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 2012  maggio 30 Mercoledì calendario

Biografia di Gianfranco Fini

• Bologna 3 gennaio 1952. Politico. È stato presidente della Camera (2008-2013). «Oggi in questo Paese non c’è più un partito di destra, di una destra repubblicana, europeista, aperta sulle questioni dei diritti civili e dell’immigrazione. (…) Destra non significa fare la campagna per uscire dall’euro ma battersi per una politica monetaria comune, destra significa etica della responsabilità e cultura della legalità, niente di più lontano dalle leggi ad personam e dal berlusconismo» [Rep 21/1/2014].
Ultime Segretario di Alleanza nazionale fino all’elezione alla presidenza della Camera (30 aprile 2008). Ha poi lasciato la reggenza del partito a Ignazio La Russa (11 maggio 2008). Dal 13 febbraio 2011 all’8 maggio 2013 presidente di Futuro e libertà. Deputato dal 1983 al 2013, alle elezioni politiche del 2013 non è stato rieletto.
• Sforzo costante di portare An verso il centro, anche attraverso il tentativo di essere ammesso nel Ppe, il Partito popolare europeo di cui faceva parte la Dc e al quale aderì poi Forza Italia. Il dissenso di Francesco Storace, fautore della necessità di una destra-destra, reso esplicito fin dal luglio 2006, quando l’esecutivo votò un documento detto Fiuggi 2, portò poi alla scissione e alla nascita di una nuova formazione, detta La Destra (3 luglio 2007, vedi Francesco Storace e Daniela Santanchè).
• Ha continuato lo smarcamento da Berlusconi – di cui ogni tanto viene considerato il delfino – prima cercando di allontanare, durante tutto il periodo del governo Prodi, l’eventualità delle elezioni, per le quali non c’era un’alternativa credibile al Cavaliere. Poi violentemente contestando la nascita del partito del Popolo della libertà (vedi Silvio Berlusconi), per contrastare il quale arrivò a minacciare, con Casini, un appoggio a Prodi e al varo della legge Gentiloni. Dopo la caduta del Prodi II, s’affrettò però ad obbedire al diktat del Cavaliere e accettò di far confluire i propri candidati nella lista del Popolo della libertà (Pdl), ammettendo anche l’eventualità di uno scioglimento futuro di An nella nuova formazione (nel dicembre 2007 aveva definito la pretesa di Berlusconi di creare una sola lista di centro-destra «una comica finale»), che avverrà nel 2009.
• Contrarissimo alla decisione di Berlusconi (praticamente imposta da Gianni Letta) di mettere in lista Ciarrapico.
• Maggioritarista convinto. Ha appoggiato, con An, il referendum elettorale promosso da Giovanni Guzzetta (vedi) e Mario Segni.
• Equilibrato discorso d’insediamento alla presidenza della Camera: «Superato lo scoglio delle maggioranze qualificate previste per i primi tre turni, la Camera ha eletto a suo presidente Gianfranco Fini, 56 anni, capo di Alleanza Nazionale. Tra applausi bipartisan (i democratici hanno votato scheda bianca), Fini ha riconosciuto come date unificanti sia il 25 aprile che il 1° maggio, e poi, anche qui, pari diritti garantiti a tutti, stagione costituente, “non siamo una casta” (vedi Gian Antonio Stella – ndr), “promuovere il merito”, “valorizzare il lavoro”, “la sicurezza”, “l’autorevolezza dello Stato” e via discorrendo» (Dell’Arti).
• È intervenuto («voglio mettere i puntini sulle i») nella polemica sul fascismo e la Repubblica di Salò del settembre 2008 (vedi Gianni Alemanno e Ignazio La Russa), sostenendo davanti ai giovani di An che «ogni democratico è antifascista» e che «la destra politica italiana deve dire alto e forte che si riconosce in alcuni valori, in particolare i valori della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia sociale. Sono tre valori tipici di ogni democrazia, ben chiari nella nostra Costituzione. Valori che a pieno titolo possono essere definiti valori antifascisti». Una parte dei giovani aennini dissentì apertamente da questa posizione.
• Nel maggio 2009 la confluenza di An nel Pdl. Tuttavia, il problema di ritagliarsi uno spazio e far sentire la propria voce si evidenzia fin da subito.
