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 2009  agosto 07 Venerdì calendario

C’è qualcosa che non torna nel­le strategie della Lega. Il partito di Bossi si prepara a scendere sempre più a sud, per esempio c’è uno sforzo notevole a Roma e nel Lazio (con consiglieri e co­ordinatori che vengono a dar consigli fin da Treviso) per pre­sentarsi alle prossime regionali e prendere, possibilmente, il 3%

C’è qualcosa che non torna nel­le strategie della Lega. Il partito di Bossi si prepara a scendere sempre più a sud, per esempio c’è uno sforzo notevole a Roma e nel Lazio (con consiglieri e co­ordinatori che vengono a dar consigli fin da Treviso) per pre­sentarsi alle prossime regionali e prendere, possibilmente, il 3%. Come si spiega allora la fac­cenda del tricolore italiano (nel­la foto Epa, il più grande mai srotolato), mandato metafori­camente in pensione, come già fece Bossi una decina d’anni fa, con la proposta di introdurre, addirittura per via costituzio­nale, le bandiere e gli inni regio­nali?

Come si spiega?
Bossi è inviperito. Aveva già preso a urla l’idea della senatri­ce leghista di far fare l’esame di dialetto ai professori («Che cosa sono queste menate? Non mi devono rompere le bal­le! »), adesso si ritrova per le mani quest’altra uscita del se­natore Bricolo, che è riuscito a farsi citare dai giornali tirando fuori l’idea di modificare l’arti­colo 12 della Costituzione e di introdurre le bandiere e gli in­ni regionali. Il risultato è que­sto: i quotidiani, per illustrare la proposta in un momento morto di notizie vere, hanno pubblicato queste famose ban­diere regionali, delle robe gra­ficamente imbarazzanti, s’è poi saputo che alcune bandie­re vennero disegnate in tutta fretta quando il presidente Scalfaro, in occasione del 4 no­vembre 1995, stabilì che era ve­nuto il momento di esporre in una sala del Quirinale i vessilli delle venti regioni. Non so se la sala con i vessilli esiste anco­ra. Se c’è, dev’essere cataloga­ta tra i musei degli orrori. Per non parlare poi degli eventua­li inni regionali. Ieri sono state rispolverate la bella gigogin e la bela madunina e ’o sole mio e calabrisella . Mamma mia. Poli­ticamente poi la cosa equivale a una barzelletta. Per modifi­care la Costituzione ci voglio­no i voti dell’opposizione. Ma se un pastrocchio simile non lo voterebbe neanche la mag­gioranza! Zero assoluto, non varrebbe neanche la pena di parlarne.

E allora perché ne parliamo?
Intanto per fare un po’ di sto­ria patria. E poi perché a guar­dar bene non si potrebbe trova­re un simbolo più padano del bianco, rosso e verde.

Lo inventarono al Nord?
La storia è questa: nel 1796 Na­poleone, che aveva già occupa­to Milano e Mantova, si prese Modena, Reggio Emilia, Bolo­gna e Ferrara. Fece tenere un congresso a Reggio Emilia e qui – era il 7 gennaio 1797 – si decise per la nascita della Re­pubblica Cispadana e l’adozio­ne del tricolore. Era un’imita­zione della bandiera della Ri­voluzione francese, col verde al posto dell’azzurro. Le stri­sce erano orizzontali. Forse la Cispadania non è abbastanza padana per Bricolo (in fondo siamo in Emilia, dove la Lega si è affacciata, con un bel suc­cesso, solo di recente). Ma la storia vera dei colori del no­stro vessillo rischia di far fare a questo parlamentare leghi­sta una figura ancora più barbi­na di quella che ha fatto.

Perché?
Si dice in genere che il verde – il colore che ci distingue dai francesi – simboleggerebbe la natura e i diritti di uguaglian­za e di libertà. Così prescrivo­no i codici massonici. Ma Phi­lippe Daverio, quando era as­sessore a Milano (assessore al­la Cultura e leghista), scoprì che il tricolore italiano non era nato a Reggio Emilia, co­me normalmente si crede e si legge, ma proprio a Milano: Napoleone consegnò alla Le­gione Lombarda, perché la adottasse nella prossima batta­glia contro gli austriaci (no­vembre 1796), il vessillo bian­co rosso e verde. Lo portavano i Cacciatori a Cavallo. Questo eroico drappo, sbiadito come si conviene, esiste ed è conser­vato nel Museo milanese di Storia del Risorgimento. Se ne conosce anche la storia: cadu­to in mano agli austriaci (alcu­ni di questi drappi stanno infat­ti nell’arsenale militare di Vienna), venne trovato per ca­so a Parigi nel 1927 dal conte Borletti che lo acquistò e rega­lò a Mussolini nel ”35. Nel ”37 Mussolini lo regalò al Museo del Risorgimento, in occasio­ne di una cerimonia per rievo­care le Cinque giornate.

Beh, non sposta di molto…
Aspetti. Il verde dei Cacciatori a Cavallo ha una motivazione completamente diversa dal verde massonico. L’ha spiega­ta lo storico Giorgio Rumi, con­fermando la primogenitura mi­lanese: «Il verde era il tradizio­nale colore della divisa della milizia urbana che durante l’antico regime, sia sotto gli spagnoli sia sotto gli austriaci, affiancava le truppe regolari». Capisce? Le ronde! Migliaia di milanesi reclutati nelle parroc­chie e comandate dai patrizi! Fecero ala a Napoleone quan­do il Generale entrò in città (15 maggio 1796) e Napoleone li ricompensò mettendo il colo­re delle ronde, cioè della mili­zia – il verde, proprio il verde – a completare il tricolore della prima repubblica italiana. [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 7/8/2009]