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 2012  settembre 08 Sabato calendario

Ieri, nel palazzetto di Charlotte, in North Carolina, ha parlato Obama, dando inizio così all’ultimo tratto della corsa che ha come traguardo la Casa Bianca

Ieri, nel palazzetto di Charlotte, in North Carolina, ha parlato Obama, dando inizio così all’ultimo tratto della corsa che ha come traguardo la Casa Bianca. Il presidente uscente s’è fatto introdurre dalla moglie, già mattatrice della prima giornata di lavori e creatrice di un’espressione che ha fatto il giro del mondo, “mom in chief”, cioè “mamma in capo”, allusiva all’epiteto di “commander in chief” che spetta al presidente. Dopo l’abbraccio a Michelle, su un palco tutto azzurro, Obama ha pronunciato la frase di rito: «Accetto la nomination».

 • Discorso entusiasmante? Tipo quelli di quattro anni fa?

Naturalmente i ventimila dell’arena di Charlotte si sono scatenati nelle grida di sostegno, ma il discorso di Obama è apparso più prudente, più responsabile, se vogliamo, di quelli di una volta. «I tempi sono cambiati e anch’io sono cambiato. Non sono più solo il candidato, sono il presidente. Non faccio finta che la strada che vi indico sia veloce o facile. Non l’ho mai fatto. Non mi avete eletto per dirvi quello che volete sentirvi dire, mi avete eletto per dirvi la verità. E la verità è che ci occorre più di qualche anno per risolvere sfide che si sono accumulate per decenni». Intanto i video ricordavano i successi di questa presidenza: la cattura di Osama, il ritiro dall’Iraq, il salvataggio dell’industria automobilistica di Detroit. Si potrebbe mettere, tra i successi, anche la riforma sanitaria, che il presidente ha dovuto però ridimensionare per via degli attacchi repubblicani. Nel discorso di ieri Barack ha ricordato che non esiste politica senza compromessi, ma ha nello stesso tempo mostrato che il voto del 6 novembre sarà tra due opzioni radicalmente diverse, e assai influenti per gli anni a venire: da un lato Romney, che vuole “smontare il governo”, cioè ridurre al minimo gli interventi della mano pubblica e quindi le tasse; dall’altro Obama, deciso a continuare sulla strada intrapresa… Il pubblico intanto gridava: «Four more years! Four more years», cioè «Altri quattro anni!».

Programma?

Sostiene che entro il 2016 verranno creati un milione di nuovi posti di lavoro nell’industria manifatturiera. Raddoppio delle esportazioni in due anni. 600 mila nuovi posti di lavoro nell’estrazione del gas naturale. Dimezzamento entro il 2020 delle importazioni di greggio. Dimezzamento in dieci anni delle rette nei college. Assunzione di centomila insegnanti di scienze e di matematica. Riduzione di 4 mila miliardi, in quattro anni, del deficit. Niente più guerre e i soldi risparmiati in questo modo da destinarsi all’economia «dove tutti devono giocare con le stesse regole, dalla gente qualunque a Wall Street».

• Bello. Ma si può fare?

Lui dice di sì. I sondaggi mostrano che la gente era molto più presa dalla lettura del programma che dal discorso. Sul palco sono salite anche Scarlett Johansson, Eva Longoria e Kerry Washington. Secondo i cronisti erano la risposta alla sedia vuota messa in scena da Clint Eastwood alla convention repubblicana. Una bianca, una latina e una nera: hanno detto tutt’e tre di trovarsi lì in quanto americane. Un buon colpo mediatico.

I sondaggi?

Continuano a dare i due alla pari: 46,4 a 46,4, secondo la media delle varie rilevazioni calcolata dall’Huffington Post. Però mancano ancora due mesi, può succedere tutto.

Perché in Europa siamo convinti che Barack abbia la vittoria in tasca?

Non Giuliano Ferrara (auguri a lui per il suo malore) il quale scommette con tutti che vincerà Romney. Agli altri Obama piace di più, è in fondo più simile a noi. Gli europei non hanno mai avuto simpatia per i cow-boy troppo veloci a sparare. D’altra parte, un qualche fondamento la sensazione europea ce l’ha. I due, in base ai dati attuali, se l’elezione si svolgesse con un sistema – diciamo – proporzionale o che in ogni caso valutasse i consensi a livello nazionale, sarebbero effettivamente in parità. Ma le presidenziali americane si basano su un maggioritario puro: si giocano 50 partite in 50 stati diversi e in ogni stato basta prendere un voto più dell’avversario per pigliare tutti i grandi elettori di quello stato. È già capitato che diventasse presidente degli Stati Uniti il candidato che aveva meno voti a livello nazionale. Guardando la partita in questo modo, risulta che Obama è effettivamente in vantaggio perché il gruppo di stati sicuramente democratici gli assicura già adesso 225 grandi elettori, mentre gli stati sicuramente repubblicani ne valgono, di grandi elettori, solo  191 elettori. La vittoria si conquista a quota 270 (su 538). Decideranno dunque i nove stati in bilico (tossup): Florida, Ohio, North Carolina, Virginia, Wisconsin, Colorado, Iowa, Michigan, Nevada. Sono stati in cui la differenza tra i due candidati è contenuta in tre punti percentuali. Prendendo per buono il lieve vantaggio che i sondaggi danno all’uno o all’altro in questi  nove stati, risulta ancora primo Obama. Gli europei, alla fine, non hanno completamente torto.


[Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 8 settembre 2012]