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 2011  gennaio 10 Lunedì calendario

Siamo impressionati da quanto sta accadendo in Algeria e Tunisia, dove da tre giorni i giovani sono in strada a reclamare pane e lavoro

Siamo impressionati da quanto sta accadendo in Algeria e Tunisia, dove da tre giorni i giovani sono in strada a reclamare pane e lavoro. Sono manifestazioni con molti feriti e molti morti. In Tunisia la polizia avrebbe ammazzato venti persone (i dati ufficiali dicono otto) durante i disordini scoppiati a Tala e Kasserine. A Sidi Bouzid un ambulante si è dato fuoco. In Algeria i morti degli ultimi giorni sono almeno quattro e i feriti 800 (tra cui 300 poliziotti). A Bordji El Kiffan e a Ain Taya sono state erette delle barricate, a El Biar si segnalano saccheggi, ad Annaba, Tebessa, Tizi Ouzu, Bejaja, Bourmedes, Bouira arrivano notizie di scontri tra ragazzi e polizia. L’inquietudine s’è estesa fino alla frontiera col Marocco (incidenti di Bechar e Maghnia).

È una rivoluzione politca?
È una rivolta del pane. I prezzi degli alimentari sono schizzati verso l’alto, in particolare quelli di olio e zucchero. In Algeria hanno tagliato un po’ di diritti doganali e tolta qualche tassa, in questo modo i prezzi sono calati anche del 40%. La rivolta tuttavia non cessa, perché la miseria è tanta e la speranza di un certo benessere futuro, qualcosa che somigli a quello che tunisini, algerini, marocchini vedono sulle nostre televisioni, è assai remota. Non si tratta qui di distinguere troppo un regime dall’altro, dato che lo schema è sempre lo stesso: una cricca ha in mano le leve del potere e della ricchezza, e concedendo solo un simulacro di democrazia (finte elezioni, finti parlamenti, finte libertà di stampa) continua a impinguare le proprie tasche. L’Algeria, in particolare, ha a disposizione risorse immense, specie se confrontate con una popolazione di appena 30 milioni di abitanti: 12 miliardi di barili di petrolio disponibili, ricchi giacimenti di gas e di oro. Patrimoni poco sfruttati, perché un altro dei pericoli per quei regimi è l’estendersi di una classe borghese istruita e capace che esprima a suo volta un ceto dirigente in grado di mettere in crisi i dominatori.

Si può dire che le rivolte attuali sono anche un effetto della crisi finanziaria occidentale?
Sì, la nostra crisi si sente anche in Africa. Meno commesse dall’estero, rimesse dagli immigrati inferiori al passato. L’Occidente ha poi la coscienza sporca sotto molti punti di vista: le due potenze mondiali – Cina e Stati Uniti – si disputano accanitamente il continente. Lei sa che i cinesi sono presenti ovunque, comprano e investono, facendo naturalmente stato a sé – come al solito – cioè senza che il loro apporto e il loro denaro si traduca in una spinta allo sviluppo. Il caso tipico è quello del Sudan.

Che cosa succede in Sudan?
Il Sudan meridionale sta votando da ieri un referendum per separarsi dal Sudan del Nord. Il problema è che il petrolio e l’acqua stanno soprattutto al Sud: che succederà tra una settimana quando le operazioni di voto saranno finite? E tra un mese, quando sarà ufficiale il sì alla nascita di una nuova nazione (la cinquantaquattresima di quel continente)? Il dittatore Bashir, l’uomo che perderebbe i territori meridionali, è lo stesso che ha organizzato i massacri nel Darfur. Stavolta deve subire, perché il referendum è il risultato di accordi internazionali. Ma la zona più ricca di petrolio è quella dell’Abyei, piazzata sul confine, mezza di sopra e mezza di sotto. Anche l’Abyey, tra qualche tempo, andrà a un referendum per decidere con chi stare. E nel Sudan meridionale ci sono 400 etnie, nemiche tra loro. Inoltre, questo nuovo paese, zeppo di greggio, non ha infrastrutture per sfruttare le sue ricchezze e l’unico oleodotto sbocca al Nord. Andrà al potere anche qui una cricca militare e analfabeta, del tutto priva di classe dirigente, che civetterà con l’Etiopia. Questo darà luogo a tensioni generali. I cinesi stanno col nord, gli americani col sud. Come si comporteranno? Anche altri paesi africani hanno un sud con cui fare i conti e l’esempio sudanese potrebbe essere molto contagioso. L’Africa è una bomba.

L’Islam c’entra qualcosa in tutto questo?
In Sudan, gli islamici stanno al nord, il meridione è tutto cristiano o animista. C’è un forte movimento migratorio verso il sud di sudanesi meridionali che stanno al nord. Sperano di trovare un po’ di pace, poveretti, ma temo si sbaglino. L’anno è disgraziato anche per il gran numero di elezioni previste in tutto il continente.

Dove si vota?
In Nigeria – il paese dei recenti massacri di cristiani -, dove, tra legislative e presidenziali, si andrà avanti fino ad aprile, in Uganda (febbraio), quasi certamente tra maggio e giugno nello Zimbabwe, in settembre in Egitto e abbiamo visto, con l’attentato di Alessandria, che lì le stragi sono già cominciate. Verso la fine dell’anno andrà al voto il Congo. Anche il Congo ha un problema con i sepratisti: se il Katanga, sull’esempio del referendum sudanese, si eccitasse… [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 10/1/2011]