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 2012  giugno 03 Domenica calendario

Biografia di Adriano Sofri

• Trieste 1 agosto 1942. Giornalista. Scrittore. Insegnante. Politico. In seguito alla confessione del pentito Leonardo Marino, è stato condannato a 22 anni di carcere come mandante dell’omicidio Calabresi (17 maggio 1972). Ha terminato di scontare la pena il 16 gennaio 2012. «Lo avevo messo in conto da giovane, ma non mi aspettavo certo di andare in carcere in tarda età».
Prima Figlio di una triestina e di un militare meridionale. Studi alla Normale di Pisa. Nel marzo 1963, Togliatti a Pisa a raccontare agli studenti il suo rientro in Italia e la svolta di Salerno, disse: «Il generale MacFarlane si meravigliò con me che il Pci non volesse fare la rivoluzione». Sofri dal fondo della sala: «Ci voleva l’ingenuità d’un generale americano per pensare che un partito che si proclamava comunista volesse il comunismo». Togliatti: «Devi ancora crescere. Provaci tu, a fare la rivoluzione». Sofri: «Ci proverò, ci proverò».
• Nella primavera del 1969 partirono i primi scioperi spontanei alla Fiat. Il 9 aprile a Battipaglia la polizia aveva sparato sugli operai che protestavano per la chiusura del tabacchificio: due morti. L’11 aprile i sindacati proclamarono tre ore di sciopero. Il 13 si fermarono le ausiliarie, il 20 seguirono i carrellisti, il 21 i gruisti, il 22 le grandi presse. Il 27 maggio il primo corteo interno percorse la Fiat, i capireparto furono insultati, derisi, costretti a sfilare. I ribelli di mezza Italia si precipitarono a Torino. Tra loro, Sofri.
• A Torino, nell’autunno di quell’anno, nacque Lotta continua. Il primo numero del giornale uscì l’1 novembre, settimanale, direttore responsabile Piergiorgio Bellocchio (poi Pio Baldelli, Pasolini, Adele Cambria, Pannella e soprattutto Giampiero Mughini che lo firmò, senza assumerne la direzione perché non concordava in nulla con quelli di Lc ma voleva che il giornale continuasse a uscire, e subì per questo 26 processi e tre condanne). I costi erano stati coperti dalla vendita di un quadro regalato da Giovanni Pirelli (in uno degli articoli si prometteva, tra l’altro, di “sgonfiare” suo fratello Leopoldo, fabbricante di pneumatici). Avrebbero fatto parte del movimento persone divenute poi illustri: Gad Lerner, Roberto Briglia (capo del servizio d’ordine milanese), Paolo Zaccagnini, Carlo Panella, Enrico Deaglio, Guido Viale, Marco Boato, Mauro Rostagno (poi assassinato), Luigi Manconi, Erri De Luca (capo del servizio d’ordine romano). Sofri ne diventò subito il leader indiscusso.
• «Sofri aveva meno di trent’anni, ma mi sembrava un poco più anziano, come un ragazzo che si truccasse da vecchio. Piccolo, smilzo, lo sguardo febbrile, una carica inesauribile di intelligenza gelida che lo rendeva sideralmente lontano dagli altri capi di Lotta continua. Lo trovavo arrogante, gonfio di disprezzo per chi la pensava diverso, spesso pervaso da un odio politico così assoluto da farmi paura. Al tempo stesso, mi appariva tanto doppio e triplo che il mio giudizio su di lui risultava difficile da mettere a fuoco sino in fondo. E tutto si complicava alla luce di quegli occhi freddi o inespressivi, la spia di pensieri quasi tutti cattivi. Attorno a lui ribolliva il magma di Lotta continua, un piccolo mondo abitato da ragazzi e ragazze spesso del tutto speciali. Dei primi della classe che, per furore politico e spirito di fazione, si erano rinchiusi in un mondo irreale nel quale progettavano costruzioni fantastiche che, alla fine, li avrebbero travolti. Ma tutti erano comprimari che pesavano poco al confronto di Sofri. Lui era il monarca assoluto del reame di Lc. E anche un giudice inappellabile. Me ne resi conto di persona per un microscopico incidente che mi capitò nell’estate del 1971. Lotta continua aveva deciso di riunirsi a convegno in una città rischiosa per l’estremismo di sinistra, la placida, compatta e ostile Bologna. “Vai a vedere e racconta quel che succede” mi ordinò Alberto Ronchey, direttore della Stampa. Obbedii senza entusiasmo. Così, quel sabato 24 luglio entrai presto al Palasport con il mio quaderno e una cartocciata di pesche comprate a un banchetto politico che diffondeva a tutto volume Il cuore è uno zingaro cantato da Nicola Di Bari. Mi vide subito un dirigente che conoscevo, Franco Bolis, di Pavia, da poco coordinatore nazionale di Lc con Giorgio Pietrostefani, allora per niente famoso. Dal palco, Bolis mi chiese: “Hai pagato?”