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 2012  maggio 30 Mercoledì calendario

Biografia di Giuliano Ferrara

• Roma 7 gennaio 1952. Giornalista. Ha fondato e diretto Il Foglio Quotidiano dal 30 gennaio 1996 al 27 gennaio 2012. «In fondo, per tutta la vita, F. non ha fatto che cercare di capire che cosa sia l’innocenza e quanta vita ci voglia per perderla senza rinnegare un elemento spurio di onestà che negli uomini, per il fatto di essere uomini, deve starsene appartato, riservato, sennò si diventa sciaguratamente persone perbene».
Ultime Il 27 gennaio 2015 ha lasciato la direzione del Foglio a Claudio Cerasa, caporedattore politico di 32 anni (ma con alle spalle già dieci anni di militanza nel giornale): «È il tempo che passa: entriamo nel ventesimo anno del giornale che ho sempre diretto. È giusto rinnovarsi e rinnovare, io farò il collaboratore». L’annuncio alle Invasioni Barbariche di Daria Bignardi.
Vita Figlio di Maurizio Ferrara (1921-2000), alto dirigente del Pci e a un certo punto anche direttore dell’Unità, e di Marcella De Francesco (1920-2002), prima segretaria di Togliatti e poi redattore capo di Rinascita.
• «Genitori iscritti al partito comunista dal 1942, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato. Vive a Mosca, dove il padre è corrispondente dell’Unità, dal 1958 al 1961».
• Tornato a Roma, dopo la scuola pubblica si iscrive a Filosofia. Primi impegni nel Pci alla Stampa e propaganda con Gian Carlo Pajetta, che lo invia a Torino per «andare alla scuola della classe operaia e sottrarsi alle insidie della curia romana». A Torino, dove rimarrà fino al 1982, scrive sulla rivista Nuovasocietà, ideata da Diego Novelli (sindaco dal 1975), diventa capo dell’organizzazione politica del Pci alla Fiat Mirafiori (che porterà a duemila iscritti), poi responsabile della sezione Problemi dello Stato (lotta al terrorismo), della sezione culturale e del comitato cittadino (organizzazione del partito in città). Sul terrorismo «si muove in una logica emergenzialista e non garantista», un suo articolo su Repubblica dell’epoca si intitola “Diritto di delazione”: «Sempre eccessivo, ma è con la delazione che le Br vengono sconfitte».
• A Torino si schiera contro i duri del sindacato che combattono la decisione della Fiat di licenziare i dipendenti collegati al terrorismo, una posizione in cui vede «la premessa di una sconfitta del comunismo che piace a me: si chiamava all’epoca eurocomunismo, si estrinsecava nella rivolta berlingueriana contro il partito comunista sovietico che lavorava con Cossutta per farlo fuori, e precipitava nell’assunto secondo cui i comunisti dovevano andare al governo, sacrificando ogni forma di estremismo e avviandosi verso una socialdemocrazia europea con altre forze politiche popolari, in primis la Dc, nel famoso compromesso storico, diciamo così bipartisan». Nel 1980 si dimette dalla segreteria della Federazione e da capo del Comitato cittadino, «dopo aver partecipato a due vittorie elettorali del Pci ed essere stato eletto (tredicesimo arrivato, secondo i piani, consigliere comunale)». Novelli lo fa capogruppo e gli concede un part-time per gli studi, ma da Torino se ne va dopo uno scontro pubblico con Luciano Berio (1925-2003) e l’assessore alla cultura Giorgio Balmas (1927-2006), in occasione di un concerto che avrebbe voluto dedicato alle vittime di Sabra e Chatila, «per tornarsene a Roma e lasciare quello strano Pci dove ormai era sempre in estrema minoranza» (Ferrara su se stesso in una biografia scritta per Il Foglio). Uscito dal partito, studia Leo Strauss, impara il tedesco, campa facendo traduzioni, gira con un cane lupo che si chiama Lupo, prende a collaborare all’Espresso, da dove il vecchio amico Ronchey lo spedisce al nuovo direttore del Corriere della Sera, Piero Ostellino. Ottiene una lettera-contratto. Scrive su Amendola, sul terrorismo, sull’esperienza torinese. A un certo punto Pansa, prendendo a pretesto l’uscita di un nuovo giornale, intitolato Reporter, pagato con soldi trovati da Martelli e fatto dagli ex di Lotta continua (suoi vecchi amici-nemici), lo va a intervistare e Ferrara gli risponde che Craxi è in grado di guidare una sinistra socialdemocratica seria, che il Pci sbaglia tutto, e che Fassino «dà ordini come un caporale e obbedisce come un soldato semplice». Craxi, che ancora non lo conosce, lo manda a chiamare, diventa suo protettore, lo piazza, su sua richiesta, a Reporter, dove Ferrara fa il giornalista a tempo pieno (Reporter, Corriere, l’Europeo prima, Epoca poi).
