La Gazzetta dello Sport, 29 luglio 2012
Domani, o al massimo dopodomani, i senatori comincianco a discutere, in aula, il decreto della cosiddetta “spending review”, o revisione della spesa, quello che ha fatto strillare parecchi settori della pubblica amministrazione

Domani, o al massimo dopodomani, i senatori comincianco a discutere, in aula, il decreto della cosiddetta “spending review”, o revisione della spesa, quello che ha fatto strillare parecchi settori della pubblica amministrazione. Naturalmente prima di arrivare il aula il decreto è passato per le commissioni e qui i partiti si sono esercitati al solito tira e molla per salvare questo o quel capitolo oppure questa o quella provincia, perché ricorderà che tra le intenzioni annunciate dal decreto c’è anche quella di dimezzare le province…
• Non ho mai capito questa cosa delle commissioni…
Esiste dai tempi del Parlamento subalpino e come quasi tutti i nostri inghippi istituzionali ci viene dalla Francia. In pratica le commissioni esaminano preventivamente ciascuna legge almeno sotto il profilo della copertura di bilancio e della coerenza al dettato costituzionale. Qui vengono anche ammessi gli emendamenti da portare in aula. In casi che si verificano sempre meno di frequente, un disegno può diventare legge direttamente in commissione, senza andare in aula: basta che i partiti si mettano d’accordo e non ci siano obiezioni da parte di nessuno. Non è il caso della spending review, che è un decreto e deve essere convertito a forza dall’aula entro sessanta giorni.
• In che cosa è consistito questo “tira e molla” di cui parlava all’inizio?
La parte che tutti seguiamo con più simpatia, anche perché è quella che ci sembra di capire meglio, è quella relativa alle province. Parliamoci chiaro, tagliare le province, accorparle secondo fusioni che apriori ci paiono generare degli ircocervi, oppure farle sparire del tutto è una grossa avventura, oltre che storica, anche di costume. I senatori, con un’intesa tra Pd e Pdl, hanno però deciso di passare la patata alle Regioni. Intanto, tutta l’operazone viene chiamata “riordino”, termine che fa meno paura di quell’altro, “soppressione”. Il riordino potrà essere fatto con un po’ più di respiro rispetto alla prima formulazione: il sistema andrà a regime entro 220 giorni, invece che entro 70. Resta l’obbligo che ciascuna provincia abbia almeno 2500 chilometri quadrati d’estensione e 350 mila abitanti. Ma si ammette che i comuni possano chiedere di cambiare provincia, purché per trasferirsi in una provincia contigua. Prevedo facilmente quello che succederà: i governatori delle Regioni medieranno tra un comune e l’altro perché province al limite si salvino con qualche sapiente travaso. Abbiamo già sentito la Polverini esclamare: «Rischiamo di perdere Viterbo per 30 mila abitanti!» oppure «Latina sparirà per 49 chilometri quadrati!». Capito il trucco? Sappiamo di Ascoli che vuol fare shopping in Val Vibrata, Treviso che vuol togliere qualche campanile a Venezia, Macerata pronta a inglobare comuni compiacenti dell’Alto Fermano. Eccetera.
• Ma che cosa gliene importa?
Ci sono poltrone da difendere. In Italia vivono di politica un milione e mezzo di persone. Il ministro Patroni Griffi dice che comunque le province saranno dimezzate. Io dico che invece del 50% con questo sistema se ne taglierà il 40 se non addirittura il 30%. Tenga conto che finora la legge impone almeno due province per regione, quindi Matera e una provincia toscana almeno, oltre Firenze, si salvano.
• Ho letto che si vogliono colpire gli studenti universitari.
Se fuori corso. E se non studenti lavoratori. Una misura piuttosto logica, se ci pensa. I rincari per questi fuori corso saranno in funzione dei redditi dichiarati dalla famiglia. +25% per chi sta sotto i 90 mila euro, +50% per chi sta tra 90 e 150 mila, il doppio per chi sta oltre i 150 mila. I fuori corso sono 600 mila, le due fasce dei ricchi, insieme, valgono l’1,5% di questa popolazione, meno di diecimila giovani.
• Che mi dice della sanità?
Anche qui si fa valere il principio che chi si comporta peggio deve pagare di più. Solo che a comportarsi male sono gli amministratori, mentre a pagare di più saranno i cittadini. In particolare, le regioni in deficit sanitario potranno portare l’addizionale Irpef all’1,1% già dal 2013 invece che dal 2014. Si tratta di Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Sicilia, Calabria, Piemonte e Puglia. È tutto Sud, a parte il Piemonte, e la cosa non la deve meravigliare: Moody’s, nelle valutazioni rese note una settimana fa, ha giudicato il bilancio del Piemonte più a rischio di quello siciliano. In ogni caso, nel mondo della sanità (114 miliardi di spesa annua, il 7,2% del Pil), ci sono anche Regioni che chiudono l’esercizio con un attivo di cassa: l’Emilia Romagna, per esempio (+113 milioni) o la tanto bistrattata, proprio sulla sanità, Lombardia. Altre regioni, le otto che abbiamo detto, chiudono in rosso e tasseranno i loro cittadini. Sa qual è l’assurdo? Che da queste regioni, che spendono più soldi di quelli che hanno, ci si aspetterebbe un servizio migliore di quello offerto dalle altre. Invece se si segue l’indice di soddisfazione dei cittadini si scopre che il segno “meno” accompagna le cifre più alte proprio nelle Regioni che spendono di più. Evidentemente quella montagna di soldi non è destinata al servizio, ma alle clientele o alla corruzione.
[Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 29 luglio 2012]