. Gli risposi di no, che non avevo versato la tassa prevista per la stampa borghese, ma in compenso mi ero comprato tanta della loro carta stampata: opuscoli, giornali, manifesti, cartoline. Bolis sembrava incline ad accontentarsi dei miei acquisti, pesche comprese. Ma alle sue spalle comparve un robustone per niente cordiale. Ringhiò: “Quella roba non conta. Paga. Devi pagare. Fatelo pagare. Almeno 50 o 100 mila lire” (un quotidiano, allora, costava 90 lire). “Non credo che pagherò” annunciai, piccato. Cominciò una contesa verbale che si trascinò per un pezzo, sino a quando si affacciò dal palco Sofri. Mi guardò ed emise la sentenza su di me: “Io mi sono già espresso su questo qui”. Non ci fu Cassazione né legittimo sospetto a salvarmi. Sofri aveva deciso e dovevo alzare i tacchi. Così, venni accompagnato alla porta con ruvida cortesia da un giovanotto in camicia verde e rettangolo rosso» (Giampaolo Pansa).
• Il movimento, per finanziarsi, fece ricorso senza esitazione alle rapine (attività in cui si distinse anche Leonardo Marino). Molto presto, al suo interno, si formò una struttura parallela che teorizzava, in contrasto con gli altri (tra cui Sofri), la violenza come pratica politica.
Il delitto Calabresi Il 12 dicembre 1969 sconosciuti piazzarono bombe nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana. Le esplosioni provocarono 16 morti e 88 feriti. Nell’ambito delle indagini, fu convocato in questura anche l’anarchico Pino Pinelli, ferroviere, capo-smistamento dello scalo Garibaldi. Il commissario Luigi Calabresi lo andò a prelevare al circolo di via Scaldasole. Non ci fu bisogno neanche di farlo salire in macchina: la 850 blu della polizia davanti, Pinelli seguì a bordo del suo motorino Benelli fino a via Fatebenefratelli. I due si conoscevano e anche abbastanza bene: a Natale, Calabresi aveva regalato a Pinelli il libro Mille milioni di uomini di Enrico Emanuelli (Mondadori, 1957) e ne aveva ricevuto in cambio l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (Einaudi: la prima edizione italiana dell’antologia è del 1943). Pinelli venne interrogato per tre giorni dai poliziotti Panessa, Caracurta, Mainardi, Mucilli. Non c’erano difensori e l’interrogatorio era evidentemente illegale. La notte del terzo giorno, quella tra il 15 e il 16 dicembre, Pinelli volò dal balcone al quarto piano della questura. È ormai accertato che il commissario Calabresi non si trovava nella stanza. Tuttavia Lotta continua lo indicò subito come l’assassino, dando inizio a una campagna d’odio ossessiva e implacabile, con pubblicazione di foto e indirizzo e un’implicita e troppe volte esplicita istigazione a «far giustizia». Calabresi querelò il giornale – per pressioni, ha raccontato la moglie, soprattutto del ministero – e durante il processo (cominciato il 14 ottobre 1971) almeno mille militanti di Lc vennero in aula a gridare e insultarlo, a lanciargli monetine, a chiamarlo assassino. Il commissario aveva 34 anni, due figli piccoli, era romano, veniva da una famiglia medio-borghese, aveva studiato al San Leone Magno, s’era laureato in Legge con una tesi sulla mafia, aveva molta passione per il cinema e il teatro e persino qualche ambizione letteraria. Secondo quello che ha raccontato la moglie Gemma Capra, era convinto che le bombe di piazza Fontana fossero state messe da manovali di sinistra diretti da un cervello di destra. La mattina del 17 maggio 1972, mentre stava uscendo di casa (Milano, via Cherubini 6) ed era sul punto di prender posto nella sua 500, fu ucciso da un uomo che gli sparò due colpi di pistola da dietro, uno alla nuca e un altro alla schiena. Il commissario morì poco dopo all’ospedale San Carlo. Il giorno dopo il giornale Lotta continua – ormai divenuto quotidiano – fece il titolo “Ucciso il commissario Calabresi, il maggiore responsabile della morte di Pinelli” (e non “Giustizia è fatta” come si dice in genere). Sofri, nel suo editoriale intitolato “La posizione di Lc” scrisse: «L’omicidio politico non è l’arma decisiva per l’emancipazione delle masse» anche se questo «non può indurci a deplorare l’uccisione» del commissario. Questa posizione, che non approvava esplicitamente l’omicidio provocò molte proteste da parte dei lettori.
