18 aprile 1861
Lo scontro tra Garibaldi e Cavour alla Camera
Nel primo governo italiano c’erano due soli piemontesi, Cavour e Cassinis. La maggioranza era tosco-emiliana: Minghetti, Fanti, Peruzzi, Bastogi. De Sanctis e Niutta erano napoletani, Natoli siciliano.
Garibaldi era stato eletto deputato a Napoli e cominciò ad attaccare il governo il 30 marzo. Venne a fargli visita una delegazione operaia allora il generale si lanciò: ad appoggiare Cavour erano una turba di lacchè, il re era «circondato da un’atmosfera corrotta». L’occasione per questa offensiva venne fornita dalla questione dell’«esercito meridionale», le migliaia di garibaldini che avevano combattuto al Sud senza nessun inquadramento e che dopo non avevano ottenuto niente. Il problema era aggravato dal fatto che Garibaldi aveva distribuito a man bassa i gradi di ufficiale, sperando che poi sarebbero stati riconosciuti. Ce n’erano settemila in quelle condizioni. E come si faceva a inquadrarli senza provocare il finimondo nell’esercito vero, quello di carriera? È vero che Garibaldi s’era dichiarato disponibile per una cernita. Ma partendo da settemila!
Il generale
venne a Torino, vi furono abboccamenti per calmarlo e sembrava in effetti
placato. Si decise di affrontare una discussione in Parlamento sul problema dell’esercito
meridionale, Ricasoli presentò un’interpellanza, la data venne fissata al 18
aprile. Nel frattempo Cavour, per allentare la tensione, presentò un decreto
con cui si sistemavano duemila e duecento ex ufficiali garibaldini. Ma anche
Garibaldi mandò una legge a Rattazzi, presidente della Camera, in cui si
proponeva di procedere alla leva di massa, tutti i cittadini fra i 18 e i 35
anni di età avrebbero dovuto prender le armi, salvo quelli che facevano già
parte dell’esercito o della marina. Era un altro tentativo di realizzare l’esercito
di quantità – democratico e di sinistra – contrapposto all’esercito di qualità,
voluto da La Marmora e dai moderati. Era il sogno della Nazione armata,
mazziniano-garibaldino, che doveva preparare l’assalto a Venezia e a Roma e
ridare ai democratici la guida del movimento. Non stettero molto a riflettere
sul fatto che in Sicilia, l’estate prima, con tutto l’entusiasmo, la gente
aveva opposto una formidabile resistenza alla coscrizione, pratica sconosciuta nell’isola.
Il 18 aprile Torino si riempì di camicie rosse e di democratici, gente scandalosa, che faceva chiasso e cantava. Inzepparono le tribune della Camera, fecero cori. Era pieno anche il lato riservato alla diplomazia e alla société, non si poteva perdere lo scontro Garibaldi-Cavour. Ma qui si scandalizzavano per le scalmane di quelli, sottolineavano che non si trattava di piemontesi. Cera una folla enorme anche sulla piazza, fin davanti al palazzo Carignano. I servizi di ordine pubblico erano stati rafforzati.
La seduta cominciò come sempre all’una e mezza. Governo al gran completo, Cavour e tutti i ministri. Alle due si sentì la folla che gridava, tutti capirono che Garibaldi era arrivato. Dopo qualche minuto, infatti, si aprì una piccola porta in alto e il generale apparve, accompagnato da altri due. Subito le tribune scattarono in piedi.
«Ga-ri-bal-di, Ga-ri-bal-di!».
E poi viva l’Italia
e tutto il resto. Durante il fracasso il generale, in camicia rossa e poncho
grigio, si guardava intorno. I deputati erano rimasti immobili al loro posto,
non se n’erano alzati che una quindicina a sinistra. Neanche i ministri s’erano
mossi, e neanche quelli che occupavano i posti della buona società, i
diplomatici e le dame. Dunque non era solo lo scontro tra il generale e il
presidente del Consiglio, ma anche tra il popolo e il Parlamento o tra il
vecchio Piemonte e la nuova Italia. Le ovazioni durarono cinque minuti.
La seduta ebbe prima un andamento tranquillo. Ricasoli lesse la sua interpellanza, in cui lamentava l’esistenza di un «dualismo» tra esercito regolare e formazioni garibaldine, poi il ministro della Guerra Fanti illustrò l’opinione del governo sull’esercito meridionale, un lungo discorso che lesse con voce monotona e annoiò tutti. Infine domandò la parola Garibaldi e ci fu quel movimento generale che denota la ripresa dell’attenzione, si sistemavano negli stalli per vedere e sentir meglio, strusciavano i piedi.
Gli avevano
preparato il discorso e aveva dei foglietti che spiegazzava e non riusciva a
decifrare. Aveva infilato gli occhiali, balbettò «l’Italia è fatta», ma non si
riusciva a sentire che cosa dicesse veramente, mentre quelli che gli stavano
seduti vicino gli indicavano col dito dove doveva leggere, a quale punto era
rimasto. Pure non si raccapezzava, cominciò a mescolare gli appunti, era una
maledizione, perché discorsi di quella delicatezza hanno le parole pesate col
bilancino, il generale avrebbe dovuto accennare agli «intrighi individuali»,
poi respingere l’accusa di dualismo, riuscì in effetti a dire:
«...tutte le volte che quel dualismo ha potuto nuocere alla gran causa del mio paese io ho piegato e piegherò sempre...»
