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 2012  maggio 28 Lunedì calendario

Biografia di Salvatore Cancemi

• Palermo 19 marzo 1942. Pentito, a suo tempo mafioso, capo reggente della famiglia mafiosa di Porta Nuova. Sottoposto a programma di protezione, è stato condannato, concessa l’attenuante riconosciuta ai collaboratori di giustizia, per l’omicidio Lima e la strage di Capaci (festeggiata un mese dopo insieme a Totò Riina, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella) (vedi Salvatore Riina). È stato il primo componente della Cupola a pentirsi.
• La sua vita l’ha raccontata nel 2000 a Giovanna Montanaro e Francesco Silvestri, che l’hanno intervistato per il libro Dalla Mafia allo Stato (Gruppo Abele).
• Primo mafioso della sua famiglia (almeno a quanto ne sa lui). Padre commerciante di bestiame, proprietario di due macellerie, dove lui comincia a lavorare dopo aver preso la quinta elementare. È arrestato per la prima volta nel 71, questione di pochi giorni, trattandosi solo di un tentativo di contrabbando di sigarette. Ma l’esperienza carceraria lo ha messo in vista, e Cancemi viene tenuto sotto osservazione per due anni da Cosa Nostra, da un boss del suo quartiere in particolare, Vittorio Mangano (il futuro stalliere di Berlusconi ad Arcore, che morirà di cancro il 23 luglio 2000). «Qualche volta venivano a prendere la carne nella mia macelleria e notavo un certo cambiamento: erano, come dire, più affettuosi. Essere trattato da queste persone ti fa sentire più importante, ti senti una persona superiore a un’altra diciamo». La prova finale prima di combinarlo (affiliarlo in modo rituale a Cosa Nostra), un omicidio. Mangano gli dice in poche parole che ha piacere, insieme a qualche altro, che sia lui a occuparsene. «Quando si arriva a mettere nelle mani di una persona il fucile o la pistola, è difficile che quello dica: “No, non ci voglio stare!”. Perché poi a quello lo devono ammazzare, non lo possono tenere perché sa quella cosa e non fa parte di Cosa Nostra». Superata la prova, viene affiliato col solito rituale della pungitura del dito (il sangue che stilla viene messo su un santino, il santino bruciato e il combinato recita: «Giuro di essere fedele a questa famiglia, un giorno se la dovessi tradire le mie carni devono essere bruciate come questa santina»). A fare da padrino è Mangano, in presenza di Pippo Calò, capo del mandamento di Porta Nuova (nell’occasione si rassicura che Cancemi lavori, secondo il codice di Cosa Nostra).
• Incarcerato per furto nel 76 («l’avevano tramutato in una rapina»), esce dopo tre anni. All’Ucciardone, grazie all’interessamento dei mafiosi, viene trasferito nell’infermeria, dove conosce altri mafiosi, tra cui Tommaso Buscetta, anche lui di Porta Nuova. Nell’81 viene nominato “capodecina” (sotto gruppo della “famiglia”). Nella guerra di mafia scoppiata nell’81 la sua famiglia si schiera con Riina, e nell’85, quando arrestano Calò, diventa il reggente della famiglia di Porta Nuova. Colpito dal primo ordine di cattura per associazione mafiosa nell’84, in base alle dichiarazioni di Salvatore Contorno (fino a quel momento «io ero praticamente uno sconosciuto per la legge»), si dà latitante, ma due anni dopo viene assolto nel maxiprocesso ter. Nell’87-88, su intercessione di Raffaele Ganci (con cui è molto amico perché entrambi gestiscono una macelleria), entra nella commissione provinciale .«È importante precisare che Riina era quello che comandava veramente, nessuno di noi gli diceva di no. (...) anche se non eravamo d’accordo, non era facile andare a dire a un altro: “Ma questo pazzo dove vuole arrivare?”. Perché se quello glielo andava a riferire, due minuti dopo eri morto».
• Nel 92 si dà di nuovo latitante perché ricercato per l’omicidio di Lima.
• Nel luglio 93 decide di pentirsi. Nell’ultimo incontro prima di essere arrestato, Riina aveva detto che bisognava ammazzare fino al ventesimo grado di parentela, cominciando dai bambini di 6 anni, se questi appartenevano ai pentiti. Per Cancemi è troppo, e quando gli arriva un biglietto, invece di andare all’appuntamento con Provenzano (come c’è scritto), si presenta nella caserma dei carabinieri, alle cinque e mezza del mattino: «La storia è questa, mi dispiace dirlo, anche perché io sono assistito da sette anni dai carabinieri. Sono andato là e gli ho detto: “innanzitutto, voglio sapere chi è questo capitano ‘Ultimo’, perché bisogna avvisarlo che Provenzano lo vuole ammazzare, lo vuole sequestrare e quindi io lo voglio avvisare” (...) Quanto meno questo me lo devono riconoscere, che ho salvato una vita». In quell’occasione Cancemi dice di avere detto luogo e ora dell’appuntamento con Provenzano. Era una questione di minuti. «Succede che non sono andati, non so, forse si sono parlati fra loro superiori, non so cosa è successo» (ma secondo lui «hanno avuto poco fegato»).