• Ha raccontato di essere stato al servizio della Cia a metà degli anni Ottanta e ben pagato per quello che raccontava. D’altra parte, a quanto pare, non raccontava niente di speciale perché, a suo dire, era privo di informazioni speciali. Solo spiegava all’agente americano le complicazioni di un paese difficile da capire come il nostro, offriva insomma “chiavi di lettura” (il racconto, nel solito stile paradossalmente provocatorio, ha concentrato su Ferrara un’altra valanga di improperi). «Incontravo il mio referente della Cia in un bar di Trastevere. Mi portava una bustina del governo federale, con dentro qualche dollaro. Ma non lo facevo per denaro. Mi esaltava la perdita dell’innocenza. Sapevo di fare peccato, ma non si può sempre vivere nella castità» (a Malcom Pagani) [Fat 20/10/2011].
• La carriera televisiva comincia nell’87, con Antonio Ghirelli, direttore del Tg2, che gli fa tenere una rubrica di commento nel telegiornale della notte, ma soprattutto con Guglielmi, direttore di Raitre, che gli affida Linea rovente, programma in cui Ferrara indossa la toga del giudice e processa Verdiglione, Pannella e altri protagonisti della cronaca. Il programma non piace a Craxi («sembra una cosa alla Pecchioli») e dopo quattro mesi la Rai lo trasferisce sulla seconda rete per fare Il testimone. Qui comincia a guadagnare parecchio (contratto da un miliardo), ma gli ascolti sono notevolissimi (Ferrara racconta retroscena, caso Moro, caso Tortora ecc.) e per la stagione successiva lo chiama Berlusconi. Ferrara, che è già una star televisiva, chiede due miliardi e Berlusconi glieli dà. Seguono grandi successi con Radio Londra (subito dopo il Tg delle 20, nello spazio cioè che su Raiuno sarà di Biagi) e successi assai minori con Il gatto (1989-1990).
• Nell’89 è europarlamentare del Psi: nega di essere stato il più assenteista tra gli eletti («ero nella media della delegazione italiana»). Nel 1993, quando contro Craxi all’uscita dal Raphaël vengono lanciate le monetine, realizza una straordinaria intervista, a caldo, al segretario socialista, che viene mandata in onda senza tagli (dura più di due ore). Nel 1994 è ministro per i Rapporti col Parlamento del governo Berlusconi, a cui fa anche da consigliere politico e da ghostwriter («Il primo comunista a Palazzo Chigi sono stato io»). Nel ’97, in palio un seggio al Senato rimasto vacante, si candida al Mugello contro Antonio Di Pietro ma viene sconfitto.