La Camera lo applaudì, qui allora ebbe il primo scatto:
«Però, come un uomo qualunque, lascio alla coscienza di questi rappresentanti dell’Italia il dire se io possa porgere la mano a chi mi ha fatto straniero in Italia!».
Le tribune adesso lo applaudirono con forza. Poi criticò Fanti, con una certa misura, sostenendo che nell’Italia centrale, al tempo dei noti fatti, non c’era anarchia. Ma aveva sempre questi foglietti con cui non riusciva ad andare d’accordo e a un certo punto non ne poté più e li scaraventò via.
«Adesso», gridò «se mi permettono, io dirò alcune parole sul principale oggetto che mi portò alla presenza della Camera, che è l’esercito meridionale. Dovendo parlare dell’esercito meridionale, io dovrei anzi tutto narrare dei fatti ben gloriosi; i prodigi da essa operati furono offuscati solamente quando la fredda e nemica mano di questo Ministero faceva sentire i suoi effetti malefici...»
Cominciarono i rumori.
«...Quando per l’amore della concordia, l’orrore di una guerra fratricida, provocata da questo stesso Ministero...»
Allora dal banco dei ministri scattarono in piedi, l’accusa era sanguinosa, presero a gridare, ma anche quegli altri gridavano, si era ormai in pieno tumulto.
Cavour (con impeto). Non è permesso d’insultarci a
questo modo! Noi protestiamo! Noi non abbiamo mai avuto queste intenzioni. (Applausi
dai banchi dei deputati e dalle tribune) Signor presidente,
faccia rispettare il Governo ed i rappresentanti della nazione! Si chiami all’ordine!
(Interruzioni e rumori)
Presidente. Domando silenzio. Al presidente solo spetta il mantenere l’ordine e regolare la discussione. Nessuno la disturbi con richiami!
Crispi. Domando la parola per l’ordine della discussione.
Garibaldi. Credeva di aver ottenuto, in trent’anni di servizi resi alla mia patria, il diritto di dire la verità davanti ai rappresentanti del popolo.
Presidente. Prego l’onorevole generale Garibaldi di esprimere la sua opinione in termini da non offendere alcun membro di questa Camera e le persone dei ministri.
Cavour. Ha detto che abbiamo provocato una guerra fratricida! Questo è ben altro che l’espressione di un’opinione!
(Interruzioni e voci diverse da tutti i banchi)
Garibaldi. Sì, una guerra fratricida!
Allora, poiché aveva detto di nuovo quella parola, tutta la tensione che s’era andata accumulando in quei giorni, e forse anche prima, esplose. Mentre Cavour e i ministri continuavano a protestare, i deputati si precipitarono nell’emiciclo, presero a spingersi, uno andò fin sotto al banco dei ministri a minacciare Cavour col pugno, le tribune urlavano, battevano i piedi, scandivano improperi.
Rattazzi si
coprì, la seduta fu sospesa per un quarto d’ora. Quando riprese c’era ancora
una tensione terribile. Rattazzi disapprovò «altamente» il discorso di
Garibaldi, questi rispose che allora non avrebbe più parlato dell’azione del
ministero dell’Italia meridionale. Disse poi finalmente quello che doveva dire,
su esercito garibaldino ed esercito regolare, senza essere interrotto e senza
più inciampare nei suoi foglietti. Ma nessuno gli dava ormai veramente ascolto,
la questione adesso era di sapere se Cavour avrebbe o no risposto a tono alle
accuse precedenti. Il conte ascoltava come al suo solito, col tagliacarte tra
le dita e stravaccato. Ma era pallido, col labbro tremante.
Garibaldi finì di parlare, chiese la parola Nino Bixio. Inaspettatamente esordì:
«Io sorgo in nome della concordia e dell’Italia».
Ci fu un lungo, disperato applauso.
«Io sono fra coloro che credono alla santità dei pensieri, che hanno guidato il generale Garibaldi in Italia (Bravo!), ma appartengo anche a quelli che hanno fede nel patriottismo del signor conte di Cavour (Applausi). Domando adunque che nel nome santo di Dio si faccia un’Italia al di sopra dei partiti (Applausi vivissimi e prolungati nella Camera e dalle tribune)».
Continuò dicendo che le parole di Garibaldi non andavano prese alla lettera, supplicò che nel far l’esercito si tenesse conto di tutti «perché l’Italia ha bisogno di tutti». Invocava la concordia e di continuo lo applaudivano. Poi disse all’improvviso:
«Per l’amor di Dio non pensiamo che ad una cosa».
Si fece silenzio.
«Il paese nostro non è ancora abbastanza compatto, queste discussioni ci pregiudicano nell’opinione dell’estero.
«Il conte di Cavour è certamente un uomo generoso; la seduta d’oggi nella prima sua parte deve essere dimenticata; è una disgrazia che sia succeduta, ma vuol essere cancellata dalla nostra mente».
Si guardò intorno.
«Ecco quello che io volevo dire».
Lo applaudirono a lungo e Cavour, che prese la parola subito dopo, lo ringraziò per aver «diretto alla Camera parole così nobili e generose». Pronunciò a sua volta un discorso moderato. Disse:
«Per me la prima parte di questa seduta è come non avvenuta».
Riconciliarli veramente non fu per il momento possibile. Convocati insieme dal re, si rivolsero qualche frase di circostanza ed evitarono con cura di stringersi la mano.
Tratto da Vita di Cavour
di Giorgio Dell’Arti
(Mondadori)