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 1912  aprile 18 Giovedì calendario

Arrivano a New York i superstiti del Titanic

• Alle 20.27 arriva a New York il Carpathia, con a bordo i superstiti dell’affondamento del Titanic (706 su 2223 passeggeri). La nave attracca accolta da una folla di migliaia di persone, il passeggero Lawrence Beasley racconta: «Ero coricato da 40 minuti, allorché sentii un piccolo urto, poi un secondo, ma non abbastanza serio da preoccupare alcuno. Però le macchine si fermarono. Andai sul ponte e vi trovai altri passeggeri venuti come me, per sapere perché il vapore si era fermato; ma nessuno sembrava preoccupato. Attraverso le finestre del fumoir, vedemmo alcuni passeggeri che giuocavano alle carte. Entrammo per chiedere loro se sapevano ciò che era avvenuto. Sembrava che essi avessero udito un urto un po’ più forte e che avessero visto passare presso il vapore un’enorme montagna di ghiaccio. Credettero che l’avessimo toccata di fianco. I giocatori continuarono la loro partita alle carte senza pensare al disastro. Mi ritirai nella mia cabina e non vidi più alcuno dei giocatori di carte, né i testimoni oculari dell’urto. Un po’ più tardi, udendo altri passeggeri saliti sul ponte, mi ci recai di nuovo, trovai che il vapore inclinava dalla parte anteriore. Ridiscesi e mi vestii un po’ meglio. Mentre mi vestivo, udii gridare l’ordine: “Tutti i passeggeri sul ponte con la cintura di salvataggio”. Salimmo lentamente con le cinture agganciate intorno a noi. La nave restava assolutamente senza movimento. Non si scorgeva però alcuna traccia di accidente. Credemmo che il vapore stesse per continuare il suo viaggio fra qualche minuto, dopo qualche piccolo accidente che sarebbe stato facilmente riparato. Un momento più tardi vedemmo i marinai togliere le cinture dei battelli di salvataggio e gli equipaggi prender posto sui fianchi, tenendo le corde pronte per metterle in acqua. Allora cominciammo a comprendere che la cosa era più seria di quanto si fosse creduto dapprima. Udimmo dare l’ordine a tutti gli uomini di ritirarsi dai battelli e a tutte le donne di discendere sul ponte B. Gli uomini si ritirarono e rimasero in un silenzio assoluto. I battelli vennero fatti discendere. Quando giunsero al livello del ponte B, le donne vi entrarono senza confusione, salvo alcune che rifiutarono di lasciate i loro mariti. In qualche caso esse furono strappate ai loro mariti e spinte sui battelli, ma parecchie furono autorizzate a rimanere, perché non vi era alcuno per insistere sulla loro partenza. Vedemmo i battelli toccar l’acqua e scomparire nelle tenebre. Le operazioni continuarono senza disordine. Non vi fu alcun panico e nessun caso di donne isteriche come si potrebbe immaginare. Di fronte al pericolo imminente, si procedette così lentamente che è meraviglioso come tutti abbiano conservato il sangue freddo. Ad uno ad uno i battelli furono riempiti di donne e di bambini e scomparvero nella notte. Più tardi fu dato l’ordine agli uomini di entrare nei battelli da tribordo. Io ero a babordo e poco dopo udii una voce: “Vi sono ancora donne?”. Guardando sopra il ponte, vidi il battello n.13 sospeso al livello del ponte B e a metà pieno di donne. Qualcuno dell’equipaggio mi vide e mi chiese: “Vi sono ancora donne sul vostro ponte?”. Io risposi: no. Il marinaio disse allora: “Voi potete saltare!”. Io caddi nel fondo del battello, che cominciava a scomparire. Due signore furono spinte attraverso la folla del ponte B ed io entrai nel battello seguito da un bambino di dieci mesi. Avemmo un momento di ansietà. Prima di toccare l’acqua, non avevamo veduto né ufficiali, né sottufficiali nel nostro battello, e neppure marinai che sapessero prendere il comando. Un macchinista gridò: “Qualcuno trovi l’apparecchio che trattiene il battello con le corde” ma nessuno seppe trovarlo e noi cercammo nella notte a tentoni. Era difficile muoversi con sessanta o settanta persone nel battello. Galleggiammo sull’acqua e fummo trascinati parallelamente al vapore. Tutto ad un tratto vedemmo il battello numero 14 (quello su cui era imbarcato l’italiano Emilio Portaluppi, che cadde in acqua ma riuscì miracolosamente a sopravvivere fino all’arrivo del Carpathia, ndr) che stava per discendere direttamente su di noi minacciando di sommergerci. Il nostro equipaggio gridò: “Fermate il 14!”. L’equipaggio del 14 gridò egualmente ma la distanza dal ponte era di 70 piedi e le corde cigolanti impedivano alla voci di farsi udire. Il battello discendeva sempre 15 piedi, poi 10, poi 5... Il macchinista ed io toccammo il battello, ma prima che esso fosse caduto sopra di noi, un altro macchinista si lanciò verso la corda con coltello e in due forti colpi noi eravamo liberi e il battello numero 14 cadde in acqua nella località in cui eravamo un momento prima. Da prima vi fu una discussione. Eravamo incerti sulla strada da seguire. Decidemmo di nominare capitano il macchinista, che teneva il timone, e di seguire i suoi ordini. Egli cominciò a navigare in modo da cercar di trovare gli altri battelli e avvicinarli il più possibile, affinché, allorché venissero a cercarci al mattino, vi fossero maggiori probabilità di trovarci tutti. Era una bella notte stellata, senza luna, non vi era luce, il mare era calmo. A una certa distanza, il Titanic sembrava enorme, i saloni erano illuminati. Era impossibile credere che potesse capitare in disastro a un simile Leviatan. Verso le 2, vedemmo il Titanic affondare rapidissimamente nel mare. Prima che il ponte fosse completamente sott’acqua, il vapore si alzò verticalmente per tutta la sua lunghezza. I lumi, che avevano fino allora brillato, si spensero; le macchine ruzzolarono attraverso la nave con un rumore che si sarebbe potuto udire a parecchie miglia lontano. Non doveva ancora essere la fine della nostra meraviglia. Il Titanic rimase nella posizione verticale, e per forse cinque minuti vedemmo almeno 150 piedi della nave alzarsi sopra il livello del mare, diritta contro il cielo; poi, precipitando obliquamente, disparve sott’acqua. I nostri occhi avevano visto per l’ultima volta la nave gigantesca, sulla quale avevamo lasciato Southampton; poi il suono più spaventoso che orecchio d’uomo abbia mai potuto echeggiare: erano le grida di centinaia di nostri simili, lottanti nell’acqua diaccia, con la speranza di essere salvati, grida che, e noi lo sappiano, non ebbero risposta. Desiderammo veramente allora portare soccorso a coloro che annegarono, ma sapevamo che, facendolo, avremmo fatto capovolgere il nostro battello, e tutti avremmo perduto la vita». [La Stampa 20/4/1912].