• Nel 1996 fonda Il Foglio, primo quotidiano italiano di quattro pagine. Soldi di Veronica Berlusconi, di qualche amico (Zuncheddu) e del finanziamento pubblico riservato alle cooperative che editano quotidiani di partito (per arrivare a questi soldi due parlamentari amici, Marco Boato e Marcello Pera, fondano a bella posta la Convenzione per la Giustizia di cui Il Foglio diventa organo ufficiale). Grafica ispirata al Wall Street Journal, tendenzialmente senza firme. Ferrara mette in calce ai suoi articoli un piccolo elefante stilizzato procuratogli dal grafico Giovanni Angeli. Da questo momento avrà un nuovo nome d’arte, l’Elefantino. Il Foglio manifesta poco interesse per le notizie in quanto tali e mostra invece una sensibilità acuta per i grandi temi politici, per le grandi questioni morali, esigendo una scrittura di alto livello e un lettore in qualche modo già informato. È una scuola che, dopo molti anni in Italia, ha sfornato giovani giornalisti di grande valore: Guia Soncini, Mattia Feltri, Pietrangelo Buttafuoco, Camillo Langone, Mariarosa Mancuso, Marco Ferrante per citarne solo alcuni. Ha inventato la formula della rubrica di due righe, ha dato la parola ad Adriano Sofri, che ha difeso con tutte le sue forze. Ha sostenuto, contro l’opinione generale, che a partire dall’11 settembre 2001 è in corso uno scontro tra il mondo islamico e quello occidentale, scontro dal quale usciremo sconfitti se non difenderemo fino in fondo i valori su cui si fonda la nostra civiltà, rinunciando a una tolleranza che in tempo di guerra è quasi tradimento. Per questa via, senza diventare credente («sono papista, non cattolico») si è accostato alla Chiesa e specialmente agli esponenti più ligi alla dottrina (per esempio monsignor Caffarra). Appoggio incondizionato a Bush, sì alla guerra in Iraq, difesa a oltranza di Israele e delle sue ragioni. No agli esperimenti con le cellule staminali, che Ferrara considera la porta d’ingresso all’eugenetica di marca nazista, la tecnica grazie alla quale tutti saremmo biondi, con gli occhi azzurri o più probabilmente non-nati. Il Foglio è un sostenitore di Berlusconi, ma scomodo. Un editoriale che lo rimproverava per certe tentazioni censorie sulla Rai cominciava così: «Cavaliere, non rompa il cazzo...» (autore Pietrangelo Buttafuoco).
• Durante lo scandalo Parmalat, venne fuori che Tanzi a un certo punto aveva dato 600 milioni al Foglio per farlo uscire da un momento di difficoltà. Quando Feltri si mise a far titoloni, Ferrara fece spallucce. La notizia era vera.
• È stato direttore di Panorama (1996-1997).
• Signore della televisione anche con Otto e mezzo (su La7 in prima serata dal lunedì al venerdì, trasmissione condotta fino al febbraio 2008), Ferrara si faceva sempre affiancare da un altro conduttore (Gad Lerner, Luca Sofri, Barbara Palombelli, Ritanna Armeni) di opinioni opposte alle sue.
• Ha orientato la sua battaglia culturale e politica sui temi centrali della bioetica (fine e inizio vita) e sul pericolo di una deriva relativistica per i valori e l’identità dell’Occidente, attaccando per questo quelli che ha definito i «guru postmoderni», come Umberto Veronesi, o la «superstizione democratica» attribuita al premier spagnolo Zapatero. Il 20 dicembre 2007, all’indomani del successo della moratoria sulla pena di morte all’Onu (vedi D’ALEMA Massimo) propose una moratoria dell’aborto: «Questo è un appello alle buone coscienze che gioiscono per la moratoria sulla pena di morte nel mondo, votata ieri all’Onu da 104 paesi. Rallegriamoci, e facciamo una moratoria per gli aborti. Infatti per ogni pena di morte comminata a un essere umano vivente ci sono mille, diecimila, centomila, milioni di aborti comminati a esseri umani viventi, concepiti nell’amore o nel piacere e poi destinati, in nome di una schizofrenica e grottesca ideologia della salute della Donna, che con la donna in carne e ossa e con la sua speranza di salute e di salvezza non ha niente a che vedere, alla mannaia dell’asportazione chirurgica o a quella del veleno farmacologico via pillola Ru486 (...)».
• Nel febbraio 2008 denunciò il caso di una donna che aveva abortito perché al feto era stata diagnosticata la sindrome di Klinefelter, dichiarando con enfasi che forse lui stesso ne era affetto e che quel «bimbo di 21 settimane» era stato «eliminato» per «un’anomalia cromosomica che si cura conducendo una vita normale» (le analisi esclusero in seguito che lui avesse la malattia). Confidò poi di essere stato complice di tre aborti: «Li ho vissuti come un delitto morale, un atto di violenza contro me stesso, le mie compagne di allora e contro le creature che oggi avrebbero 25, 30, 35 anni. Dietro questa battaglia c’è anche la nostalgia della paternità mancata».