• Molta la polemica con la linea politica di Silvio Berlusconi. Il 22 aprile del 2010 tiene un discorso in cui ribadisce la critica, rivendicando il proprio diritto al dissenso. Berlusconi risponde duramente e lo invita a dimettersi dalla carica di presidente della Camera. Fini: «Che fai, mi cacci?». Espresso il voto di sfiducia dalla maggioranza dei componenti dell’ufficio di presidenza del Pdl, esce dal partito e fonda Futuro e libertà. Inizia così una violenta campagna mediatica a suo sfavore messa in campo da Berlusconi. L’accusa è quella di aver permesso che un immobile di Montecarlo, lasciato in eredità dalla contessa Anna Maria Colleoni ad An, fosse ceduta a Giancarlo Tulliani, fratello di Elisabetta, sua attuale compagna. Sul caso viene aperta un’inchiesta sollecitata da una denuncia di due esponenti della destra di Francesco Storace. Fini: «Se dovesse emergere che l’appartamento di Montecarlo appartiene a Tulliani lascerò la presidenza della Camera». Il 26 ottobre 2010 la procura di Roma non rileva alcun profilo penale nella vicenda, e chiede l’archiviazione delle indagini su Gianfranco Fini. Il 27 gennaio 2011, l’ex ministro degli Esteri Franco Frattini, tirerà fuori documenti attestanti che Tulliani sarebbe a capo della società proprietaria della casa di Montecarlo. La procura archivia nuovamente il caso.
• In visita istituzionale nel 2012 da Barack Obama, è il primo presidente della Camera ad essere ricevuto da un capo di stato Usa.
Vita Figlio di Argenio (detto Sergio), benzinaio, volontario nella X Mas poi socialdemocratico, ed Erminia (detta Danila) Marani (morta ottantunenne nel febbraio 2008). «Sono cresciuto con due nonni diversissimi. Il padre di mia madre era ferrarese, fascista, amico di Balbo, e morì nel 1963. Il padre di mio padre è morto nel 1970, era un comunista convinto e militante. Direi che mio padre invece era un uomo di centro».
• «Andai per la prima volta in una sezione della Giovane Italia nel 68 per colpa di un film di John Wayne. Il film s’intitolava Berretti Verdi e sosteneva l’intervento americano nella guerra del Vietnam. L’estrema sinistra se la prese terribilmente con quel film e a Bologna organizzò dei picchetti di militanti per impedire l’accesso alle sale cinematografiche. Questo mi parve intollerabile. Io entrai sfidando il picchetto».
• «La prassi quotidiana è fatta di botte e catene, e chi non l’accetta insospettisce, ancor più se impaginato in giacca e cravatta come lui. “Me lo ricordo benissimo, il Gianfranco di allora”, dice donna Assunta Stramandinoli, vedova Almirante: “Era così diverso dagli altri, così educato, mai distratto dalle ragazze. Per questo piacque a mio marito: lo vedeva lontano dallo stereotipo fascista. E soprattutto gli piaceva che abitasse a Roma, dove c’erano il partito e il potere”. Fu così che nel 1977, quando dovette scegliere il nuovo segretario del Fronte, Almirante lo preferì al più brillante ma fiorentino Marco Tarchi. Un’elezione anomala, a dir poco. L’assemblea nazionale dei giovani aveva scelto come capo proprio Tarchi, con 49 voti su un totale di 99, e Fini si era piazzato quinto. Ma il risultato non piacque al numero uno del partito, il quale buttò a mare la volontà dei ragazzi e proclamò campione il suo pupillo. “Una decisione”, ricorda un testimone, “presa male dalla base. Quando Fini andò in visita alla federazione di Foggia, i camerati chiusero la porta e lo menarono. Come d’altronde fece un militante, chiamato il Pariolino, che gli diede la sua parte durante una manifestazione. Da allora ha iniziato a girare la battuta che in quegli anni Fini le ha prese, è vero, ma solo dai suoi”» (Riccardo Bocca). «Oramai sulle scogliere di Sorrento era spuntata l’alba, ma dentro l’albergone “vista mare” i neon erano restati accesi tutta la notte. I camerati palpitavano: quel testa a testa, in corso da 13 ore, tra “il giovanotto” e il vecchio Pino non si capiva proprio come sarebbe finito. La presidenza del congresso missino scandiva l’intermittenza “Fini, Rauti, Fini, Fini, Rauti, Rauti, Fini...” e attorno i tifosi urlavano “Olè!”