• Alfonso Sabella (al tempo pm del pool antimafia di Palermo), invece, racconta che Cancemi si era presentato in caserma dicendo di temere per la sua morte e che preferiva finire in carcere che ucciso per ordine di Provenzano, che lo voleva punire perché si era opposto al progetto di uccidere il capitano Ultimo (quello che nel 93 arresterà Salvatore Riina). «Cancemi si presentava sostanzialmente come un agnellino finito senza sua colpa nella tana dei lupi. Negava di avere eseguito omicidi, estorsioni, traffici di droga. Non una parola sulla strage di Capaci che pure aveva contribuito a deliberare e in cui aveva svolto un ruolo di esecutore materiale». Quando gli contestarono che il suo nome, abbreviato con «Tot. Canc.», era registrato nel libro mastro delle estorsioni dei Madonia di Resuttana, lui rispose che forse Nino Madonia intendeva «Totale cancellato». Solo dopo qualche mese iniziò a rendere dichiarazioni utili per il processo alla strage di Capaci e per la cattura di altri mafiosi (Sabella, Cacciatore di mafiosi).
• Sposato, da quando si è pentito la famiglia lo ha abbandonato (una figlia è moglie di un mafioso, e Cancemi ha fatto anche il suo nome). «I miei figli hanno detto che non hanno più un padre. Il travaglio che ho avuto io è stato maggiore di tanti altri, perché io sono solo come un cane, nessuno mi ha seguito, e questa è la cosa più pesante per me. Ieri avevo tutto, oggi non ho più niente: avevo i miei figli, le mie nipotine che adoravo. Quello che facevo per quelle bambine era una cosa pazzesca: le portavo a scuola, le andavo a prendere. Ma non perché gli mancava la mamma, ero io che ero troppo legato».
• Adesso passa la vita a seguire i processi nei quali collabora. «Ci sono stati dei giorni in cui sono stato impegnato la mattina in un posto, il pomeriggio in un altro». Come hobby leggere giornali sportivi e giocare la schedina.
• «Ormai sono nelle mani dello Stato. Io ho preso questo impegno con lo Stato e lo devo mantenere. Il dolore che ho nel cuore è per le mie nipotine e per i miei figli. Poi mi sono messo nelle mani dello Stato e ci credo, ho fiducia. Ora spero che lo Stato fino all’ultimo giorno della mia vita non mi abbandoni. Questo è quello che spero».
• «Cosa nostra non perdona, quella è una cambiale che non scade mai! Quando uno si fa sbirro, deve morire. Anche se è un vecchio che sta morendo nel letto, anche se ha 100 anni, gli sparano. Questa è Cosa nostra».
• Per convincere i magistrati che era un pentito sincero, indicò il posto esatto (in Svizzera, sul lago di Lugano), dove tempo prima aveva seppellito 1.950.000 dollari. Il tesoro fu trovato, ma in base alla legge federale elvetica fu confiscato dalla Svizzera. Alfonso Sabella, che partecipò alla ricerca del tesoro, racconta che per tutto il viaggio Cancemi stette steso sul pavimento dell’aereo a faccia in giù (ripetendo a cantilena: «santa Rosalia, santuzza bedda, aiutami tu», perché aveva paura di volare), e che, una volta scoperto il tesoro, si mise a cantare «Alè oh oh! Alè oh oh!» come allo stadio, con le mani alzate in segno di vittoria e girando in tondo.
• Nel processo per associazione mafiosa a carico di Andreotti dichiarò che Andreotti e Carnevale (giudice della Cassazione) facevano tanto per i mafiosi; che l’eurodeputato democristiano Lima si era effettivamente «mosso» presso Andreotti per aggiustare l’esito del maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone; che alcuni imputati del processo scarcerati erano stati dissuasi dal darsi alla latitanza alla vigilia del giudizio di Cassazione da Riina che voleva evitare che si creasse un «clima negativo» e che li aveva assicurati che «il Senatore Andreotti e il Senatore Lima stavano provvedendo ad aggiustare il processo in Cassazione»; che Riina aveva comunicato di avere preso accordi con Lima, che quest’ultimo aveva, a sua volta, preso accordi con Andreotti e che Carnevale era una persona che «sentiva la redinata» ed era in rapporti diretti con l’imputato cui era molto legato. Rese dichiarazioni anche a carico di Berlusconi e Dell’Utri, che perciò furono iscritti nel registro degli indagati come mandanti occulti della strage di Capaci (ma il pm per primo chiese l’archiviazione e il giudice l’accolse). Non è stato ritenuto attendibile nemmeno nel processo a carico di Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa per i fatti successivi al 92 (assoluzione definitiva il 9 marzo 2012), a causa della progressione accusatoria con cui ha parlato (vale a dire che non ha detto tutto in una volta).
• Le sue dichiarazioni sono indicate tra le fonti di prova nel decreto di rinvio a giudizio sulla presunta trattativa Stato-Mafia, firmato dal Gip di Palermo Piergiorgio Morosini il 7 marzo 2013. (a cura di Paola Bellone)