10 giugno 1994
«Come conquistai l’ombrello di Einaudi e la distrazione che me lo portò via»
Era il 10 giugno 1994. Una serata piovosa a Roma, nel cui ricordo si
incrociano due grandi personaggi della Storia d’Italia, padre e figlio.
Nella sua casa di piazza Paganica, Giulio Einaudi mi mostrò le dediche
dei suoi amici scrittori e la collezione di fermalibri, di cui andava
molto fiero. Poi, come richiedeva l’intervista, mi raccontò della «sua»
casa editrice, della storia, dei cambiamenti societari, dei suoi autori.
Come al solito si andò a mangiare alla Carbonara, in Campo de’ Fiori.
Pioveva e ci rifugiammo al primo piano. Il giovane cameriere che lo
chiamava Eccellenza portò in tavola per Einaudi il solito palombo al
vapore. L’Editore aveva un sacco di curiosità sui giovani autori e io
gli rispondevo come potevo. Non ricordo se quella sera mise la sua
forchetta nel mio piatto, come usava fare anche con commensali ben più
illustri di me per provare a tradimento la loro pietanza.
Dopo cena
rientrammo lentamente verso casa sua, che non era distante, sotto un suo
grande ombrello nero. Davanti al portone, si rese conto che sarei
dovuto tornare in albergo sotto la pioggia e come nulla fosse, dalla
consueta voce biascicata e nasale con cui in passato narrano che avesse
pronunciato le peggiori cattiverie, uscirono queste parole: «Prenditi
l’ombrello, te lo regalo, era di mio padre» . Mi incamminai verso via
del Corso con l’incredulità di chi aveva conquistato, senza nessun
merito, un cimelio storico da tramandare ai nipoti: il parapioggia del
Presidente e dell’Editore, come in un quadro di Magritte, era piovuto
dal cielo con tutta l’acqua di quella serata romana.
Un giorno a Lugano
pioveva, e mio fratello fu attratto da quel nobile oggetto in legno con
il manico ruvido e nodoso. Gli precisai con orgoglio la sua provenienza.
Si accorse che si apriva male e mi assicurò che conosceva un ottimo
artigiano che avrebbe saputo aggiustarlo. L’imprudenza mi suggerì di
lasciarglielo. Qualche sera dopo, il suo balbettio al telefono mi rivelò
l’irreparabile. La moglie di mio fratello aveva cacciato il reperto da
Museo in un sacco pieno di vecchie cianfrusaglie da consegnare al
rottamaio. Così, per un niente, la nettezza urbana elvetica (della
stessa Svizzera che aveva ospitato i fuoriusciti Luigi e Giulio) mi
privò dell’unico pezzetto memorabile di Storia d’Italia di cui
disponevo.
Paolo Di Stefano
[Cds, 11/3/2011]