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 1948  aprile 27 Martedì calendario

Una visita a Eliot

La Nuova Stampa, 27 aprile 1948


«Sono andato a trovare T.S. Eliot negli uffici della Casa editrice che dirige. Gli uffici si trovano in Bloomsbury, vecchio quartiere di Londra raggruppato intorno al massiccio edificio del British Museum. Un tempo, negli anni dell’altro dopoguerra, abitavano a Bloomsbury molti scrittori e intellettuali; oggi essi hanno trasmigrato altrove, a Chelsea, a Hampstead; i più, in campagna. Bloomsbury, labirinto quieto e decaduto di piazze alberate e di strade deserte, non ospita più che pensioni piuttosto squallide per studenti e stranieri di passaggio.

È un quartiere in cui la malinconia di Londra si sposa ad una aura dotta: piccole librerie, negozi d’arte, giornalai esotici. Le case hanno facciate lisce di mattoni bruni e rossi, con porte talvolta dipinte di verde brillante, rosso vermiglione o nero lacca, con grandi finestre dai vetri vuoti e luccicanti. È il quartiere dove abitava (e tuttora abiterà) la mesta signora che offre il tè a Eliot in una delle sue prime poesie: Portrait of a lady. La data della poesia è il lontano 1917. “Resterò qui ad offrire il tè agli amici” dice tristemente la signora al poeta che parte. A tutt’oggi, a Bloomsbury, la poesia è ancora attuale. La signora siede tuttora dietro i vetri di una finestra, in una di quelle case, servendo il tè agli amici.

Non so quale effetto faccia la poesia di Eliot ad un lettore che non sia mai stato a Londra. Probabilmente, come avviene, lo colpiranno gli aspetti più universali e più liberi di questa poesia così ricca e complessa. Eppure, per capire Eliot, la conoscenza di Londra e del mondo anglosassone è indispensabile. Eliot con tutta la sua origine americana e le sue esperienze francesi, è proprio il poeta di questa immensa e mesta città, di quest’impero così potente, così ragionevole e così rassegnato. Quante volte aggirandomi per gli sterminati parchi nebbiosi, mentre tutto intorno, dietro gli alberi, girava il carosello degli autobus rosso fiamma, o guardando al profilo bizzarro della città, oltre il Tamigi e i ponti, nella nebbia gialla di una giornata invernale, oppure scendendo con cuore oppresso per le scale mobili verso i budelli fragorosi della ferrovia sotterranea, quante volte ho pensato a Eliot come al cantore ultimo e consapevole di questa civiltà orgogliosa e crepuscolare, mercantile e poetica.

Pur attingendo ad una comune esperienza europea ed esprimendo gli stessi sentimenti di funebre e acre premonizione di tanti poeti continentali, Eliot si distingue da costoro per un chiaro accento epico. Gli giovò certamente, da una parte, la prospettiva che gli derivava dall’essere americano, quel poter vedere, cioè, da lontano e raccolto in una sola massa peritura, lo sforzo di tremila anni di civiltà occidentale, dall’altra l’aver eletto a seconda patria l’impero inglese in un momento particolarmente delicato e significativo. Momento di potenza massima che già lasciava presentire disastri e decadenze imminenti.

 Nella sua opera questo senso della potenza e della civiltà e della vanità della potenza e della civiltà si esprime non tanto in enunciazioni testuali e aperte quanto in un fitto tessuto di simboli e di riferimenti culturali che sono la grande novità della poesia eliottiana. In questo senso, grazie a questo singolare sincretismo culturale, Eliot è bene il poeta quasi alessandrino di un impero vasto come la terra.

Eliot è un uomo anziano, grande, un po’ curvo, magro, nitidamente vestito di scuro, dal viso severo e un po’ rigido. Si pensa, vedendolo, ad un ecclesiastico; e la dignità e sobrietà della sua voce, della sua espressione e dei suoi atteggiamenti suggerisce l’idea di un vescovo anglicano. “Com’è spiacevole incontrarsi con il signor Eliot” dice di se stesso in una sua poesia “con il suo viso di taglio clericale, il suo cipiglio, la sua bocca sussiegosa... come è spiacevole incontrarsi con il sig. Eliot, che tenga la bocca aperta o chiusa”. Questo autoritratto, che si potrebbe confrontare con altri famosi del secolo scorso, come per esempio quello del Foscolo, segna la differenza tra la poesia romantica e quella modernissima.

È l’autoritratto di un poeta cui una delusione metafisica e il senso della vanità di tutte le cose hanno tolto ogni illusione anche su se stesso. In realtà, poi, incontrarsi con il signor Eliot è un privilegio prezioso. In lui si riconosce la presenza misteriosa e commovente della poesia. Certamente la maggiore poesia che sia stata scritta oggi in questo nostro mondo così impoetico».


Alberto Moravia