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 2010  maggio 17 Lunedì calendario

Ci sono voluti 31 morti in quattro giorni per portare la Thailandia in prima pagina, e ieri ci sono state altre cinque vittime

Ci sono voluti 31 morti in quattro giorni per portare la Thailandia in prima pagina, e ieri ci sono state altre cinque vittime. I feriti sono circa 250. La Thailandia è un paese molto lontano, un tempo si chiamava Siam, è il luogo delle fantasie di Salgari (che non c’era mai stato), siamo nella stessa penisola che comprende il Vietnam. possibile che parecchi italiani conoscano il Paese per esserci stati da turisti. La quasi guerra civile in corso dai primi di marzo sta colpendo proprio il turismo: nessuno andrà in vacanza laggiù se le acque non si calmano e va forse interpretato in questa chiave l’improvviso incrudelirsi dei governativi che da cinque giorni hanno preso a sparare sui ribelli e si rifiutano adesso a qualunque trattativa. Il turismo è essenziale all’economia thai, un paese non sottosviluppato, ma certamente povero: il reddito pro capite è di circa 7.400 dollari l’anno (qualcosa come 6.500 euro).

Ma i ribelli che vogliono? E chi sono?
I ribelli vogliono il ritorno di Thaksin (nome completo: Thaksin Shinawatra), un ex poliziotto divenuto magnate delle telecomunicazioni e finito in politica. Vincitore di tutte le elezioni a partire dal 2001, governava appoggiandosi ai contadini del Nord e in generale con una politica populista, molta demagogia, però anche qualche vantaggio per strati della popolazione normalmente ignorati dalle classi dominanti e dai benestanti. Nel 2006 un colpo di stato militare lo ha deposto e, dopo alterne vicende, governa adesso, sempre con la protezione militare, un primo ministro che si chiama Abhisit (nome completo: Abhisit Vejjajiva) e che non è stato eletto.

Che fine ha fatto quello di prima?
Thaksin dovrebbe trovarsi in Montenegro, paese di cui ha preso la cittadinanza e che l’altro giorno lo ha pregato di non metterlo in difficoltà sul piano internazionale. Thaksin infatti guida da lontano la rivolta, profittando di internet, di trasmissioni radio e televisive pirata, eccetera. Ci sono state molte manifestazioni anche l’anno scorso, ma senza arrivare alle tragedie di adesso, che sembrano un punto di non ritorno. Anche in questa fase, all’inizio i governativi sembravano intenzionati a non far degenerare lo scontro. Poi tutto è precipitato.

Non c’è un re in Thailandia? Come mai non dice niente?
Sì, la Thailandia è una monarchia. Il suo re è Bhumibol (nome completo: Bhumibol Adulyadej), adesso molto malato e forse in silenzio per questo. Bhumibol è il sovrano che sta sul trono da più tempo, regna infatti dal 1946. Ed è uno degli uomini più ricchi del mondo: Forbes gli attribuisce 35 miliardi di dollari di patrimonio. La Costituzione non gli dà nessun potere, e lo protegge da qualunque attacco mediante una forte legge sulla lesa maestà. Però, anche se la Carta nazionale lo vuole disarmato, il re gode di grande ascendente sui thailandesi ed è in realtà potentissimo: ha governato in questi 64 anni attraverso 17 colpi di Stato. Da questo semplice dato, capiamo che l’ex poliziotto Thaksin, primo capo di governo eletto con la maggioranza assoluta, quindi libero dalla necessità di far compromessi, con la sua politica attentissima ai desideri del popolo, con le sue aperture agli altrimenti ignorati contadini del Nord, con le sue televisioni e il suo strapotere nei mezzi di comunicazione di massa, s’è conquistato una simpatia che ha rischiato di mettere in pericolo la gloria del re. Ci sono posti, lei lo sa bene molto, dove può brillare un solo sole. Inoltre ci sono le classi a cui Thaksin non fa più i piaceri di un tempo. Per esempio, in quelle zone del mondo c’è un’abitudine da parte delle banche di condonare a un certo punto i debiti ai ricchi. Thaksin s’è rifiutato a questa pratica e s’è quindi messo contro la comunità finanziaria. Thaksin è talmente benvoluto, da almeno una parte dei thailandesi, che ha vinto anche nel 2007, dopo che c’era stato il golpe militare. Anche se ci sono molte accuse di brogli, relativamente a queste elezioni del 2007.

Questa storia così lontana ha qualcosa a che fare con noi?
Ian Buruma la collega alle crisi nostre per il fatto che laggiù, come qui, la politica ha poco potere, i veri centri decisionali (banche, lobbies eccetera) trovandosi chi sa dove. La rivolta thailandese si configurebbe quindi come domanda di politica da parte del popolo, un desiderio cioè che chi deve governare si reimpossessi degli strumenti che gli competono.

Come finirà?
Le camicie rosse si dicono disposte a negoziare, in presenza però di un rappresentante dell’Onu. Le camicie gialle, cioè i governativi, rispondono che non c’è bisogno di nessun negoziato, dato che le forze dell’ordine sparano non contro un’inerme popolazione civile, ma contro dei terroristi. La sensazione è che non sia semplice riportare la pace. [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 17/5/2010]