8 aprile 2005
Il vento e il coro «Santo, Santo»: l’applauso senza fine per Wojtyla
Città del Vaticano - Gli ultimi due uomini a vedere il volto di Giovanni
Paolo II – ultimi dei tanti sfilati in questi giorni in San Pietro, ultimi dei
400 milioni che secondo complicati calcoli l’hanno visto di persona in questi
ventisei anni – sono stati, alle sette e mezzo di ieri mattina, il maestro
delle celebrazioni Piero Marini e il segretario Stanislao Dziwisz. Si sono
alzati sulla punta dei piedi, Marini alla destra Dziwisz alla sinistra del
Papa, per guardare dentro la bara di cipresso, poggiata su un catafalco rosso.
Nessuno dei due ha pianto, concentrati com’erano nel compito solenne di
coprirlo, il volto, con un velo bianco di seta, di allontanarlo per sempre, di
separarlo dai cari e dal mondo. Piangevano in silenzio tutti gli altri attorno,
racconta un testimone: Sodano, Sandri, Ruini, Ratzinger, altri sei porporati,
quattro canonici della basilica e i «familiari» del Pontefice, il secondo
segretario Mietek, suor Toviana. È la prima volta che si tiene la «velatio». Si
recita una preghiera composta per l’occasione: «O Signore, il suo volto veda
ora il tuo volto paterno, il suo volto sottratto alla nostra vista contempli la
tua bellezza». Giovanni Paolo II è stato un Papa molto amato e molto pianto,
anche dalla Curia. Questo è il congedo dei principi della Chiesa al loro
sovrano; affidato al giovane prelato - Marini - che il 16 ottobre 1978 gli
reggeva la croce quando si affacciò per la prima volta in Piazza San Pietro, e
al fedele segretario che lo sorresse quando in piazza un sicario gli sparò. La
folla ha preso invece commiato da Giovanni Paolo II a mezzogiorno. Mancava
un’ora alla fine del funerale, fermatosi a lungo per la comunione. Quando
Ratzinger ha fatto per riprendere, si è alzato un applauso che pareva non
dovesse finire, come a prolungare il rito, a trattenere Wojtyla ancora un poco;
e infatti non è sfumato ma si è interrotto di colpo, quando dopo sei minuti
Ratzinger ha chiamato alla preghiera e il battimani si è mutato in un «Per
Cristo nostro Signore, amen». Più tardi, quando i sediari hanno riportato la
bara nella basilica, inclinandola in modo che i fedeli potessero vederla
un’ultima volta, sono cominciati - tra lo sconcerto dei polacchi - i cori:
Giovanni Paolo! Ma quell’applauso imprevisto, commosso eppure festoso, è stato
il vero addio del popolo al suo pastore, e ha sciolto la tensione di una
mattinata carica di segni inquietanti. Sole pallido di primavera, all’alba. Poi
fredde nuvole d’autunno. Quindi un gelido vento invernale, che ha concelebrato
la cerimonia e l’ha resa imprevedibile, facendo svolazzare le vesti dei
cardinali, cadere i loro copricapi, capovolgere per due volte l’immagine del
Cristo risorto sul portale, disperdere l’incenso in cielo, girare le pagine del
Vangelo appoggiato sulla bara (poi sarà chiuso), alzare le code dei frac dei
gentiluomini vaticani, rabbrividire i potenti della Terra in giacca nera e
sventolare le bandiere dei loro elettori o sudditi. Il sole è tornato estivo
come nei giorni scorsi per la benedizione della bara, come se il tempo del rito
racchiudesse tutte le stagioni; poi è tornato a coprirsi. Tra la macchia scura
delle autorità, la rossa dei cardinali, la viola dei vescovi, la bianca dei
parroci romani, la gialla dei fotografi in pettorina, la sola nota multicolore
veniva dalla piazza: bandiere messicane, spagnole con il nastrino nero come
dopo la strage di Madrid, italiane (rare), europee (una), svizzere, delle isole
Samoa, e poi croate e jugoslave, popoli che si sono combattuti, americane e
arcobaleno, potenze che si sono confrontate, quasi un sigillo della vocazione
universale del pontificato; e decine di vessilli polacchi bianchi e rossi,
drappi storici con l’aquila degli Jagelloni, bandiere di Solidarnosc. Sino
all’applauso, la folla era apparsa diversa da quella che aveva vegliato il Papa
l’ultima notte e aveva pregato per lui domenica scorsa. Né canzoni, né cori
ritmati, né chitarre. E’un funerale. L’happening è durato sino alla sera prima,
borgo Pio trasformato in bivacco, notte all’addiaccio o in tenda, preghiere e
bevute. All’alba la piazza era vuota. Ripulita di fretta: in un angolo del
colonnato, sotto le finestre dell’appartamento papale, sono ammucchiati
migliaia di disegni infantili, lettere, cartelli di commiato, lumini, peluches.