. Alle 8,45 del 13 dicembre 1987 la conta finisce, il trentacinquenne Gianfranco Fini è proclamato segretario del Movimento sociale italiano. Il vecchio Giorgio Almirante, oramai malato – morirà cinque mesi più tardi – ma ancora in grado di incantare, si avvicina al delfino: “Sì, Fini è il successore che volevo, ho la fortuna di trasmettere in mani giovani e sicure il patrimonio che ho tentato di custodire in questi anni”. Fini, che ad Almirante dà del lei, contraccambia con un sorriso. Era durato 21 anni il comando di Giorgio Almirante e quel giorno a Sorrento nessuno avrebbe potuto immaginare che quel ragazzo bolognese alto e magro avrebbe tenuto in mano il partito per un periodo altrettanto lungo. Certo, il “ventennio” finiano è fatto di una storia democratica profondamente diversa da quella degli altri capi della destra italiana, ma è pur vero che un destino comune unisce queste leadership: il comando si prende da giovani (Giorgio Almirante diventò segretario dell’Msi a 33 anni, Benito Mussolini ne aveva 39 quando fu nominato capo del governo) e il potere, una volta conquistato, dura assai. Leadership carismatiche che finiscono per lasciare il segno e anche i venti anni di Fini (seppure con la cesura di un anno e mezzo della segreteria di Pino Rauti) hanno profondamente cambiato la destra italiana. Certo, chi non lo ama ha sempre rimproverato a Fini una partenza da “raccomandato”, sospinto da Almirante e dalla moglie, la vulcanica Donna Assunta Stramandinoli che il marito aveva affettuosamente ribattezzato “zio Adolfo”. Ma la storia è un po’ più complessa. Prima ancora che Almirante posasse la sua simpatia su Fini, era stato Pinuccio Tatarella, assieme a due grandi amici di Gianfranco (Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa) a preparare il forte cambio generazionale. In questo d’accordo con Almirante. Come ricorda donna Assunta: “L’accusa a mio marito di essere fascista era ridicola. Ma voleva Fini segretario, perché a lui non potessero rivolgerla”. Certo, erano anni nei quali nell’Msi si viveva di nostalgia e lo stesso Fini, nel discorso di investitura, sostenne che il fascismo era andato al potere non grazie alle alleanze, ma perché seppe interpretare un Paese che non si riconosceva nell’Italietta dei suoi governanti. Ma la scommessa sul cambio generazionale dà presto i suoi frutti: nel 1993 il missino Fini si decide a sfidare Francesco Rutelli per la conquista del Campidoglio, un anno dopo consuma lo strappo col fascismo nello storico congresso di Fiuggi. Due decisioni alle quali il leader arriva “accompagnato” da intuizioni altrui, anche se poi è lui a prendersi la responsabilità delle decisioni. Dopo gli articoli di uno studioso non missino come Domenico Fisichella sul Tempo in cui si vagheggiava un’“alleanza nazionale”; dopo i primi smottamenti di Tangentopoli; dopo il referendum elettorale (osteggiato dall’Msi) che cancellava il sistema proporzionale, nel luglio del 1993 in casa di Andrea Ronchi, allora mezzobusto in una tv locale romana, Fini apre le sue “consultazioni”. Racconta Francesco D’Onofrio, allora nella Dc: “Ricordo che in quelle chiacchierate serali, Fini pur di fare uscire il suo partito fuori dall’orbita della nostalgia, era pronto a non presentare un candidato dell’Msi se si fosse presentato Francesco Cossiga nella corsa per il Campidoglio. Ma alla fine per candidarsi in prima persona fu un po’ trascinato per i capelli”. Ma, come altre volte negli anni successivi, una volta deciso, Fini mostra i suoi numeri. Nei match televisivi risulta efficacissimo, Enzo Biagi arriva a dire che il leader missino è “bravo, diretto, chiaro, conosce il mestiere”. Tanto che nella sfida con Rutelli, si materializza un miracolo di cui oggi si fatica a comprendere la novità: il segretario dell’Msi è ad un passo dalla vittoria, un evento che avrebbe fatto il giro del mondo. Una voce mai chiarita ha sempre raccontato che allora Fini, pago della improvvisa botta di popolarità, negli ultimi giorni di campagna elettorale abbia “frenato” pur di evitare il peso di diventare sindaco di Roma. Racconta Francesco Storace, allora creativo portavoce di Fini: “Francamente una fesseria. Ricordo che il penultimo giorno Gianfranco, incitato ovunque andasse, mi disse: ‘Per evitare di fare il sindaco, domani mi toccherà indossare una camicia nera!’. Scherzava”. Da allora, vittorie, sconfitte, una popolarità di Fini nei sondaggi che è inossidabile negli anni» (Fabio Martini). Eletto alla Camera nel 1983, 1987, 1992, 1994, 1996, 2001, 2006, 2008 (Msi, An, Pdl, Fli). Vicepresidente del Consiglio e poi ministro degli Esteri nel Berlusconi II e III (2001-2006).
