vanity, 30 marzo 2009
I tre referendum elettorali
• I lettori ricorderanno che un comitato capeggiato dal giurista Giovanni Guzzetta e da Mario Segni ha indetto un referendum sulla legge elettorale che avrebbe già dovuto aver luogo l’anno scorso e che venne poi rinviato al 2009 per via dello scioglimento anticipato delle camere e dello svolgimento delle elezioni politiche. I referendari, tagliando abilmente certe parti dell’attuale legge elettorale, si propongono, in caso di vittoria dei “sì”, di dare il premio di maggioranza solo alla lista più votata e non alla coalizione vincente (non ci sarebbe quindi più alcuna convenienza ad allearsi), di vietare allo stesso candidato di presentarsi contemporaneamente in più collegi, di precludere l’accesso in Parlamento alle formazioni che non raggiungano il 4% alla Camera e l’8% (regionale) al Senato. La Lega, i cui voti non servirebbero più a far maggioranza, è contraria e il ministro Maroni ha disposto che gli italiani siano chiamati al voto in un giorno diverso da quello in cui voteranno per le Europee, per le Amministrative e per i relativi ballottaggi. Questo, nonostante un aggravio di costi di 400 milioni di euro, quanto cioè risparmieremo grazie all’ora legale appena entrata in vigore. In questo modo i leghisti pensano che sarà più difficile raggiungere il quorum del 50%, indispensabile perché l’eventuale vittoria dei “sì” abbia effetto. Fini, che è stato un referendario della prima ora, ha cominciato a mettersi di traverso sabato scorso, ricordando a Berlusconi che, tra l’altro, la vittoria del sì nei tre referendum spingerebbe ulteriormente il Paese sulla strada del tanto auspicato bipartitismo. La Russa gli è andato dietro domenica, segno che nelle prossime settimane questo sarà probabilmente un tema di scontro tra i leghisti An e gli ex di An, sempre desiderosi di una loro specificità. Berlusconi anche in questo caso è stato zitto: pure il referendum è un guaio. [Giorgio Dell’Arti]