L’organizzazione italiana si rivelerà perfetta, ma com’è ovvio ha un prezzo.
Alle 8 si aprono i primi varchi, però avanzare è difficile, «in questa via può
passare solo la Abc», reporter concorrenti si azzuffano con le forze
dell’ordine; in realtà poliziotti e carabinieri sono quasi tutti cortesi,
semmai intimiditi dalla macchina vaticana e dai modi sbrigativi di chi esercita
un potere irresponsabile. Alle 10 e 04 le campane accompagnano l’arrivo della
bara ma quasi non si sentono, sovrastate dalle pale di un elicottero sulla
verticale. Sul tetto della basilica tra la croce del Cristo risorto e la croce
di Sant’Andrea c’è una telecamera. Il Gianicolo è pieno di riflettori piazzati
sulle terrazze dai network americani. Sul tetto sopra il Portone di Bronzo,
diplomatici, cronisti, nobildonne in lutto totale che si fotografano l’un
l’altra, suore raccomandate, pellegrine polacche in costume tradizionale e il
laico più potente in Vaticano, Guzman Carriquiry Lecour. Le sedie dei cardinali
sono ancora vuote, tranne una sedia a rotelle: Andrej Deskur, l’amico di
Wojtyla, il compagno di studi in seminario, non se l’è sentita di assistere
alla chiusura della bara, è uscito sul sagrato, un seminarista gli tiene
compagnia. La tv non rende i segni della tensione e della pietà, cattura volti
festosi e sorrisi tra le lacrime; sui megaschermi appaiono gli striscioni che
reclamano Wojtyla «subito santo»; ma l’atmosfera in piazza non è il dolore
lieto della prima messa, né la meraviglia antica della traslazione di lunedì, e
neppure la dolorosa voluttà dell’ultimo sguardo in fondo a una coda infinita.
Ci sono nel vento la tensione di un evento storico, i primi segni di devozione
per il Papa defunto, e la grande rivendicazione dell’identità cristiana;
accentuata dal contrasto tra la solennità del rito e la semplicità del legno
adagiato sul tappeto, tra il carisma di Wojtyla che oggi giunge al suo apice e
la povertà di cui la bara uguale a quella di Paolo VI è simbolo. La solennità
del rito contrasta con la semplicità del legno Dovunque bandiere polacche
mentre sole e nuvole si alternano l’applauso senza fine per Wojtyla Joseph
Ratzinger ha saputo raccogliere e tenere insieme le suggestioni della
cerimonia. In un’omelia porta con accento tedesco eppure dolce, suadente, senza
errori a parte «kvando» per quando e «Petro» per Pietro, come di chi parla
l’italiano traducendo dal latino, il decano dei cardinali ha salutato per primi
«cordialmente tutti coloro che sono venuti qui, o nelle tante piazze di Roma»;
e solo dopo ha rivolto un «deferente pensiero ai capi di Stato». Ha lasciato
sapientemente sfogare gli applausi. Ha ripercorso le molte vite del Papa,
raccontato il suo amore per il teatro e la poesia che gli ha consentito di
infondere «nuova freschezza all’insegnamento del Vangelo e risvegliare una fede
stanca», il lavoro in fabbrica che gli ha dato consuetudine con la fatica, il
dono di sé e del suo corpo malato «nelle difficili prove di questi mesi». E ha
chiuso dimostrando che pure il custode della tradizione, il teologo del rigore,
l’anziano cui i cardinali riconoscono la primazia intellettuale sa commuovere i
fedeli: «Nella sua ultima domenica di Pasqua, il Papa si è affacciato ancora
una volta alla finestra del Palazzo apostolico, per benedirci. Possiamo essere
sicuri che il nostro amato Papa è ora alla finestra della casa del Padre; ci
vede; e ci benedice». Deskur piange, la sua sedia a rotelle è l’unica cosa
immobile nel flusso dei 164 celebranti, insieme con la bara: punto di fuga di
ogni prospettiva, centro perfetto della scenografia del colonnato e della
folla. È come se Wojtyla concelebrasse l’ultima messa, e ne facesse metafora