• La coppia Berlusconi-Fini è stata da sempre considerata un matrimonio di interesse. A cominciare dal primo febbraio 1996 quando, dopo le dimissioni di Lamberto Dini, che aveva guidato un governo ribaltone-antiBerlusconi (vedi anche Massimo D’Alema), Antonio Maccanico ebbe l’incarico di formare un governo. L’alternativa era riforme o voto anticipato. Lucia Annunziata: «Il 10 febbraio Maccanico si presenta in Quirinale sostenendo di aver “constatato una larghissima maggioranza”, il 14 rinuncia denunciando “condizionamenti politici, ostacoli e limitazioni crescenti”. Intorno a quel tentato accordo, come a tutti gli altri successivi, fioriscono ancora oggi storie e leggende. Un paio di cose sono però chiare: Berlusconi, in quel momento molto incerto sul suo futuro, era favorevole; Fini invece, convinto di poter andare alle elezioni anticipate e sorpassare Forza Italia, era contrario. Alle elezioni si andò, dunque, nel 1996, e vinse Romano Prodi. L’azzardo di Fini non funzionò neanche nel rapporto interno alla opposizione: prese un notevole 15,7 per cento, ma Forza Italia salì al 20 per cento. Ma Fini, in quegli anni ancora il leader rabbioso e affamato uscito “dalle fogne” (come si diceva per insultarlo), immagina comunque la fine del Cavaliere e continua a provare a smarcarsi. Nel 1998, da maggio a giugno, il leader di An diviene un forte sostenitore della Bicamerale, che viene invece affossata senza batter ciglio da Silvio. Fini si getta allora sui referendum, sostenendo nel 1999 la consultazione per l’abolizione del voto di lista per l’attribuzione con metodo proporzionale di un quarto dei seggi della Camera. Favorevoli anche Ds e Di Pietro; contraria Forza Italia, la cui opposizione aiuta il non raggiungimento del quorum. Ancora nel 1999, Fini prova a fare liste comuni alle europee con Mario Segni, avversario del Cavaliere. La campagna elettorale è molto vivace, ma l’alleanza muore davanti al misero 10 per cento del risultato, cioè 5 punti in meno di quel che Fini aveva avuto alle politiche. Gianfranco non fece autocritica, si impegnò anzi a rilanciare altri due referendum (sarebbero falliti entrambi), ma ritornò a casa. Non si rivelò incline però al perdono il Cavaliere, che nel primo periodo della vittoria elettorale del 2001 farà mangiare molta biada al suo alleato di An, tenendolo a lungo fermo in stalla. Ricordate la nomina di Ruggiero a ministro degli Esteri e, dopo, il lungo interim dello stesso premier, che insegnava alle feluche italiane come vestirsi e come promuovere gli interessi economici dell’Italia all’estero, mentre il ministro degli Esteri in pectore, Fini, fremeva? E ricordate le vacanze (sempre senza Fini) del premier con Putin e Bush? D’altra parte, Fini non ha mai perso occasione per segnare le sue distanze: ricordate la volta in cui Berlusconi diede del “Kapò” al tedesco Shultz, in Parlamento europeo? Mentre parlava, Fini si portava le mani al viso. Naturalmente, Berlusconi ha tanta forza economica che è difficile indebolirlo. Ma fra i suoi tanti interessi c’è almeno un nervo sensibile che il leader di An non si è mai sottratto a pizzicare: le televisioni. È su questo terreno che meglio si misura forse la maggior distanza fra i due alleati. Berlusconi ha un controllo facile, anche personale, della tv e lo usa fino in fondo: quando si recò da Vespa per firmare il contratto con gli italiani in diretta, Fini si seccò moltissimo. Non era stato avvertito, e considerò poco elegante che il patto fosse firmato da Silvio e non da tutta la coalizione». Nel 1988 sposò Daniela Di Sotto (Roma, 5 marzo 1955), già moglie di Sergio Mariani detto Folgorino: «Si sposarono nell’autunno 1976. Daniela aveva 20 anni. Tre mesi dopo, essendo pericoloso come una Santa Barbara, Mariani fu spedito per un anno al soggiorno obbligato in Sardegna. E anche quando tornò era sempre in fuga. La sposina si trasformò in vedova bianca. Lavorava come tastierista alla tipografia di via del Boschetto che stampava il Secolo d’Italia, quotidiano del Msi. Componeva i titoli. La sera si affacciava Fini, ai primi passi come giornalista. Indignati per la tresca, gli amici di Mariani si appostarono una notte sotto casa di Gianfranco. Lo pestarono e gli storsero il naso, come si può notare tuttora. Il lieve difetto patito per amor suo convinse Daniela che quello era l’uomo giusto. Appena il marito tornò dall’esilio lo affrontò: “È finita. Vado dall’avvocato”. Mariani replicò: “Se lo fai mi sparo”. “Sparati” disse Daniela, e sbatté la porta, scendendo le scale. Al terzo scalino sentì due colpi. Rientrò e trovò il marito in un bagno di sangue, con un buco nell’addome. Restò un mese tra la vita e la morte. Il suo ambiente la isolò. Per ottenere il divorzio dovette rivolgersi a un avvocato comunista. Fu dura. L’ostracismo svanì appena Gianfranco divenne capo del partito» (Giancarlo Perna).