• All’idea della moratoria sull’aborto aderì fra gli altri Silvio Berlusconi, che però non vide di buon grado la sua intenzione di scendere in campo alle politiche 2008 con una lista pro-life e gli offrì di confluire nella lista del Popolo della Libertà (vedi BERLUSCONI Silvio). Ferrara rifiutò la confluenza, incassò le critiche di chi, come Eugenio Scalfari, lo accusava di fare una lista della Cei, e nello stesso tempo lo scetticismo dei vescovi stessi (per voce di Avvenire, che avvertì del rischio «di sottrarre voti importanti ad altre liste già affermate»): alla fine si presentò da solo (e solo alla Camera) con la lista “Aborto? No, grazie – per la moratoria con Giuliano Ferrara”. Campagna elettorale condotta nonostante gravi problemi fisici (un’infezione alle vie urinarie che gli fece tenere comizi anche con la febbre a 40) in mezzo alle contestazioni, culminate in un lancio di pomodori e uova (ricambiato) in piazza Maggiore a Bologna: per Giampaolo Pansa fu «una maniacale caccia all’uomo». Il New York Times scrisse che «evitando il politichese dei suoi avversari, con la sua insistenza sulle idee» e facendo «leva sulle ansie italiane per il futuro dell’Europa, la perdita delle identità nazionali e il declino della fede cristiana» era in sostanza l’unica vera novità della competizione; il Wall Street Journal definì la lista «un esempio di quel genere di alleanza tra cristiani e non credenti che Benedetto XVI ritiene necessaria per il rinnovamento dell’Europa e dell’Occidente». Alla fine prese appena lo 0,4%: «Più che una sconfitta, una catastrofe: io ho lanciato un grido di dolore per un dramma e gli elettori mi hanno risposto con un pernacchio».
• All’inizio della campagna elettorale, il 24 febbraio 2008, baciò l’anello papale in un breve incontro con Benedetto XVI in visita alla chiesa di Santa Maria Liberatrice, nel quartiere di Testaccio dove abita, «però niente Comunione, niente segno della croce... “Credo di non essermi mai confessato. Assisto con deferenza alla messa ma non partecipo, per farlo bisogna saper pregare e io non sono capace”» (Lorenzo Salvia). La sconfitta lo indusse anche a sparire dalla tv: abbandonò definitivamente la conduzione di Otto e mezzo e passò l’estate 2008 in America.
• Guardò con favore alla nascita del Partito democratico, soprattutto quando si annunciava come modello di un nuovo tipo di partito, leggero o «liquido», senza caporioni né correnti e aperto ai fermenti della società, di una formazione politica all’americana, senza tessere, e in questa fase ha espresso la sua stima per Walter Veltroni.
• Tra il luglio 2008 e il febbraio 2009 fu attivissimo nel sostenere le ragioni dell’intangibilità della vita nel caso di Eluana Englaro (vedi Beppino Englaro), sostenendo che il trattamento di idratazione e alimentazione forzata che la manteneva in vita non costituisse terapia, e che dunque non vi si potesse ravvedere un accanimento terapeutico. Supportato in questo dal Movimento per la Vita di Carlo Casini e da altre associazioni e personalità del mondo cattolico ma non solo, lanciò la campagna “Acqua per Eluana Englaro”, invitando a depositare simbolicamente bottiglie d’acqua sul sagrato del Duomo di Milano: l’iniziativa ebbe notevole successo, e fu replicata in altre piazze d’Italia. Ciononostante, e nonostante il frenetico attivismo del governo e della maggioranza parlamentare di centrodestra, il 9 febbraio 2009, sei giorni dopo essere stata sottratta alle mani delle suore Misericordine di Lecco che l’avevano accudita per quindici anni, Eluana Englaro morì in una clinica di Udine, in seguito all’interruzione di ogni trattamento. «La mano di Abramo sul collo di Isacco, che testimoniava la fede, qualcuno l’ha fermata. La mano dei volenterosi guerrieri culturali che hanno costituito l’associazione “per Eluana”, e le hanno tolto clinicamente la vita per celebrare l’ideologia della libertà di coscienza, anche presunta, non l’ha fermata nessuno. Dopo il caso di Terri Schiavo, per la seconda volta in Occidente una disabilità grave è curata con la morte su richiesta di una autorità tutoria (ieri un marito, oggi un padre). La Schiavo era reclamata dai suoi genitori, ma il marito la pensava diversamente, e, nonostante la rivolta dell’esecutivo e del Congresso, anche lì l’ultima parola spettò a una corte giudiziaria. Qui a reclamare Eluana, che è morta presto fuori di quel suo ambiente, sottoposta a una forma molto asettica e moderna di tortura, c’erano le suorine misericordine della clinica Beato Talamoni di Lecco. A loro vanno le nostre condoglianze» [Fog 10/2/2009].
