vanity, 17 marzo 2008
Rivolte in Tibet
• Una settimana di rivolte in Tibet – provocate dal 49° anniversario della rivoluzione del ’59, dalla decisione americana di depennare la Cina dalla lista dei dieci paesi che calpestano i diritti umani, e dalla lunga oppressione di Pechino – sono finite con un centinaio di morti, l’indifferenza sostanziale del mondo e la rassegnata constatazione dei tibetani che contro il gigantesco padrone non c’è probabilmente speranza. I cinesi invasero il Tibet nel ’51, repressero nel sangue la rivolta del ’59 mandando in esilio il Dalai Lama, e operarono da subito secondo un metodo secolare: non semplicemente sottomettere, ma annientare il popolo conquistato. Questo annientamento procede col seguente metodo: si invade il Paese con centinaia di migliaia di uomini di etnia han (sono han il 95% cento dei cinesi, che nei milleni hanno ben badato di non mescolarsi con nessuno), si annettono all’etnia han i figli delle coppie miste, si cancellano per quanto possibile i segni delle antiche tradizioni locali, si apre il Paese agli apporti della cultura dominante, specialmente quella che si inocula attraverso le trasmissioni televisive. Per raggiungere il suo obiettivo, Pechino ha fatto investimenti imponenti e tutti in perdita: una ferrovia che s’arrampica fino a Lhasa (tremila metri d’altezza) e che serve all’invasione dei coloni, un’autostrada che arriverà fino a 5000 metri, le antenne della tv portate fino ai più sperduti villaggi dell’altopiano, in modo da stordire e cinesizzare i solitari pastori di pecore e di yak. Ai sei milioni di tibetani che vivono su tre milioni e mezzo di chilometri quadrati (un’estensione pari a tutta l’Europa occidentale), Pechino ha sovrapposto otto milioni di coloni. Gli han sono oggi maggioranza. Le due etnie non si sono però mescolate. I tibetani non parlano cinese e vivono in zone separate da quelle degli invasori. Per contro gli invasori applicano al popolo sottomesso ogni forma di discriminazione.
I rivoltosi hanno acceso i riflettori su questa situazione ben nota, ma con scarsi risultati. Speravano che, nell’anno delle Olimpiadi, Pechino non avrebbe avuto il coraggio di far carneficine e forse contavano sulla solidarietà del mondo. Ma il mondo, senza eccezioni, ha fatto capire che la Cina è troppo potente e che l’eventuale boicottaggio dei Giochi «non servirebbe a niente». Bush, Sarkozy, il leader europeo Solana hanno confermato che l’8 agosto saranno presenti all’inaugurazione delle Olimpiadi. Il Dalai Lama, dal suo rifugio di Dharamsala in India, ha convocato una conferenza stampa per ribadire che il suo popolo chiede solo maggiore autonomia e la fine del genocidio culturale. I cento morti e le parole disperate del papa buddista hanno però prodotto solo qualche pezzo di colore, qualche colto articolo di analisi sociopolitica e parecchie invettive di associazioni e giornalisti sensibili di cuore. Niente di più.
• Lo strapotere cinese – così evidente nella rivolta tibetana – fa da specchio al drammatico evolversi della crisi americana. Si tratta sempre degli effetti ultimi provocati dai subprime: prima è saltato il fondo del Carlyle Group dedito agli investimenti immobiliari (si chiama Carlyle Capital Corporation, affettuosamente abbreviato in CCC, distrutto da un crollo del 90 per cento in Borsa e da perdite per 16 miliardi di dollari preparate da debiti pari a 31 volte il capitale), poi è toccato alla Bear Stearns, quinta banca per dimesioni tra le banche d’investimento statunitensi e protagonista della crisi fin dallo scorso agosto: mentre la bufera arrivava, i suoi capi stavano a Nashville a giocare a bridge. Giovedì scorso ha annunciato di non aver più soldi (ciò che in gergo viene eufemisticamente detto ”crisi di liquidità”) e la Federal Reserve, pur di non farla fallire immediatamente, cosa che avrebbe potuto innescare una catena non si sa quanto lunga di crac, è intervenuta con Morgan Chase praticamente annunciando che si sarebbe fatta carico di tutte le perdite. un modo di procedere del tutto nuovo e legalmente giustificato da una legge del 1932 varata per far fronte alle crisi di sistema (c’era appena stato il Ventinove). Gli orientali – cioè i cinesi, i fondi di Singapore, gli arabi – sono pronti a comprare, cioè a impossessarsi per via finanziaria degli Stati Uniti e, magari più in là, dell’intero Occidente. Domenica 16, prima della riapertura dei mercati, Bernanke, il governatore, ha ancora tagliato il tasso di sconto per le banche che hanno bisogno di soldi e che si impegnano a restituirli in poco tempo (’a breve”). Questo aggrava un altro problema: il tasso fissato a Francoforte è ormai il doppio di quello americano, il valore dell’euro sta paralizzando le esportazioni europee, l’Oriente ci manda inflazione, gli Stati Uniti depressione, ecc. [Giorgio Dell’Arti]