• Voci nel 2005 di una sua storia con Stefania Prestigiacomo (vedi anche Ignazio La Russa).
• Nel giugno 2007 si è separato dalla moglie, Daniela Di Sotto, con la quale ha una figlia, Giuliana (1985). Dalla nuova compagna, Elisabetta Tulliani, di vent’anni più giovane e già fidanzata di Luciano Gaucci, ha avuto due figlie, Carolina (2007) e Martina (2009).
Critica «Gianfranco Fini ha parecchi meriti. Ha capito che il suo partito avrebbe avuto un ruolo importante nella politica nazionale soltanto se fosse riuscito a sbarazzarsi del suo ingombrante passato. Ha accettato la prospettiva delle scissioni che generalmente colpiscono i partiti politici nel momento in cui cercano di riformarsi. Ha capito che il centrodestra sarebbe stato efficace soltanto se rappresentato in Parlamento da un solo partito. Si è reso conto che l’integrazione europea è necessaria al continente, oltre che in particolar modo all’Italia. Ha fatto un buon lavoro nella Convenzione europea presieduta da Valéry Giscard d’Estaing per la prima bozza del Trattato costituzionale. E mi è parso che abbia fatto il ministro degli Esteri con serietà» (Sergio Romano).
• «L’elenco degli errori “strategici” del capo dell’ex An è impressionante. Poco prima di Tangentopoli inneggiava al fascismo come una teoria politica non transeunte, e proponeva un “fascismo del Duemila” come eterno destino dell’Msi. Poi si oppose al referendum maggioritario, convinto che il suo partito dovesse rimanere nella nicchia. Quindi alternò il bene e il male in un ottovolante da “tenetevi stretti”: divenne maggioritarista fondamentalista, parlò di Mussolini come massimo statista del secolo, si unì allo sfortunato Mariotto Segni, ripudiò il fascismo “male assoluto”, fece cadere il divo Tremonti (durante il Berlusconi III, per evitare tagli che avrebbero colpito il suo elettorato, sostenne che le tabelle preparate dal ministro dell’Economia erano state falsificate e ne pretese le dimissioni: vedi anche Giulio Tremonti – ndr)» (Edmondo Berselli).
• Tra i libri: Il ventennio. Io, Berlusconi e la destra tradita (Rizzoli 2013).
Frasi «Come sono io? Non mi piace molto parlare della mia vita privata. Rambo e macho no, cocciuto e coraggioso sì. Sono palloso, metodico, fin troppo ordinato mentalmente e quindi ho scarsa fantasia. (…) Spesso mi piace raccontare barzellette, so imitare tutti i dialetti, adoro le canzoni di Lucio Battisti e faccio il tifo per il Bologna e per la Lazio» [Francesco Briglia, Vty 20/2/2013].
• «La cosa più curiosa è che la mia vita mi fece essere spesso l’uomo giusto al posto giusto. Non mi accontentavo di fare il politico e chiesi ad Almirante: ma poi cosa farò da grande? E lui mi chiese se mi sarebbe piaciuto fare il giornalista. Così lo feci: prima dodici mesi da abusivo al Secolo e quindi il praticantato. E sostenni l’esame da giornalista. Ci sentivamo dei reietti. Ci compiacevamo anche di esserlo. Ci sentivamo l’espressione di una élite politica» (ad Alain Elkann).
• «A Bologna mi dicono che parlo romano. Però so che c’è un’inflessione più che un accento. L’emiliano ha una buona filosofia dello stare al mondo. La parodia dell’emiliano è Prodi».
Vizi I suoi hobby sono le immersioni subacquee e lo sci di fondo.
• Ha messo sulla giacca il simbolo dei Templari (cavalieri di Cristo in Terra Santa contro i musulmani).
Tifo Quando stava con la Di Sotto era diventato laziale (lei è tifosissima).