• Nel corso del 2010 si spese lungamente nel tentativo di evitare una frattura insanabile tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, cercando di motivare come espressione di legittime ambizioni personali e politiche le prese di posizione sempre più critiche del presidente della Camera nei confronti del presidente del Consiglio (vedi FINI Gianfranco): riteneva infatti che un divorzio tra i due avrebbe pesantemente indebolito il governo. A rottura consumata, pur criticandone l’atteggiamento padronale nei confronti del partito, Ferrara prese nettamente le parti di Berlusconi, fino a unirsi a quanti chiedevano le dimissioni di Fini dalla presidenza della Camera, per evidente mancanza di terzietà istituzionale.
• All’inizio del 2011 Ferrara tornò a essere uno dei consiglieri più ascoltati di Berlusconi, e lo convinse a sparigliare rispetto alle campagne scandalistiche che lo assediavano ormai da mesi, rilanciando l’azione riformatrice del governo in ambito economico. «Il primo effetto del ritorno di Ferrara, un aiuto indispensabile per l’eroico e paziente Letta, lo si è subito visto: bando ai programmi di protesta in piazza contro i magistrati milanesi e ripresa di un sano attivismo di governo, con l’annuncio di provvedimenti forti per rilanciare l’economia con la detassazione degli investimenti nelle piccole e medie imprese e una serie di liberalizzazioni per l’attività imprenditoriale che non costano nulla ma possono far crescere l’efficienza» (Paolo Panerai) [Mfi 5/2/2011]. Tali iniziative, più volte annunciate, furono però sistematicamente frustrate dalla rigida contrarietà del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti.
• In risposta al convegno antiberlusconiano “Dimettiti. Per un’Italia libera e giusta” organizzato dal movimento Libertà e Giustizia e tenuto il 5 febbraio al Palasharp di Milano (con interventi di Gustavo Zagrebelsky, Umberto Eco, Roberto Saviano ecc.), Ferrara indisse per il 12 febbraio, presso il teatro Dal Verme di Milano, la contro-manifestazione “In mutande, ma vivi”: sul palcoscenico, dietro i relatori, alcune file di mutande appese. «Sventolano. Rosse, rosa, nere, arancioni. Di tutti i tipi e tutte le fogge: slip, braghe, culotte, boxer. Giuliano Ferrara si trasforma nel gran cerimoniere dell’intimo e chiama a raccolta il popolo del centrodestra contro il “neopuritanesimo di ritorno di magistrati e sinistra”. L’appello ha funzionato. “Sono qui per riconsacrare la città alla laicità liberale”. Ferrara lancia l’anatema contro il popolo viola che sabato scorso si è riunito al Palasharp, attacca la Procura milanese accusata di aver tentato un “golpe morale” e di seguire “metodi da Inquisizione spagnola origliando e spiando”, ma chiede anche al suo “amico”, Silvio Berlusconi, di tornare quello del 1994 e soprattutto di tornare a fare il premier: “Basta con questo Berlusconi ingessato che sembra Breznev. Vogliamo il Berlusconi del ’94, libertario, straordinario e capace di rilanciare questo Paese nel segno della libertà”. Sul palco, insieme all’Elefantino, c’è l’editorialista ed ex direttore del Corriere della Sera, Piero Ostellino, il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, l’eurodeputata Iva Zanicchi, i “foglianti” Camillo Langone e Pietrangelo Buttafuoco, la scrittrice Assuntina Morresi. Tutti d’accordo sull’equazione “etica più politica uguale a totalitarismo”» (Maurizio Giannattasio) [Cds 13/2/2011].
• A metà marzo il ritorno televisivo, con Qui Radio Londra (Rai Uno), un editoriale di cinque minuti trasmesso dopo il Tg1 delle 20 ogni giorno, dal lunedì al venerdì. «Una breve sigla, l’inconfondibile sagoma di Giuliano Ferrara seduto alla scrivania girevole. Poi le luci si accendono e il direttore del Foglio, in splendida solitudine, parlerà agli italiani. “Spero di fare polemica, di rompere la cappa di ipocrisia, di dispiacere a certi giornali, a certi commentatori. L’Italia è occupata non da Berlusconi, ma da una mentalità, da un cultura e da un modo di essere delle élite che mi fa venire l’orticaria. Ho messo in conto le critiche. E conosco l´apologo di Arbasino: brillante promessa quando lavoravo a Raitre, solito stronzo quando andai sulle tv di Berlusconi, venerato maestro a Otto e mezzo dove volevano venire tutti. Per un certo ambiente, ora, tornerò il solito stronzo”» (Goffredo De Marchis) [Rep 10/3/2011]. Il programma chiuse dopo due stagioni, a causa di ascolti inferiori alle aspettative e di attriti tra Ferrara e il direttore di Rai Uno Mauro Mazza.
