28 maggio 2012
Tags : Alberto Castelvecchi
Biografia di Alberto Castelvecchi
Roma 12 aprile 1962. Fondatore dell’omonima casa editrice (cinquanta titoli l’anno, tre milioni di fatturato), di cui è direttore creativo e socio di minoranza. «Sono radical chic. O postmoderno compiuto. O, meglio ancora, se proprio vogliamo trovare una definizione, chiamatemi cyberdandy».
• Infanzia in Estremo Oriente, poi a Ostia. All’università studiò filologia. Ventiquattrenne pubblicò con Luca Serianni una Grammatica italiana per la Utet («continua a essere richiesta nelle scuole»). Ha scritto le Osservazioni linguistiche sul romanesco dei coatti. Ha condotto per alcune stagioni Terzapagina su Radio Rai. Nel 1993 ha fondato la Castelvecchi Editoria & Comunicazione. Editore eccentrico, ha lanciato alcuni giovani romanzieri italiani, ha ripescato autori dimenticati, ha proposto saggi provocatori: «Il sistema dei media è percorso senza sosta dai suoi titoli immaginosi e provocatori: dalla Ballata delle prugne secche di Pulsatilla al Manuale di siestologia (per non parlare del Manuale dello scroccone)» (Mario Baudino).
• Renziano. Nell’ottobre del 2011 ha partecipato alla convention alla Leopolda di Firenze. Durante il suo intervento ha incitato il pubblico a schioccare ritmicamente le dita e battere le mani per interpretare il nuovo il nuovo ritmo della politica.
• Partecipa alla nuova edizione della trasmissione sportiva Il processo del lunedì su Raisport1 (da settembre 2013), lanciando la «moviola fisiognomica» che analizza le azioni di gioco in base al linguaggio del corpo e del viso dei protagonisti.
• «Per entrare nell’ordine castelvecchiano bisogna fare voto di povertà. Lui è il primo a dare l’esempio: un giorno che una redattrice andò a lamentarsi per il mancato pagamento dello stipendio, rispose imperturbabile: “Io stamattina mi sono fatto la barba a lume di candela”. Nella prima sede della casa editrice, in viale del Vignola, all’inizio dei Novanta ci si sedeva sulle sedie prese dai cassonetti. Le difficoltà finanziarie sono leggendarie e rappresentano una costante della conversazione romana colta. Non c’è terrazza in cui non lo si dia per spacciato» (Camillo Langone).