• Il processo Pinelli si chiuse nel 1975. Il giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio sentenziò che non s’era trattato di suicidio e che non s’era trattato neanche di omicidio. Secondo il magistrato, l’anarchico era caduto dal balcone a causa di un «malore attivo».
I processi Nel 1988, essendo ancora insoluto il caso Calabresi, il venditore di frittelle Leonardo Marino (vedi), ex militante di Lotta continua, entrò in contatto col colonnello dei carabinieri Umberto Bonaventura. Costui andò a Bocca di Magra, dove viveva Marino, e restò con lui segretamente per almeno diciassette giorni (a partire dal 2 luglio). Alla fine Marino cominciò a deporre ufficialmente (19 luglio 1988). Si autodenunciò e indicò in Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani i mandanti dell’omicidio. Sofri gli avrebbe detto di procedere, alla fine di un comizio svoltosi a Pisa il 13 maggio 1972. Pietrostefani sarebbe stato presente e consenziente e avrebbe poi organizzato l’azione. Marino disse di aver accompagnato Ovidio Bompressi in via Cherubini con una 125 blu e che Bompressi aveva materialmente fatto fuoco sul commissario.
• «Fa molto caldo, e le immagini sono a colori, quando il 28 luglio del 1988 arrestano Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi. Sono passati 16 anni dall’omicidio, e 12 dallo scioglimento di Lotta continua, il gruppo di cui Sofri e Pietrostefani erano dirigenti, e Bompressi semplice militante. Era stato di Lotta continua, operaio alla Fiat Mirafiori, officina 54, anche Leonardo Marino, l’uomo che li accusa. Dice di aver guidato l’auto, dice che Bompressi sparò al commissario, e che i due dirigenti furono i mandanti. Quando li arrestano, Sofri è insegnante all’Accademia di Belle arti a Firenze e scrittore, Pietrostefani manager delle Officine Reggiane, Bompressi libraio a Massa, la sua città. Marino vende crêpes e bibite col suo furgone, a Bocca di Magra. Il 27 novembre 1989 comincia a Milano il processo di primo grado, che durerà cinque mesi. Nell’aula, tutti i giorni per quei mesi, si incroceranno gli imputati e le vittime, i figli di Sofri e quelli di Calabresi. Il presidente è Manlio Minale, l’attuale procuratore della Repubblica. Sofri si impegna in una autodifesa non politica, tutta sui fatti, e con lui anche Pietrostefani e Bompressi. Il racconto di Marino contraddice quello dei testimoni oculari (avevano visto una donna al volante, e una meccanica diversa del fatto), ed è infarcito di sbagli: sul colore dell’auto, sull’itinerario di fuga. Nel corso degli interrogatori, condotti con mano ferma da Minale, viene fuori che Marino ha mentito su come e quando entrò in contatto coi carabinieri. Anche le accuse di Marino ai tre ex compagni sono traballanti. Dice che Pietrostefani era presente a Pisa quando gli venne confermata la decisione di uccidere Calabresi, ma poi ritratta quando risulta senza dubbio che Pietrostefani era altrove. Non ricorda che il colloquio con Sofri, dopo un comizio, avvenne dopo un acquazzone. Nel corso degli anni Marino ha fatto anche il rapinatore, si è iscritto al Pci, ha raccontato dell’omicidio Calabresi a un ex senatore del partito e al parroco. Anche sua moglie Antonia Bistolfi, cartomante, parlando con un avvocato ha accennato a oscure minacce e fatti lontani. Ognuno, dicono, all’insaputa dell’altro. Quando la posizione di Marino come accusatore sembra essere pregiudicata, il processo prende tutt’altra piega. I testimoni oculari e quelli della difesa vengono liquidati piuttosto sbrigativamente, e