tornare in Italia se il testo del libretto non fosse radicalmente modificato.
La crisi fu evitata solo grazie all’intervento personale di Napoleone III. Nel 1855, Verdi era il più celebre e il più richiesto dei drammaturghi lirici. Secondo l’imperatore, la presenza di Verdi a Parigi durante l’Esposizione universale era un onore per la Francia. Ed era inconcepibile vederlo sbattere la porta della «grande boutique» proprio quando le élite europee della politica e della cultura premevano per non perdersi quella prima apoteosi della «festa imperiale». Tanto più che Verdi, approfittando dei ritardi accumulati nella regia dei Vespri, durante l’inverno era riuscito ad allestire Il trovatore al Teatro degli Italiani. Lo aveva diretto lui stesso e la sala era stracolma.
Fra le ragioni che inducevano l’imperatore a far pressione sulla direzione dell’Opéra, affinché essa si mostrasse conciliante verso il compositore italiano, c’erano anche l’evolversi delle relazioni internazionali e i nuovi rapporti che si stavano instaurando tra la Francia e il Regno di Piemonte e Sardegna. Mentre a Parigi ci si preparava ad allestire i Vespri siciliani, francesi, inglesi e piemontesi combattevano fianco a fianco davanti alle mura di Sebastopoli. Il contesto diplomatico era quindi favorevole. Non c’era da temere che la rappresentazione di quell’opera, che metteva in scena un episodio tragico dei rapporti franco-italiani, provocasse manifestazioni scioviniste.
Il debutto avvenne il 13 giugno 1855. Non fu un trionfo, ma lo spettacolo si svolse in un’atmosfera serena. In un altro contesto, ci sarebbe stato da temere di tutto, poiché fra il pubblico c’erano molti ospiti italiani che avevano fatto il viaggio da Torino, Milano o Firenze per applaudire il loro eroe e per visitare l’Esposizione universale. Il pubblico parigino mostrò poco entusiasmo, ma più per il libretto di Scribe che per la musica di Verdi. L’imperatore, che non era appassionato di lirica, si congratulò perché si era evitato di urtare il patriottismo italiano proprio quando cominciava il riavvicinamento con il Piemonte, preludio dell’alleanza contro l’Austria e degli eventi emancipatori del 1859.
Nel 1855, centocinquant’anni fa, a Parigi furono rappresentati per la prima volta i Vespri siciliani di Giuseppe Verdi: un’opera lirica composta appositamente per il pubblico parigino, su un libretto in francese, e dedicata all’Accademia imperiale di musica e danza, organismo detestato dal maestro fin dal suo primo soggiorno nella capitale francese, nel 1847-48, e da lui soprannominato la «grande boutique». All’epoca, l’Opéra di Parigi era, con la Scala di Milano, il teatro lirico più importante e più prestigioso d’Europa. E un compositore non era riconosciuto sul piano internazionale se non passava per quella sala. Tutti i grandi nomi della lirica italiana, i Cherubini, Rossini, Spontini, Bellini, vi avevano dovuto dimostrare le loro capacità e Verdi non poteva far eccezione alla regola. Così aveva firmato, fin dal febbraio 1852, poco tempo dopo il colpo di Stato di Luigi Napoleone Bonaparte, un contratto in cui si stabiliva che avrebbe composto, su un testo di Eugène Scribe, librettista abituale del teatro, un’opera in quattro o cinque atti il cui tema non era ancora fissato, ma che doveva essere creata prima della fine del 1855.
Appena preso quest’impegno, Verdi, assorbito da altri progetti – come dal Re Lear che non vedrà mai la luce ”, tentò di liberarsene, prima rifiutando la sceneggiatura che Scribe gli aveva inviato, poi minacciando Nestor Roqueplan, direttore della «grande boutique» e personaggio stravagante oltre che temibile uomo d’affari, il quale non aveva nessuna voglia di rinunciare ai vantaggi che rappresentava la creazione a Parigi di un’opera che portava le firme prestigiose di Verdi e di Scribe. Il maestro, in Francia dal ’53, fu quindi costretto ad ubbidire.
Roqueplan aveva auspicato che lo spartito dei Vespri siciliani – alla fine era stato scelto questo tema – fosse pronto al termine dell’estate 1854 e che le repliche potessero cominciare fin da ottobre. Ma ben presto perse ogni illusione. Infatti Verdi non si dava troppo da fare per consegnare il lavoro. Lo sventurato direttore dovette addirittura dare le dimissioni dopo la «scomparsa» della diva, Sofia Crivelli (che in realtà era in fuga sulla Riviera con il suo innamorato). Dalla diserzione della sua principale interprete, Verdi cercò di trarre il pretesto per giustificare il proprio ritiro. Ma il successore di Roqueplan, Louis-François Crosnier, tenne duro e a Verdi toccò rimettersi al lavoro.
