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 2012  ottobre 08 Lunedì calendario

Il Barcellona-Real Madrid di ieri sera non è stata solo una partita di calcio. Barcellona sta in Catalogna e la Catalogna chiede sempre più insistentemente l’indipendenza

Il Barcellona-Real Madrid di ieri sera non è stata solo una partita di calcio. Barcellona sta in Catalogna e la Catalogna chiede sempre più insistentemente l’indipendenza. La squadra è esplicitamente schierata col movimento indipendentista, tanto che la seconda maglia è quella a strisce gialle e rosse della Catalogna (la senyera). Il presidente del club, Sandro Rosell, ha dichiarato: «Il giorno che la Catalogna deciderà per l’indipendenza, il Barça sarà al suo fianco». I cori allo stadio si sono politicizzati, ieri sera erano dipinti in giallo e rosso anche i seggiolini del Camp Nou e parecchi tifosi, pare con l’autorizzazione del club e dell’assemblea nazionale catalana, sono arrivati allo stadio con la bandiera Estelada, simbolo della lotta per l’autodeterminazione. Il Real Madrid, in questa gigantesca metafora assegnata a una partita di calcio, rappresenta evidentemente il governo centrale e centralista contro cui si battono i catalani e le altre regioni a forte vocazione indipendentista.

L’hanno autorizzata a parlare di calcio?
No, ma ieri la Spagna è stata attraversata, per la quarta volta in dieci giorni, da una serie impressionante di manifestazioni. Chiamate in piazza dai sindacati più importanti (la Ccoo e l’Ugt) e da altre 150 associazioni della società civile, almeno un milione di persone hanno sfilato in 72 città, mettendo sotto accusa le banche non solo perché responsabili della crisi ma anche perché prime beneficiarie degli sforzi finanziari del governo, il quale non esita – questa è l’accusa – a tagliare e metter tasse, ma poi chiede apre i cordoni della borsa solo per gli istituti di credito. Le rivendicazioni catalane e basche si intrecciano con questa protesta generale, e la rendono piuttosto pericolosa. In Catalogna è stato indetto un referendum sull’autodeterminazione per il 25 novembre. Puramente consultivo, ma politicamente destabilizzante.  

In che consistono questi tagli spagnoli?
Tagli alle spese dei ministeri dell’8,9%, tagli agli stipendi degli statali del 3,9 per cento (erano già stati tagliati del 5% da Zapatero), niente turnover nell’impiego pubblico, dove si potrà assumere qualcuno solo in presenza di dieci uscite. Tutto questo avviene dopo che l’anno scorso le famiglie sono state gravate da una quantità impressionante di tasse. Tagli anche alle deduzioni che favorivano fiscalmente le aziende e si sa già che arriverà una nuova imposta sui redditi da capitale capace di produrre (forse) 90 milioni di entrate. In ogni caso il ministro del Tesoro Cristóbal Montoro ha fatto sapere che se tutte queste misure, compreso un aumento dell’Iva dal 18 al 21 per cento, non produrranno gli effetti finanziari desiderati, si procederà ulteriormente, sul fronte dei tagli e sul fronte delle tasse. In questa ultima finanziaria s’è più tagliata la spesa pubblica (58%) di quanto non si siano imposti nuovi tributi (42%). Ci sono 4,7 milioni di disoccupati, cioè un quarto della popolazione attiva. Con tutto questo, il direttore della Banca centrale spagnola José Maria Linde ha detto in Parlamento che il governo avrà difficoltà a ridurre il deficit al 4,5% del Pil, come vuole la Ue. Come vuole che non ci siano tensioni sociali?  

La Spagna non doveva chiedere dei soldi in prestito?
Per ora ha versato – come noi - quasi tre miliardi al fondo Esm. Che però è fermo, e sa cosa fa di questi soldi fino a che qualcuno non chiederà aiuto? Li investirà in titoli tedeschi, sicché ci troviamo di fronte al paradosso che i paesi deboli stanno finanziando in questo momento i paesi forti. Ma la Spagna chiederà un aiuto, di sicuro: lo stress test ha mostrato che le banche hanno bisogno di altri 50 miliardi, in aggiunta ai 40 già ricevuti. La richiesta ci sarà, per forza, e a quel punto: a) Rajoy potrebbe cadere innescando una crisi politica sulla crisi economico/finanziaria; b) la speculazione quasi certamente comincerà ad attaccare l’Italia.  

L’indipendentismo catalano ha a che vedere con la crisi o è solo un fatto sentimentale?
Enric Juliana, direttore de “La Vanguardia” e catalano, riassume la situazione così: «La Catalogna occupa il 6,3% della superficie della Spagna, ha il 16% della popolazione e guida la ricchezza nazionale con il 19% del Pil (200 miliardi di euro). Produce il 26% dell’attività industriale e si avvicina al 30% delle esportazioni. In compenso è solo quarta nel reddito pro capite, dietro ai Paesi Baschi, La Navarra e Madrid. Con 27.430 euro per abitante, sta nella media italiana (in realtà piuttosto sotto – ndr). La crisi ha alzato il tasso di disoccupazione (21,9%) e l’amministrazione regionale, la Generalitat, è la più indebitata delle autonomie spagnole. Questo perché trasferisce alla Spagna molto più di quanto non riceva (il deficit è di 16 miliardi), non riesce a finanziarsi sui mercati, e lo Stato non le paga tutto quello che dovrebbe».  

Supponiamo che la Catalogna si stacchi dalla Spagna e diventi uno Stato indipendente. Farebbe ancora parte dell’Eurozona? Al suo interno potrebbe circolare l’euro?
Domande formidabili, che si riassumono in questa: l’Unione europea può accettare modifiche alle frontiere interne? Nessuno lo ha previsto e quindi, allo stato dei fatti, è impossibile rispondere.

[Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 8 ottobre 2012]