8 maggio 1976
Una realtà troppo crudele
La Stampa, sabato 8 maggio 1976
Incontro i primi terremotati sulla strada dalle parti di Campo Lessi, poco oltre Udine. Due sposi: lei con la figlioletta al collo, il marito tiene una scatola di cartone, dove c’è tutto quello che gli è rimasto. Indumenti, per lo più. «Di dove siete?». «Veniamo da Maiano». «Come è Maiano?». «Noi siamo vivi». «Ma come è Maiano?». «È una crudeltà, è troppo crudele». Vanno verso Udine come storditi nel fragore dell’autocolonna militare e le autoambulanze con la pazza sirena e il lampeggiante, le lente ruspe cingolate.
L’alba. Ecco le dolci colline del Friuli. Oggi il giorno sorge e trova crudeltà ovunque. Condomini di sei piani, a Maiano sono ora mucchi polverosi alti nemmeno cinque metri, dove si intravedono frantumate, schiacciate, lacerate, le cose domestiche. Un libro infantile, Giochi magici, è sorprendentemente intatto. «Ci sono morti?». «Vi abitavano diciotto famiglie. Tutte in fuga dopo la prima scossa. La seconda, quella che ha seminato morte e distruzione, li ha sorpresi per le scale. Erano tutti ammucchiati. È stata una carneficina». È difficile staccare gli occhi da questi cumuli che poche ore fa erano case abitate, vive di affetti, di famiglie, di bambini.
Ci sono murature rimaste in piedi chissà perché a nascondere il vuoto dentro. Altre case sventrate, che mostrano la loro intimità. Le pareti rimaste su sono come quinte che aspettano una recita: quadri appesi, qualche poltrona e sedia rimaste al loro posto, la cucina quasi in ordine. Le famiglie che vi abitavano sono scomparse, travolte con l’altra metà della loro casa. Le cercano scavando nelle macerie. C’è un uomo ancora giovane che si china su un’ampia breccia tra queste macerie e chiama con voce ferma, un poco severa: «Luca..., Luca...». Con lo stesso tono che se chiamasse il figlio che gioca in cortile perché è l’ora di pranzo. Luca non risponde. L’uomo sembra avere molta pazienza. Va a sedersi su un lastrone di cemento, guarda i soldati scavare, dopo un po’ ritorna alle macerie e chiama, convinto: «Luca...». Perché nessuno lo porta via? Perché non gli dicono la verità? Tronconi di campanili e la campana rovesciata sui massi; moncherini di castelli medievali. Rimasugli di vecchie case di campagna isolate. Una stalla scoperchiata, sbriciolata e tra i calcinacci affiorano le teste di quattro buoi. Due sono morti. Gli altri vivi. Sbattono le orecchie, gli occhi miti fissano il sole. Non muggiscono, non possono muoversi, così imprigionati fino al collo dalle macerie. La ruspa che deve aprire un passaggio sta per avventarsi su di loro. Il contadino non resiste e va a prendere un piccone per uccidere finalmente le povere bestie agonizzanti. Quando arriva col piccone, i soldati gli dicono che non è più necessario, hanno provveduto loro. In che modo, non lo so. Comunque, il contadino li ringrazia. «Povere bestie», dice.
Vedo gente inginocchiata sui cumuli scavare con delicatezza per recuperare una giacca, una scarpa, qualsiasi cosa, anche una forbice. Ma nell’alto mucchio di via Viale, a Gemona, nessuno cerca qualcosa, soltanto i soldati scavano ed estraggono cadaveri che allineano a lato della strada. Una ragazza che abita da queste parti mi dice che quella era la casa di 35, 40 persone. «Quante salme?», domando. «Una, mi sembra. Una bambina».
Straccia il cuore la Gemona medievale. Non c’è più. Quello che resta dovrà essere abbattuto perché pericolante. Intere vie sono scomparse; soltanto detriti e polvere. È da certi segni, come cartelloni cinematografici o fogli di giornale, che indovini che qui c’è il cinema o l’edicola; o da certi odori: quello della farmacia o quello della drogheria. Passa uno scuolabus: oggi non porta studenti, ma è carico di donne con scialli scuri e bimbi e ragazzi con coperte sulle spalle. Zitti, facce drammatiche. Soltanto mentre il bus esce dal paese, si voltano tutti, e nello stesso momento come per un comando, per guardare ciò che resta di Gemona e si stringono più stretti negli scialli e nelle coperte. Nessuno piange né impreca. È gente straordinaria, incredibile. Chi era in grado di farlo già ieri sera ha dato mano al piccone o alla pala. Uno mi dice, semplicemente: «Lavorare è un modo per non pensarci». Poco prima delle 16 una scossa piuttosto forte. Nessuno scappa, ma sento dire: «Eccone un’altra» e riprendono a scavare. Dal momento del terremoto sono senz’acqua e oggi il sole estivo e la polvere tormentano. Ma gli uomini di questi paesi non chiedono nulla e scavano. Ascoltano le pietre per sentire se sotto c’è segno di qualche vita. Sì, un segno c’è, ridono entusiasti: «Barella, venite con la barella».
Si ritrovano per un po’ di minestra alle cucine mobili dell’esercito. C’è la felice sorpresa di rivedersi, sapere che un amico è anch’egli scampato. «Mia moglie, mio figlio ed io eravamo tutti e tre abbracciati, ma siamo vivi». C’è uno di Buia e gli domandano: «E Buia, com’è?». «Come qua». «È troppo crudele. Perché è toccato a noi?». Ma è detto così, senza rabbia né acrimonia. Forse perché lo choc è troppo forte, oppure è davvero gente meravigliosa. Comunque, tutti raccontano con estrema dignità la catastrofe. Indicano la vecchia abitazione. «Era la mia casa. Vede? Non c’è più niente». Dice un altro: «Una vita per farmi una casa, in un attimo ho perso casa e tutto». È accaduto meno di 15 ore fa, alle nove di ieri sera.
Che cosa fanno le famiglie alle nove di sera? È questa l’ora della distensione. Le ore del lavoro sono finite. È terminata anche la cena, è il momento della sigaretta fumata in pace, ascoltando la moglie che racconta le cose della giornata mentre lava i piatti. E poi: televisione? Qui non vanno matti per la televisione, anche i giovani preferiscono la compagnia e la chiacchierata. Ieri la sera era bella, stellata e tiepida: in una serata così, se si hanno rabbie o preoccupazioni si rimandano per vivere un’ora serena con la famiglia o con gli amici. Le 21 è un’ora bella, per quasi tutti è la migliore della giornata. Perché proprio questo il momento del terremoto? Risento l’uomo incontrato vicino a Campo Lessi poco prima dell’alba: «È una crudeltà».
Ora il sole è alto. Vado verso un altro dei centri più pestati e attraverso morbide e verdissime colline, il grano in erba intenerisce. Nei prati, molti hanno alzato tende. Altri hanno infisso pali e vi hanno steso coperte per avere un po’ d’ombra. Rondini stridono a volo basso. Una scena apparentemente felice, quasi una grande scampagnata. Poi nel centro arrivano elicotteri che portano plasma e garze. Appare oltre una curva un campanile smozzicato che annuncia un altro paese distrutto. Sotto le tende e nell’ombra delle coperte tese le famiglie sono drammatiche. Nessuno parla. Non hanno più casa. Oppure hanno case con le pareti squarciate, insicure. Ma c’è anche chi la casa l’ha intatta, però la teme. Ha visto case da sempre credute rifugi sicuri, ora vede crudelmente, in pochi secondi, trappole e tombe.
Luciano Curino