del pontificato: la cristianità è unita attorno al feretro benedetto dal
patriarca copto Stephanos Ghattas, dal patriarca ortodosso Bartolomeo I, dal
primate anglicano Rowan William. Assistono sikh, hindu, islamici. Si prega in
spagnolo, francese, swahili, filippino, tedesco, inglese, polacco, portoghese,
latino. I cardinali chiamati a sceglierne il successore non nascondono
l’angoscia, il polacco Franciszek Makarski si copre il volto con le mani, la
voce di Ruini si incrina appena mentre pronuncia la supplica della chiesa di
Roma: «O Dio, accogli il tuo servo e nostro Papa...». Stanislao deglutisce di
continuo. Benedizione in greco, si distinguono «soter», «Tyrie», e ancora
«Kyrie eleison». Uno scroscio di pioggia sulla bara, poi il sole, quindi le
nuvole; il vento riporta in piazza il profumo dincenso; segni che appartengono
a chi li interpreta. La folla scandisce: «Santo, santo!». Alle 14 e 20, mentre
i polacchi allargano sulla piazza le bandiere di Solidarnosc e ne fanno mensa
per il pranzo - gli zaini sono pieni di santini e magliette con il volto del
Papa ma anche di aringhe, salsicce affumicate, tonno in scatola, barbabietole,
pane con semi aromatici -, i cardinali scendono alle Grotte vaticane cantando
salmi. Li attende il momento più terribile di ogni funerale: la chiusura
definitiva della cassa, la tumulazione. Il funerale da un milione di fedeli,
sparso per le piazze di Roma e del mondo dalla tv, è finito. L’atmosfera è
raccolta, da esequie private, da cappella di famiglia: gran parte dei cardinali
rimane fuori dalla cripta, la stessa che accolse Giovanni XXIII, tra le tombe
di due regine, Cristina di Svezia e Carlotta di Cipro. La bara di cipresso è
posta in una seconda bara di zinco, saldata a una terza in noce. Ecco i simboli
che devono rendere definitivo il distacco, sancire il passaggio a una sfera
altra, scavare il vuoto che il conclave dovrà riempire. I nastri rossi che
legano il feretro. I sigilli della Camera apostolica, della Prefettura della
casa pontificia, dell’Ufficio delle celebrazioni liturgiche, del Capitolo
vaticano. Il coperchio con il nome e lo stemma di Wojtyla, uno scudo con la
croce e la M di Maria, «cui era tanto legato dopo aver perso la mamma da
ragazzo» ha detto Ratzinger, e il motto «totus tuus». Il notaio del Capitolo
redige e legge l’atto della tumulazione. Ma la prova più terribile per i
principi orfani del sovrano deve ancora venire. I saldatori. Sei tecnici
vestiti da cerimonia. Vestito e cravatta scuri, ha raccomandato il cerimoniale.
Cinque hanno la camicia bianca, uno azzurra. Fanno in fretta. Saldano il
coperchio alla bara di noce con la fiamma ossidrica. Legano il feretro con una
corda, la assicurano con un gancio alla carrucola, la calano lentamente, in un
cigolio coperto dalla preghiera dei cardinali: «Salve Regina...». Non è la
«nuda terra» ad accogliere Wojtyla, tantomeno la terra di Wadowice portata dai
concittadini; è la roccia imbiancata delle grotte. Non c’è sarcofago, la sua
volontà è comunque rispettata. Chi dovesse aprire la cassa tra anni, troverà la
borsa rossa con le monete del pontificato che Marini ha deposto ai suoi piedi,
e leggerà il rogito in latino, impossibile sunto di una lunga biografia: le
orme di Wojtyla nella storia. Chi da martedì scenderà nelle Grotte vaticane
troverà, sotto un bassorilievo con il Cristo risorto tra gli angeli, una lapide
di marmo, semplice come quella di Paolo VI, un poco inclinata, e leggerà la più
scabra delle scritte: un nome, una sigla che sta per «pater patrum» - padre dei
padri -, e una data. JOHANNES PAULUS PPII 1920-2005.
Aldo Cazzullo
[Cds, 9/4/2005]