• Alla caduta del Berlusconi IV, in novembre, dapprima si oppose strenuamente all’ipotesi di un governo tecnico, invocando a gran voce il ritorno alle urne: salutò quindi l’insediamento al governo di Mario Monti come una «sospensione della democrazia», «democrazia autoritaria d’alto stile», e definendolo sarcasticamente «governo del preside», «consiglio di facoltà». Nei mesi successivi ebbe però modo di apprezzare i primi provvedimenti di marca riformatrice varati dal governo, tanto da rivedere nettamente la propria posizione, fino a definirsi, a fine marzo 2012, «berlusconiano tendenza Monti»: «un’altra tendenza che non fa tendenza, visto che il preside realizza quel che il Cav. prometteva di fare, ha cercato di fare, quel che è nelle corde di un programma di cambiamento, Marco Biagi versus Sergio Cofferati per esempio. Il trasformista che è in me ama la decisione politica seria. Sarà anche un trasformista, ma è un decisionista» [Fog 29/3/2012]. A fine maggio Ferrara giunse addirittura a registrare e pubblicare sul sito de Il Foglio un video rap, intitolato Tienimi da conto Monti, con il quale esortava Berlusconi a preservare la nuova personalità politica incarnata da Mario Monti: «Ti prego, ti prego, ti prego, / Cavaliere, / ti voglio bene, / sei stato grande, / sei stato tanto, / sei stato troppo, ma / tienimi da conto Monti» [ilfoglio.it 23/5/2012].
• In vista delle Politiche 2013, sostenne lungamente l’opportunità di allestire uno schieramento «Tutti per l’Italia», che Berlusconi avrebbe dovuto promuovere riunendo sotto un unico cartello elettorale tutte le sensibilità politiche alternative alla sinistra postcomunista e giustizialista, per poi affidarlo alla guida di un’altra personalità capace di esprimerne la sintesi, da scegliere attraverso primarie: «un modello non fondato sul rancore, sulla frustrazione sociale, sulla rincorsa genericamente estremista e demagogica dell’antipolitica, in modo da potere, comunque vada, salvare il senso di molti anni di berlusconismo, compresi gli errori che hanno offuscato novità e risultati importanti» [Grn 14/10/2012]. Berlusconi mostrò più volte di accarezzare il progetto, dichiarandosi pronto a farsi da parte se Monti avesse accettato di guidare lo schieramento, ma con scarsa convinzione. Quando infine, in dicembre, il Cavaliere risolse di ricandidarsi in prima persona alla guida del governo, Ferrara, dapprima contrariato, finì presto per appoggiarne l’ennesima avventura, pur mantenendo intatte le proprie perplessità in merito: «Nel giocarsela come crede, il Cav. si conferma elemento di contraddizione e di scandalo, perciò si conferma quel matto che la storia ha prestato alla mentalità liberale per giocare e scherzare con la politica più pazzotica del mondo. Una parabola che ha del balzano ma è al tempo stesso intensamente, follemente e profondamente democratica. Auguri» [Grn 23/12/2012].
• Tra maggio e giugno 2013, in concomitanza con le fasi conclusive del cosiddetto processo Ruby, criticò causticamente sia la requisitoria finale del pm Ilda Boccassini (con tanto di nuovo video musicale, questa volta in forma di parodia: vedi Ilda Boccassini) sia, alcune settimane dopo, la sentenza di condanna emessa nei confronti di Berlusconi. Organizzò allora per il 25 giugno una manifestazione in piazza Farnese a Roma, intitolandola “Siamo tutti puttane”, per dire «no all’ingiustizia puritana» (vi si presentò provocatoriamente truccato con un rossetto rosso).
