vanity, 18 gennaio 2010
Terremoto ad Haiti
• I morti di Haiti potrebbero
essere duecentomila. Sabato notte i soccorritori si sono fatti largo per la
prima volta tra le macerie che chiudono Port-au-Prince e hanno preso la strada
che porta alle campagne per vedere che cosa è accaduto nei paesi vicini. Hanno
trovato una quantità di villaggi da cinquemila, diecimila abitanti interamente
distrutti, con uomini e donne che da una settimana vivono in mezzo alla strada,
accampati su tonnellate di detriti da cui escono piedi, mani, grida. Ogni cosa
è sovrastata dall’odore dei morti in decomposizione. Di queste campagne
desolate e ignorate finora dai media si comincia a prender coscienza solo ora.
Le prime cronache, lette sui giornali di lunedì mattina, riferiscono ad esempio
della città di Leogane, 17 chilometri da Port-au-Prince, epicentro del sisma,
forse diecimila, forse trentamila abitanti, uccisi dal terremoto otto volte su
dieci. Un posto dove non è rimasto in piedi niente e dove centinaia di persone
sopravvissute alla scossa sono poi morte di fame, di sete o per le ferite
riportate. Alcuni si sono rifugiati nei campi di canna da zucchero. Tutti,
vedendo arrivare il convoglio dei militari, sono sbucati fuori dal nulla a
chiedere acqua o cibo.
A Port-au-Prince, intanto, bande di saccheggiatori puntano ai supermercati o ai
cadaveri a cui è ancora possibile frugare in tasca. Passano però i caschi blu
dell’Onu e gli sparano addosso ammazzandoli. Altre volte è la stessa folla di
haitiani a prenderli e a linciarli. A quanto si capisce, c’è poco da fare: gli
sciacalli sono centinaia, la posta in gioco è la sopravvivenza, il saccheggio
non potrà essere fermato fino a che ci sarà qualcosa da prendere.
Gli americani, per volontà di Obama, si sono impadroniti dei soccorsi (a lunedì
i miliardi di dollari messi a disposizione dal resto del mondo erano quasi
600). Gli americani hanno fatto arrivare finora duemila soldati e ne porteranno
altri diecimila. I problemi, anche in questo caso, sono parecchi. Partecipano
in qualche modo alle operazioni di salvataggio una trentina di Paesi e una
quantità non meglio precisata di organizzazioni umanitarie, tra cui Medici
senza Frontiere. L’aeroporto è uno solo e i voli in arrivo sono troppi. Per
esempio a un cargo di Medici senza frontiere che trasportava un ospedale da
campo è stato proibito l’atterraggio, l’aereo è dovuto andare a San Domingo e
trasportare la struttura via terra. Trenta ore di ritardo, un’eternità in
quelle condizioni. Ci vorrebbe un forte coordinamento centrale, qualcosa che
assomigliasse a una specie di governo. Ma parlamentari e ministri sono quasi
tutti morti e fino al momento in cui scriviamo un accordo internazionale per
decidere come fare non c’è. I soccorritori si intralciano uno con l’altro, la
folla dei disperati da salvare è anche un ostacolo per tutti, la grande spinta
del cuore che muove i volontari si aggroviglia da sé nel bisogno di dare
contemporaneamente soccorso a chi è ferito, salvezza a chi sta ancora sotto le
macerie, sepoltura a chi è morto.
La necessità di far presto induce ad amputare sbrigativamente gli arti
fratturati.
• Il sisma delle 16.53 di martedì 12 gennaio 2010 (le 22.53 da noi),
settimo grado della scala Richter, 35 volte più potente dell’atomica che ha
distrutto Hiroshima, è quello che ha più devastato Haiti nella sua tormentata
storia geologica. L’isola si trova infatti in una delle zone più a rischio
della Terra, sospesa su una piccola placca stretta fra altre gigantesche, e ha
subìto negli ultimi cinquecento anni almeno 12 terremoti più forti dell’attuale
(superiori al grado 7,5 della scala Richter). Questo di adesso però aveva un
epicentro profondo appena una decina di chilometri, collocato a una quindicina
di chilometri dalla capitale. L’effetto è stato catastrofico per questo.