il 2 maggio 1990 arriva la sentenza: 22 anni di condanna per Sofri, Bompressi e Pietrostefani, 11 anni a Marino. Sofri, come aveva annunciato, non impugna la sentenza. Ma il 15 maggio 1991 comincia il processo d’Appello, e anche lui è giudicato con gli altri. Si fanno nuove perizie balistiche. Molte prove sono state distrutte, compresa la Fiat 125 usata dagli assassini (la polizia si giustificò per il fatto che aveva distrutto l’auto spiegando che non aveva pagato il bollo - ndr). Nel luglio, le condanne sono confermate. Un anno dopo, Sofri fa uno sciopero della fame, perché il giudizio in Cassazione è stato spostato dalla prima sezione, quella di Corrado Carnevale considerato un “ammazzasentenze”, alla sesta. Il presidente della Cassazione lo affida alle sezioni unite, come avviene assai raramente per i processi più delicati. Il 23 ottobre del 1992 le sezioni unite annullano la sentenza d’Appello, spiegando che la chiamata in correità di Marino non ha sufficienti riscontri. Un nuovo processo d’Appello si fa ancora a Milano, e il 21 dicembre tutti gli imputati sono assolti. Anche Marino, che non viene creduto nemmeno nella sua autoaccusa. Le motivazioni della sentenza, depositate nel maggio 1994, sono sorprendenti. È quella che molti tecnici chiamano “sentenza suicida”: centinaia di pagine sostengono la credibilità di Marino, e poi assolvono. Sembra costruita per essere demolita in Cassazione, e così avviene, proprio per le motivazioni incongruenti. Alla fine del 1995, molto rapidamente e senza più grande attenzione da parte dell’opinione pubblica, un altro processo d’Appello condanna gli imputati. Nel gennaio 1997 la Cassazione conferma. Sofri viene arrestato e rinchiuso nel carcere di Pisa. Bompressi si costituisce. Pietrostefani si consegna pochi giorni dopo, tornando da Parigi. Nell’agosto del 1999 la Corte d’Appello di Venezia accoglie la richiesta di revisione del processo. Ma pochi mesi dopo il processo di revisione si conclude con una nuova conferma delle condanne, ribadita il 5 ottobre del 2000 dalla Cassazione. È l’ultimo atto di una vicenda giudiziaria lunga 12 anni, e ne sono passati 28 dalla morte di Luigi Calabresi. La memoria s’è ormai persa per strada. Salvo che per gli imputati e per le vittime. Sofri e Bompressi malconci in salute, Pietrostefani latitante, riparato a Parigi» (Fabrizio Ravelli).
• Il presidente Ciampi sembrò incline a concedergli la grazia con atto unilaterale (Sofri non l’ha mai chiesta), ma il ministro della Giustizia Castelli glielo impedì facendo sapere che non l’avrebbe controfirmata. Ciampi mise il conflitto istituzionale nelle mani della Corte Costituzionale, che gli diede ragione (non spetta al guardasigilli impedire la prosecuzione del procedimento). La sentenza però fu emessa tre giorni dopo che il capo dello Stato aveva lasciato il Quirinale. Anche il presidente Napolitano è sembrato incline alla grazia.
• Dopo la sospensione della pena ottenuta per motivi di salute (in pericolo di vita per la rottura dell’esofago avvenuta nella notte tra il 25 e il 26 novembre 2005, era stato per molte settimane in prognosi riservata) dal luglio 2007 al 2012 è stato in detenzione domiciliare per malattia nella sua casa di Impruneta (Firenze). Dopo un’iniziale autorizzazione a uscire dalla sua abitazione per quattro ore al giorno, gli fu concesso un permesso speciale dalle 8 alle 20 per assistere la compagna, colpita da un tumore al pancreas e ricoverata a Pisa (Randi Krokaa, norvegese, deceduta poi a 63 anni, il 25 agosto 2007).
