vanity, 22 febbraio 2010
Il Festival vinto da Scanu
• Valerio Scanu ha vinto la sessantesima edizione del Festival di Sanremo, cosa di cui a quanto pare non importa niente a nessuno (la canzone si chiama Tutte le volte). Il Festival, aiutato dalla non-controprogrammazione di Mediaset, ha avuto un grande successo di pubblico, con punte di oltre il 70 per cento l’ultima sera, più di quanto avesse ottenuto l’anno scorso la conduzione di Bonolis, che pure era stata giudicata straordinaria. Sul lato più propriamente spettacolare vanno ricordati: la Clerici trionfante in ricercati abiti-lampadario, una gran scenografia senza scale (merito del bravo Gaetano Castelli), Morgan il tossico che forse viene e forse no (poi no), Nilla Pizzi e i suoi 91 anni, il balletto del Moulin Rouge, la regina di Giordania, Cassano che dice ”ammazza!” quando la Clerici si sfila la giarrettiera (140 mila euro di ingaggio), Jennifer Lopez che è venuta in cambio di 300 mila euro e ha affittato l’intero primo piano del Metropole per alloggiare le trenta persone del seguito e sistemare il guardaroba spedito da Dolce & Gabbana (dieci bauli e un’intera suite). Sul lato politico e del costume va invece sottolineata, con sconcerto, la regìa occulta che ha eliminato al primo giro l’orrenda Italia amore mio di Pupo-Savoia-Canonici (detto il Tenore) recuperandola poi col televoto e facendola piazzare alla fine addirittura seconda. La regia occulta ha persino dato ordine agli orchestrali di indignarsi e di lanciare gli spartiti contro i reprobi. Gli orchestrali, oltre tutto con diritto di voto, sono però dipendenti Rai e fanno necessariamente quello che gli si dice. Infatti, mentre inscenavano la finta protesta, a cui i giornali sempre assetati di titoli hanno perfino creduto, ridevano a crepapelle. L’insieme voleva rappresentare la lotta della Destra contro gli intellettuali, i quali respingono con la puzza sotto il naso i cosiddetti valori autentici, ma si vedono poi smentiti dal popolo (televoto), il cui cuore palpita invece all’unisono con quello del Governo. Il passaggio culmine di questo preteso Inno della Destra recita: «Io credo nella mia cultura e nella mia religione/per questo io non ho paura/ di esprimere la mia opinione» e lo intonava infatti il Savoia, il quale ha poi confessato ai giornalisti di voler fare da grande non il re, ma il conduttore tv. Un insieme piuttosto ripugnante e da cui hanno preso le distante anche quelli di destra. I finiani di Farefuturo si sono addirittura sdegnati: «Non sono solo canzonette. Sono etichette appiccicate addosso agli italiani. Sono tatuaggi fatti a forza sulla pelle di una destra che in gran parte non è più così, che non vuole essere così». Su questa maccheronata è poi stato sparso l’insipido parmigiano di Maurizio Costanzo, che ha demagogicamente portato in video gli operai di Termini Imerese in modo da dare un senso alle inquadrature degli esibizionisti Bersani e Scajola e raccogliere il più facile dei consensi su una questione, invece, drammaticamente difficile. Infine i capi di Sanremo hanno mostrato con quale facilità si possono stabilire le regole e nello stesso tempo infrangerle: l’imbarazzante pistolotto di Lippi a favore del canto italiota di Pupo-Savoia oppure lo sproloquio di mezz’ora concesso a Cocciante per reclamizzare uno spettacolo in cui ha le mani riccamente in pasta anche il direttore artistico del Festival Gianmarco Mazzi. [Giorgio Dell’Arti]