I geologi chiamano ”placche” le grandi piattaforme in cui è frantumata la
crosta terrestre. Sono tredici in tutto, ma ciascuna è a sua volta percorsa da
faglie e rotture. Ognuno di questi pezzi confligge con gli altri, le placche si
urtano, si infilano una sotto l’altra, si muovono incessamente galleggiando sul
magma. Questa irrequietezza, che causa un miliardo di terremoti l’anno, produce
una quantità immensa di energia che si scarica ai bordi di ciascuna formazione.
Haiti in particolare naviga sulla placca caraibica in direzione est a una
velocità di 70 millimetri l’anno. A nord si scontra con la grande placca
nordamericana (velocità: 2 centimetri l’anno), a sud con la placca sudamericana
(velocità: 1,5 centimetri).
• Finora, avendo come riferimento la sola capitale, le persone colpite in
qualche modo dal terremoto sono tre milioni. A Port-au-Prince risultano
distrutti, tra gli altri, il parlamento, il palazzo presidenziale, il quartier
generale dell’Onu, l’ambasciata di Francia, i ministeri degli Interni e della
Sanità, l’ufficio imposte, la cattedrale, l’arcivescovado, sotto le cui macerie
è stato trovato il corpo di monsignor Serge Miot, arcivescovo della città. Non
esistono più gli hotel Montana, Christopher e Karibe, il Carribean market, il
Mediacom. Sono andati in briciole tre ospedali su quattro e quello ancora in
piedi respinge i feriti perché pieno. Fra i tre ospedali polverizzati c’è
quello della Trinitè. Distrutto anche il commissariato Delmas 33 e l’annessa
prigione. I detenuti rimasti vivi (quattromila persone) sono fuggiti. Il primo
giorno, l’antropologo Omar Thomaz, che sta sul posto, ha riferito: «Per le
strade della città corrono persone bruciate, seminude. Alcuni cantano. Sentiamo
canti religiosi». Il secondo giorno, Fiammetta Cappellini, che vive lì, fa
parte di una ong e ha un figlio di due anni rimpatriato domenica assieme ad
altri dodici italiani, ha detto: «Oggi c’è il sole. Il problema principale sono
i morti da rimuovere». I cadaveri infatti sono rimasti per molti giorni in
mezzo alla strada, centinaia e centinaia di corpi in decomposizione sulle vie
frequentate da tutti, scavalcati con indifferenza dai passanti, evitati dalle
automobili. Il terzo giorno, con questi corpi messi uno sull’altro, sono state
erette almeno due barricate da gente allo stremo che chiedeva un qualche
intervento di una qualche autorità.
• Gli italiani ufficialmente residenti ad Haiti sono circa 190. Finora
ne sono stati rintracciati circa 170. Ne mancano quindi all’appello una
ventina. L’unico identificato finora è Gigliola Martino, 70 anni, nata a
Port-au-Prince da genitori italiani e deceduta in ospedale, dove l’avevano
portata per curarla delle ferite. Almeno tre italiani potrebbero essere, magari
ancora vivi, sotto le macerie. Antonio Sperduto dovrebbe trovarsi sotto il
cemento del Caribbean Supermarket (come ha scritto l’inviato della Stampa
lunedì mattina «lui non c’è ancora tra i vivi tirati fuori. Ma neppure tra i
morti»). Altri due, Cecilia Corneo e Guido Galli, potrebbero stare sotto le
macerie dell’hotel Montana, la cui proprietaria, Nardine Cardoso di 62 anni,
appena tirata fuori dai sassi e dal cemento (quattro giorni di sepoltura) ha
esclamato: «Continuate a cercare perché io laggiù sentivo in lontananza delle
voci. Almeno fino a poco fa. Sempre più deboli, è vero, ma continuavano a
chiedere aiuto. Fate presto, per favore…». [Giorgio Dell’Arti]