• Nel 2009 ha pubblicato per Sellerio La notte che Pinelli in cui offre la sua ricostruzione, basata sulle carte giudiziarie, sulla morte dell’anarchico coinvolto nelle indagini sulla strage di Piazza Fontana e anche le sue considerazioni sul proprio ruolo nell’omicidio di Luigi Calabresi. Continuando a proclamarsi innocente dal punto di vista materiale, Sofri ammette una responsabilità «morale»: «Di nessun atto terroristico degli anni Settanta mi sento corresponsabile. Dell’omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e si scrivesse, “Calabresi sarai suicidato”».
Dal carcere «Non farò bilanci di un anno in carcere. Un anno in carcere non vale niente. Non ho mai apprezzato tanto come ora un antico pensiero di mia madre: gli anni volano, ci sono certi pomeriggi che non passano mai. Quest’anno è volato. Non so se ce la farò a superare il prossimo pomeriggio» (Sofri dopo il primo anno di carcere).
• «La misura della condanna che mi sono guadagnato, 22 anni, ridotti da appositi computisti a 19 anni, 9 mesi e 19 giorni, è per me priva di qualunque senso reale. È una cifra a mezzo fra certi numeri astronomici inconcepibili e una battuta di Totò».
• «La vera forza politica di Lotta continua fu nel costituirsi come palestra di mimetismo. L’idea di allora, del 1968 e del 1969, era di uscire dai propri panni, l’idea di una grande rappresentazione teatrale, una grande incarnazione di altre parti, che gli studenti non fossero più studenti, che i figli di papà, che gli operai non fossero più operai, e che le figlie di papà si potessero sposare con gli operai. Come diceva quel brutto inno che si cantava: “Siamo operai, pastori sardi, immigrati turchi...”. Questo straordinario mimetismo sociale è diventato strada facendo il peggior vizio, la perdita dell’identità, una specie di mestieraccio che ti faceva mandare uno ad Augusta e fare il lavoro di operaio, e dopo due ore già si comportava come un operaio di Augusta e spiegava a un operaio di Augusta come si doveva fare l’operaio ad Augusta. La cosa che a un certo punto determinò la vera crisi di tutto il movimento era la tristezza delle persone, il senso di un fardello, di un peso addosso, l’idea che tutto questo avesse in qualche modo istigato la strage di piazza Fontana, l’idea che tutte queste lotte si svolgessero all’interno di un clima di cattiveria».
• «Noi di Lotta Continua davamo pochissimo credito alle opinioni politiche di chiunque».
• «C’è solo una cosa peggiore delle celebrazioni del Sessantotto, che detesto da tempo, ed è la denigrazione di quel periodo».
Critica «Siamo un paese strano. E abbiamo una Giustizia normale per un Paese strano. Sofri, dopo decenni di percorsi giudiziari, si vede confermata una condanna che si fonderebbe non su una prova certa, ma su una probabilità certa. Solo che la probabilità certa in italiano non esiste. Ma in Italia sì» (Giuseppe Pontiggia).
• «Lo paragono a figure come Sciascia e Pasolini per il valore di testimonianza civile e culturale assolutamente straordinaria. Ma soprattutto, da lui, che io personalmente considero innocente ma che è stato certamente condannato in via definitiva, c’è stata un’accettazione che definirei socratica nei confronti della giustizia: pur respingendo le accuse, ha bevuto la sua cicuta perché ha sempre creduto nell’istituzione che lo ha condannato» (Marco Boato).
• «Quella è gente che si considera al di sopra di tutto, di qualunque giudizio. Perché sono grandi intellettuali, perché frequentavano Moravia, perché facevano, e fanno parte di un circolo sostanzialmente elitario. Non è che loro non accettano la condanna, loro non accettano neanche di essere giudicati. Il solo fatto che qualcuno abbia la presunzione di esercitare un giudizio sulla loro storia, sulle loro vicende personali e umane per loro è intollerabile. A parte che ho sentito dire da persone insospettabili che Sofri non c’entra perché è intelligente. Siamo a Lombroso. Una discriminazione che più classista non si potrebbe» (Enrico Galmozzi, fondatore di Prima linea, a Massimo Fini).