Le ragioni invocate dal compositore per chiedere l’annullamento del contratto erano di natura artistica – trovava enfatico e pieno di luoghi comuni il libretto revisionato da Scribe – e politica. Infatti il testo proposto comportava, secondo lui, gravi offese al popolo italiano. Il soggetto, come sappiamo, evocava la sommossa che finì con il massacro delle guarnigioni francesi in Sicilia, sotto il regno di Carlo d’Angiò, fratello di San Luigi. Visto da parte italiana, l’evento poteva provocare una strumentalizzazione patriottica facilmente comprensibile: gli Angiò erano alla testa di un esercito d’occupazione, contro il quale insorgeva la resistenza di un popolo oppresso. Questa tematica della resistenza aveva funzionato piuttosto bene nel 1819, quando era stata creata la tragedia di Casimir Delavigne da cui Scribe aveva tratto il suo libretto. Nell’insurrezione siciliana del 1282, il pubblico parigino aveva voluto vedere soltanto la metafora dell’occupazione della sua capitale da parte delle truppe dei coalizzati nel 1815. Quarant’anni dopo, il contesto era singolarmente cambiato. L’Impero era stato ristabilito. A Napoleone III si attribuivano mire esterne che si riallacciavano a quelle di suo zio. Per una parte dell’opinione pubblica, la Francia era di nuovo investita di una missione «liberatrice», quindi conquistatrice. L’occupato del 1815 ridiventava un occupante virtuale.
Nel libretto di Scribe, i siciliani non erano rappresentati nella luce migliore. Il loro capo era descritto come un cospiratore che maneggiava il pugnale alla maniera di un fiorentino del Rinascimento. Verdi doveva dunque comporre una musica di un testo che si avvaleva di uno dei cliché più diffusi in Francia: quello dell’italiano, armato di spada o di coltello, che colpisce l’avversario alle spalle. «Non sarò mai complice di un’ingiuria nei confronti del mio popolo», scrisse a Crosnier, minacciando di tornare in Italia se il testo del libretto non fosse radicalmente modificato.
La crisi fu evitata solo grazie all’intervento personale di Napoleone III. Nel 1855, Verdi era il più celebre e il più richiesto dei drammaturghi lirici. Secondo l’imperatore, la presenza di Verdi a Parigi durante l’Esposizione universale era un onore per la Francia. Ed era inconcepibile vederlo sbattere la porta della «grande boutique» proprio quando le élite europee della politica e della cultura premevano per non perdersi quella prima apoteosi della «festa imperiale». Tanto più che Verdi, approfittando dei ritardi accumulati nella regia dei Vespri, durante l’inverno era riuscito ad allestire Il trovatore al Teatro degli Italiani. Lo aveva diretto lui stesso e la sala era stracolma.
Fra le ragioni che inducevano l’imperatore a far pressione sulla direzione dell’Opéra, affinché essa si mostrasse conciliante verso il compositore italiano, c’erano anche l’evolversi delle relazioni internazionali e i nuovi rapporti che si stavano instaurando tra la Francia e il Regno di Piemonte e Sardegna. Mentre a Parigi ci si preparava ad allestire i Vespri siciliani, francesi, inglesi e piemontesi combattevano fianco a fianco davanti alle mura di Sebastopoli. Il contesto diplomatico era quindi favorevole. Non c’era da temere che la rappresentazione di quell’opera, che metteva in scena un episodio tragico dei rapporti franco-italiani, provocasse manifestazioni scioviniste.
Il debutto avvenne il 13 giugno 1855. Non fu un trionfo, ma lo spettacolo si svolse in un’atmosfera serena. In un altro contesto, ci sarebbe stato da temere di tutto, poiché fra il pubblico c’erano molti ospiti italiani che avevano fatto il viaggio da Torino, Milano o Firenze per applaudire il loro eroe e per visitare l’Esposizione universale. Il pubblico parigino mostrò poco entusiasmo, ma più per il libretto di Scribe che per la musica di Verdi. L’imperatore, che non era appassionato di lirica, si congratulò perché si era evitato di urtare il patriottismo italiano proprio quando cominciava il riavvicinamento con il Piemonte, preludio dell’alleanza contro l’Austria e degli eventi emancipatori del 1859.
Pierre Milza