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 2012  maggio 31 Giovedì calendario

Biografia di Igor Man

• (Igor Manlio Manzella) Catania 9 ottobre 1922 – Roma 16 dicembre 2009. Giornalista. Dal 1963 alla Stampa, è stato un autorevole commentatore del mondo islamico. Tra i suoi libri: Diario arabo (Bompiani, 1991), Il professore e le melanzane (Rizzoli, 1996), L’ islàm dalla A alla Z (Garzanti, 2001), Igor d’Arabia, (Aragno, 2012).
• «Puoi trovare le notizie più grandi, ma se non le esprimi bene, con la parola giusta, le hai sprecate».
• Figlio di uno scrittore siciliano e di una nobile russa, cominciò al Tempo. «Facevo parte degli uditori del cenacolo di Pannunzio. C’erano Giovanni Russo, Alberto Ronchey, Alberto Arbasino, Giovanni Spadolini. Ci si trovava al caffè Rosati o al caffè Aragno e stavamo, noi giovani, ad ascoltarli discutere. Io lavoravo al Tempo e talora ci chiamavano e ci facevano l’esame, discutevano di ciò che avevamo scritto. Stavamo a sentire grati, con l’umiltà che i giovani di oggi nemmeno conoscono» (a Marco Neirotti).
• «Dallas, novembre 1963. Il gran cattivo, Giulio De Benedetti, “ma rispettò sempre la mia fatica: aumenti di stipendio, telegrammi di congratulazioni, e mai un cicchetto”, l’ha appena chiamato a La Stampa. Il primo abboccamento, quattro anni prima, era cominciato male (“d’istinto, entrato nel suo ufficio, mi ero seduto, mentre il fido Frittitta tentava di avvertirmi che davanti a De Benedetti si restava in piedi”) e finito peggio: “Mi offrì il posto di corrispondente da Washington. Risposi che volevo girare, non chiudermi in una Montecatini più grande. Non gradì”. Ma quella volta, dopo l’assassinio di Kennedy, la telefonata arriva quando Man sta partendo con la moglie per una vacanza in Tunisia: “Prenda il primo aereo per il Texas”. Laggiù, l’amara sorpresa che del presidente ucciso “non importava a nessuno, e i pochi dispiaciuti venivano insultati o percossi”. Poi, due mesi di discesa agli inferi del Profondo Sud americano. Il lato oscuro di quell’America per altri versi tanto amata, Igor lo ritrova in Vietnam, sugli spalti di Camp Kannack, dove conta 240 corpi di ragazzini mandati avanti dai vietcong carichi di bombe per aprire varchi agli assedianti. “Ma fu a casa del farmacista di Saigon, una sera del ’65, che capii come sarebbe finita la guerra. Le ciotole di riso avanzato venivano messe sul davanzale della finestra. ‘Verrà la ronda dei vietcong a ritirarle’, spiegò il farmacista. ‘Tutti passano il riso ai ribelli, anche chi lavora per gli americani?’, chiesi. Sì, lo passavano tutti. Così io scrissi: come potevano vincere i marines?”» (ad Aldo Cazzullo).
• «E poi in Cile, a Cuba, a Panama e in Costarica: per molti anni non c’era guerra o guerriglia, crisi grande o piccola nel mondo che non lo vedesse in prima linea. Allora le missioni duravano mesi, l’informazione tv quasi non esisteva, gli articoli si mandavano col telegrafo o dettandoli a un dimafonista, e cominciavano con il fatidico distico “dal nostro inviato speciale”. In quell’aggettivo c’era un che di avventura, di sogno, di coraggio, che faceva desiderare anche all’ultimo dei cronisti di essere, di diventare chissà, un giorno, come il leggendario Igor Man. A un certo punto della sua lunga carriera, Man aveva preso una sorta di seconda cittadinanza in Medio Oriente e nel mondo arabo nostro dirimpettaio e non ancora soffocato dal fondamentalismo. Andava e veniva, tornava e ripartiva, allungava orgoglioso il lungo medagliere di foto con i suoi intervistati. (…) Con molti anni di anticipo sul 2001 dell’attentato alle Torri Gemelle di New York, che doveva cambiare per sempre la convivenza mondiale, Man aveva capito quel che dalla sponda orientale a noi più vicina la polveriera islamica stava incubando, dentro e attorno a un Occidente del tutto impreparato a contenerla. Per questo Igor, che aveva visto nascere il khomeinismo in Iran, era desolato quando gli americani avevano dovuto abbandonare la Somalia infestata dai fondamentalisti. Ed era disperato di fronte alla prima guerra del Golfo, quella del ’91 in cui l’Italia si commosse per le gesta eroiche del maggiore Bellini e del capitano Cocciolone. Ma non immaginava neppure cosa sarebbe accaduto dieci anni dopo, e coltivava l’illusione di una crisi reversibile, e non di una rottura ideologico-religiosa che avrebbe segnato il secolo successivo dal suo inizio» (Marcello Sorgi) [dalla prefazione a Igor d’Arabia, Aragno, 2012].
• «Alla conoscenza di popoli e culture del mondo musulmano, Igor Man aggiunge una profonda conoscenza dell’islàm, della sua storia, delle sue parole. (…) E questo perché Igor Man ha capito meglio di tutti che il linguaggio cranico, in ciò che ha in comune con quello delle altre due grandi fedi monoteistiche, è un linguaggio performativo, come lo definiscono gli studiosi di linguistica, vale a dire un linguaggio che afferma un dire e implica un fare. Problema non di poco conto, perché ci pone dinanzi alla nostra libertà di interpretazione, all’inteliggibilità che si deve instaurare tra testo e verità. E occorre qui interrogarsi su di una questione di fondo. Le parole e il linguaggio che una cultura si dà sono irrimediabilmente condannate ad essere prigioniere della storia, oppure il linguaggio nella sua dialettica fra significato e significante è solo un momento dell’approccio alla o alle verità?» (Khaled Fouad Allam) [postfazione a Igor Man, L’islàm dalla A alla Z, Garzanti 2001, pp.115-116].
• «Era molto religioso, e diceva che ogni mattina la prima lettura era quella dell’Avvenire. Quando qualche collega, in una di quelle tavolate da eccitata autopsicanalisi collettiva dopo aver inviato il pezzo al giornale, si vantava nel raccontare i dettagli di scappatelle amorose, Igor lasciava la compagnia: “Non mi interessa. Io sono fedele a mia moglie”»(Antonio Ferrari) [Cds 19/12/2009].
• «Era fiero d’essere rimasto un cronista. Quando il direttore di Stampa Sera, il quotidiano del pomeriggio che nel passato, al lunedì, assumeva il ruolo del giornale-pilota torinese, gli chiese di firmare il primo editoriale, sprizzava una gioia quasi infantile» (Antonio Ferrari, cit.).