• «In fatto di schizofrenia, l’Italia quanto al delitto Calabresi tocca la sua vetta. Da una parte c’è l’Italia che s’è divorata a centinaia di migliaia di copie il libro di Mario Calabresi, il figlio del commissario assassinato e uno dei candidati alla direzione di Repubblica. Dall’altra c’è l’Italia di chi giudica Adriano Sofri, senza dubbio uno dei talenti della mia generazione, un maestro di pensiero e di morale e una vittima innocentissima. Ebbene, tutte e due le cose non possono andare d’accordo così facilmente. A me personalmente quel contrasto sembra insopportabile» (Giampiero Mughini).
Giornalista e scrittore Prima del carcere scrisse importanti reportage per l’Unità e L’espresso: testimone attento, ma raramente distaccato, si appassionò in particolare a due cause, quella della Cecenia attaccata da Mosca e quella di Sarajevo. «Auspicai e chiesi e implorai per anni un intervento internazionale in soccorso della Bosnia, di Sarajevo e di Srebrenica e di Gorazde, un intervento votato e garantito cento volte da parte delle Nazioni Unite, e finalmente, ma così tardi, compiuto dalla Nato». Tra i suoi libri, L’ombra di Moro (1991), Il nodo e il chiodo (1995), Lo specchio di Sarajevo (1997), tutti per Sellerio.
• Anche negli anni del carcere Sofri ha scritto molto: una breve, ma assai intensa, rubrica quotidiana sul Foglio (“Piccola posta”), una collaborazione regolare con Repubblica, l’ultima pagina di Panorama (quest’ultima interrotta quando Maurizio Belpietro è diventato direttore del settimanale), rivelandosi un maestro di stile, di pietà e di passione civile, che si dice innocente del crimine che lo tiene in cella, ma che non respinge la responsabilità di aver detto, in quegli anni, quello che ha detto e di aver fatto quello che ha fatto. Scritti in questo periodo Altri hotel (Mondadori 2002), Le parole del carcere (Casini, 2004).
Invitato nel febbraio 2007 da Piero Fassino a un incontro congressuale dei Ds (e poi in aprile al congresso), la sua presenza sul palco irritò Olga D’Antona, vedova del giuslavorista ucciso dalle Br. L’ex magistrato Gerardo D’Ambrosio e Marco Travaglio (con il quale ebbe un duro scontro a proposito dell’indulto) le diedero ragione.
• Nel maggio 2007 svelò in due lunghi articoli sul Foglio che nel ‘74 era stato avvicinato dall’allora responsabile dell’ufficio Affari riservati del Viminale, Federico Umberto D’Amato, il quale gli propose una «mutua collaborazione e la sicurezza dell’impunità» per l’eliminazione, «nell’interesse comune», dei Nap, i Nuclei armati proletari in cui erano confluiti anche elementi di Lotta continua. Aggiunse di aver rifiutato il patto criminale.
• Ha pubblicato per Sellerio Chi è il mio prossimo (2007) e Contro Giuliano (2008), pamphlet uscito alla vigilia delle elezioni in polemica con la lista “Aborto? No grazie” dell’amico Giuliano Ferrara, dove sottolinea ancora una volta e argomenta la sua posizione sul tema: parto e aborto coinvolgono il corpo delle donne, solo il loro. Nel gennaio 2008 ottenne tra le polemiche il permesso del magistrato di sorveglianza per partecipare alla trasmissione televisiva Che tempo che fa, dove andò a presentare Chi è il mio prossimo: un’iniziativa «inopportuna» e «sciagurata» per parte del centrodestra.
• Da ultimo, nel 2014 sempre per Sellerio, ha pubblicato Reagì Maro Rostagno sorridendo.
La famiglia Già sposato con Alessandra Peretti, dal 1972 ha poi avuto per compagna, fino alla scomparsa, la norvegese Randi Krokaa. Due figli, Luca (vedi) e Nicola.