• Da quando Berlusconi è stato condannato con sentenza definitiva nell’ambito del processo per i diritti televisivi Mediaset (1° agosto: «sentenza vile e cazzona»), Ferrara è tra i più ferventi sostenitori di una candidatura di Marina Berlusconi alla guida dello schieramento di centrodestra, in occasione delle prossime elezioni politiche. «Quella candidatura avrebbe la carica non già della vendetta ma della rivincita in una partita in cui qualcuno ha barato: sapore delizioso per il palato di noi elettori. È mulier, femmina e madre e lavoratrice, è un caso di scuola di come si possa finalmente introdurre la novità da tutti auspicata a parole, e alla fine realizzata nei fatti dai Berlusconi: una donna al timone. Coloro che hanno tentato di mettere Berlusconi fuori legge guardano alla prospettiva di una candidata che gli assomiglia e lo ama, e porta il suo nome, come a un incubo dei peggiori. Ecco perché ho cominciato a sognare» [Grn 11/8/2013]. Tale ipotesi è stata tuttavia sempre respinta dalla diretta interessata.
• Fervente sostenitore del patto del Nazareno tra Matteo Renzi e Berlusconi (che si è poi rotto dopo l’elezione di Mattarella presidente) Ferrara ha dedicato al presidente del Consiglio Renzi il libro The Royal Baby. Matteo Renzi e l’Italia che vorrà (Rizzoli 2014): una requisitoria pubblica e una confessione privata che farà discutere tutti, irritare molti. Un ritratto folgorante dell’uomo che sta rivoluzionando l’Italia, il vero erede del cavaliere che fu: «Mi piacerebbe che quelli come me riflettessero sulla trombonaggine di certe pretese. Mi piacerebbe che la finissero di attribuirsi premi e prestigio, i soliti noti che pullulano nelle pieghe dell’immobilismo italiano. Io sono uno dei soliti noti. Bisogna togliergli l’Italia, dice Matteo Renzi. Ha ragione, mi dico».
• Sposato con Anselma Dell’Olio, giornalista-sceneggiatrice nata negli Stati Uniti con la quale condusse nel 1992 Lezioni d’amore (Italia1), subito sospeso perché giudicato troppo audace da Gianni Letta. Fabrizio Roncone: «Una donna colta e di carattere, snob, curiosa e ironica». Si conobbero «una sera, a cena. Ho pensato subito: quest’uomo deve fare parte della mia vita. Chiedevo informazioni su di lui, tutti mi dicevano: lascialo perdere, e comunque era fidanzato ed ero fidanzata anch’io. Ci sono voluti altri cinque anni perché accadesse». Nell’estate del 1987 Ferrara la aiutò per l’adattamento italiano di Who’s That Girl. «Ci siamo chiusi in casa per una settimana, abbiamo riso come pazzi, lavorando giorno e notte, abbiamo capito di avere lo stesso sense of humour, e alla fine di quella folle settimana mi ha portato al mare e su un gozzo mi ha chiesto di sposarlo. Gli dissi: ti sposo, ma fai tutto tu, la parte burocratica mi paralizza. Mi paralizzava anche il matrimonio, e non avrei potuto sposare nessun altro al mondo» (ad Annalena Benini).
• Da inizio 2012 Ferrara è presente su Twitter, con l’autoironico pseudonimo @ferrarailgrasso.
Religione Definito spesso, talvolta con disprezzo, “ateo devoto”, non si riconosce nell’espressione coniata da Beniamino Andreatta: «Penso molte cose cattoliche senza essere cattolico. Ma non sono un ateo devoto. Chi mi conosce sa che io sono il contrario di un devoto. Sono una persona disciplinata e razionale, ma devoto no...». «Non ho niente da chiedere e niente da dare alla Chiesa. Se la difendo è perché credo profondamente che nella comprensione del mondo in cui vivo la Chiesa è un passo avanti alla cultura secolarista. Sulle cose, sulla vita, sui cosiddetti valori o criteri della vita giusta ho incontrato un pensiero che mi affascina, mi suggestiona, mi importa» (da un’intervista di Tempi).
Critica «Ex ministro di Silvio Berlusconi, ex Pci, ex craxiano, ex quasi tutto è una forza della natura e dell’intelligenza. Non ci sono in Italia tante esperienze intellettuali, e perlomeno non ci sono negli ultimi vent’anni, che come la sua abbiano saputo scuotere l’opinione pubblica italiana. Prima con la tranquilla forza della faziosità neoliberista, quando sembrava che il Cavaliere fosse una dinamica reincarnazione reaganiana o thatcheriana; poi con la riscoperta dei valori, dei temi “etici”» (Edmondo Berselli).
