vanity, 10 febbraio 2011
La rivoluzione egiziana
• Per tutto il giorno i militari avevano annunciato che in giornata il raìs si sarebbe dimesso, «stasera vi daremo una buona notizia» ripetevano gli ufficiali al popolo perennemente riunito nella piazza Tahrir. Invece, poco dopo le 21, Mubarak appariva sui piccoli schermi del paese e annunciava che avrebbe gestito la transizione restando in carica fino al momento delle elezioni. Era accaduto che il re dell’Arabia Saudita, Abdullah, aveva promesso di sostituire gli americani negli aiuti, poco meno di tre miliardi di dollari l’anno. Questo aveva fatto credere al raìs di poter ancora resistere. Ma si trattava di un asse fragile, durato infatti poche ore. Venerdì 11 febbraio, alle cinque del pomeriggio, mentre una folla enorme premeva nella piazza Tahrir, è andato in tv il suo vice, Omar Suleiman, che parlando in nome di Dio misericordioso ha annunciato che il presidente Hosni Mubarak ha deciso di dimettersi. Il potere, come previsto, è passato ai militari, le cui intenzioni sono per il momento da decifrare. Essi hanno subito abrogato la costituzione, sciolto il Parlamento e preteso il ritorno a casa di tutti i manifestanti, che hanno in genere obbedito. I generali promettono di condurre il paese alle elezioni, ma i dubbi sono tanti. Chi ha mai visto lasciare un potere conquistato senza colpo ferire e persino con l’appoggio della popolazione? E per instaurare una democrazia all’Occidentale che in Egitto probabilmente non conviene a nessuno di quelli che contano?
• La rivoluzione in Egitto, provocata da quella tunisina, rischia di gettare nel caos tutta l’area, afflitta da problemi di sovrapopolazione e da una miseria resa più acuta dalla crisi globale. Gli algerini sono già scesi in piazza e annunciano una grande manifestazione per sabato, in Marocco un giovane s’è dato fuoco, in Yemen le proteste non si fermano. L’Economist, incrociando l’indice di giovinezza delle popolazioni (un fattore storicamente destabilizzante), il numero di anni in cui il dittatore locale è al potere, il livello di corruzione, il tasso di democrazia, il reddito medio eccetera, ha mostrato che le percentuali di una rivoluzione sono l’ 83% in Yemen, il 65% in Libia, il 64 in Siria, il 59 in Oman, il 57 in Arabia Saudita, il 50 in Algeria, il 45 in Giordania, il 42 in Marocco, il 38 in Bahrein, il 36 in Libano, il 24 negli Emirati. L’alto rischio libico è confermato da un discorso, tenuto improvvisamente domenica scorsa, da Gheddafi: invito all’unità del mondo musulmano, contro il potere bianco degli occidentali che vogliono distruggere – secondo lui – il potere verde dell’Islam. In un altro indice, redatto dal Sole, si calcola la probabilità di una rivolta, in una scala da 1 a 10, attraverso l’incrocio di otto parametri: violenza politica, porzione di reddito che le famiglie destinano all’acquisto di generi alimentari, inflazione, tasso di occupazione giovanile, utilizzo di Internet, indice di sviluppo umano (accesso a servizi sociali, alla sanità ecc.), indice Moody’s di efficienza del governo, tasso di corruzione. Il paese più a rischio risulta qui la Siria (6,1), seguito da Algeria (6) e Giordania (4,5). Il paese più a rischio del mondo è la Nigeria (9,2). Tutti questi calcoli e previsioni spiegano perché i più preoccupati della crisi egiziana sono gli israeliani, che temono una saldatura tra tutti i movimenti fondamentalisti mediorientali e il rafforzarsi dell’alleanza alQaeda-Teheran. A quel punto, l’ipotesi di annientare Israele, sempre gridata in Persia, potrebbe farsi davvero concreta. [Giorgio Dell’Arti]