• «Un pazzo, ma mi è simpatico. Il Foglio è l’unico giornale culturale che esista in Italia» (Giorgio Bocca, 1920-2011, a Massimo Gramellini) [Sta 30/1/2010]. «Un magnifico pazzo» (Antonello Venditti).
• «Giuliano Ferrara è un grande ”italiano antitaliano” luciferino: un avventuriero che ha per fede solo l’intelligenza e l’amicizia ma che, come tutti i grandi italiani, è sempre solo, anche quando è circondato da tante persone, non importa se per bene o per male. Ferrara è l’antitaliano che esclude e non include, non dentro la realtà ma oltraggio alla realtà» (Francesco Merlo) [Faq Italia, Bompiani 2009].
• «Antro d’amore. Rombo di luce» (Sandro Bondi).
• «Un pirla ruffiano, amico e complice di ruffiani mafiosi di merda» (una delle tante lettere di insulti pubblicate in un’intera pagina sul Foglio del 13 dicembre 2007, quando ancora non s’era spenta la polemica sul caso Luttazzi).
Frasi «Fiero di essere stato comunista, fierissimo di non esserlo più».
• «I giornali sono stati il mio latte, i miei biscotti, la mia precoce pappa intellettuale e psicologica. Infanzia, adolescenza e poi giovinezza, maturità, incipiente vecchiaia: l’adorazione dei giornali ha avuto per me, in ogni stagione della vita, qualcosa di patologico. Da piccolo facevo un quotidiano infantile incollando con la Coccoina, su carta da impaginazione procurata da mio padre, gli articoli scritti a macchina. Mostravo il giornalino al mondo dei grandi, e mi vantavo dei complimenti di Palmiro Togliatti e Gian Carlo Pajetta e dell’editore comunista Amerigo Terenzi. Testata ambiziosa e poco disneyana: La questione. Titoli e sommari tracciati con pennarelli di cui ricordo il profumo inebriante. Da grande ho fatto con un gruppo di amici un giornalino piccolo, appena meno artigianale del primo, con i complimenti di un ristretto circolo di lettori» [Pan 12/11/2009].
• «Non sono un commentatore indipendente, sono un essere umano, sono un cittadino, una persona. Il giornalismo per me non è una professione: è un aspetto della vita politica. Non credo nel giornalismo professionale» [Ferdinando Giugliano e John Lloyd, Eserciti di carta. Come si fa informazione in Italia, Feltrinelli 2013].
• «I fatti nudi e crudi, la gente li apprende dalla televisione. A me interessa invece cavalcare la notizia, non esserne dominato» [Basler Zeitung 11/6/2013].
• «Il pensiero autenticamente reazionario non sbaglia mai, solo che è per definizione fuori del tempo».
• «Ho sempre preferito la merda dei corrotti al sapore dolciastro dell’ipocrisia».
• «Adoro le metropoli occidentali, fucilerei quelli che fanno le vacanze esotiche a Bali, trovo pessima l’idea di abbronzarsi d’inverno ai Caraibi. Io andrei sempre e soltanto nelle città indicate sotto la scritta Bulgari: New York, Los Angeles, Parigi, Londra...» (a Barbara Palombelli) [Cds 29/10/2011].
• «I californiani sono convinti di essere stati loro a inventare la pizza napoletana, quindi possono anche convincersi che Benigni sia l’erede di Charlie Chaplin».
Tifo Moderatamente romanista (prima era torinista: «Ma adesso abito a Testaccio e a Testaccio è opportuno essere romanisti»).
Vizi Adora i cani e i cavalli, ama la barca a vela.
• Qualche partecipazione cinematografica. La prima a soli quattordici anni, nel film Le ragioni del nostro amore di Florestano Vancini (1965), nei panni del figlio di un gerarca fascista. Poi, rivoluzionario ottocentesco in redingote nello sceneggiato televisivo Non ho tempo (1973) di Ansano Giannarelli, e, ancora, politico corrotto in Azzurri di Eugenio Masciari (1985).
• Alla nascita pesava 7 chili, nel giugno 2013 150. È arrivato anche a 180. «Quando mi gridano da un’auto in corsa “ciccione”, soffro come un vecchio cane artritico, mi viene voglia di morire o di uccidere. Vivo male la mia obesità, l’obesità è una vera e propria malattia. Ne soffro molto anche se non lo do a vedere. Combatto questa patologia con diete periodiche, comunque è dura».
• Porta calze corte.