Cristina Manfredi, VanityFair 14/12/2016, 14 dicembre 2016
IL MAESTRO E LA COLOMBA
«Quando mi guardo indietro, sembra sempre che le cose siano accadute perché le volevo, ma in realtà non avevo un piano, sono successe e basta».
Se fai Paloma di nome e Picasso di cognome, come Pablo che da solo ha significato così tanto per l’arte del XX secolo, un giro nei ricordi diventa un’operazione enciclopedica. Nata dalla relazione tra l’artista spagnolo e la pittrice Françoise Gilot, di quarant’anni più giovane di lui, Paloma ha vissuto l’infanzia a stretto contatto con il padre, per poi esserne rifiutata quando la madre decide di andarsene portando con sé anche il fratello maggiore, Claude. Cresce libera e circondata da personaggi che, come il padre, hanno lasciato segni profondissimi nel Novecento, combatte e vince la battaglia per essere riconosciuta erede insieme a Claude, ora alla guida della Picasso Administration che controlla il portentoso patrimonio artistico di famiglia. Soprattutto, trova una sua dimensione personale e creativa costruendo l’immagine conturbante che l’ha resa icona di stile negli anni ’70 e scoprendo una cosa che ancora oggi le piace fare: disegnare gioielli.
È proprio per i gioielli che la incontro, l’appuntamento è a Miami nella settimana in cui collezionisti e galleristi da tutto il mondo arrivano per l’Art Week e dove i Picasso continuano a crescere nelle quotazioni. Mi accoglie di mattina in un bungalow sulla spiaggia, maglia scura con pantaloni di shantung blu elettrico, e mi mostra la collezione che ha disegnato per Tiffany & Co. per festeggiare i 35 anni di collaborazione con la maison newyorkese. Nell’altra stanza il marito Éric Thévenet prende il caffè e si respira qualcosa che non ti aspetti da un personaggio così: la normalità. «La nostra quotidianità insieme è quello che mi rende davvero felice», mi spiega come una qualunque donna innamorata del suo uomo. Solo che lei a quell’uomo ha disegnato una fede nuziale che riposa nei fondali dell’Oceano Indiano e che ora lei ha deciso di inserire tra i nuovi modelli «made in Tiffany», in boutique a partire dalla primavera. Paloma è così, ti travolge di racconti fantastici, ti prende per mano e ti ci porta dentro.
Che cosa ci fa l’anello di nozze di suo marito in fondo al mare?
«Strano vero? Anche perché non doveva proprio esistere una fede per Éric. Quando abbiamo deciso di sposarci, eravamo tutti e due molto convinti, ma lui mi ha spiegato che aveva un problema con gli anelli perché non riusciva a vederseli sulle sue mani. “Ti amo, ma non chiedermi di indossare una fede”, mi ha detto e io gli ho risposto che era solo perché nessuno aveva ancora inventato quella adatta a lui. Mi sono subito messa a disegnarla et voilà, l’ho convinto. Non l’ha mai tolta, fino al giorno in cui, durante una vacanza, ci siamo immersi insieme con suo figlio. A un certo punto il ragazzo è andato in panico ed Éric ha dovuto farlo emergere a forza. Era spaventatissimo, si è aggrappato al padre e nell’agitazione di quei momenti l’anello si e sfilato. Mi piace pensare che l’Oceano lo custodisca chissà dove. Intanto lui ne ha avuta una copia».
Che cos’altro le piace?
«Le persone creative. Ho avuto la fortuna di vivere circondata da figure incredibili di cui ho sempre ammirato la grande umiltà. Alcuni possono sembrare primedonne più di altri, ma tutti sono consapevoli di avere un dono meraviglioso e di doverlo proteggere a ogni costo, anche se non sanno spiegare perché questo dono sia capitato proprio a loro. Sono creature realmente connesse con l’energia cosmica e forse è questo il motivo per cui a volte, nella vita di tutti i giorni, sono fragili o controverse».
Impossibile non pensare a suo padre, con il quale il rapporto non è stato semplice dopo la separazione da sua madre.
«Ci sono stati momenti duri e le persone che in quel momento erano intorno a lui facevano di tutto per non farci incontrare. Allora mi sono aggrappata al ricordo di quando, da piccola, mi lasciava stare vicino a lui mentre dipingeva, cosa che non permetteva a nessun altro. Non parlavamo mai, però tra di noi c’era un intenso canale di comunicazione che non si è mai interrotto. Ricordo una delle ultime volte che, da bambina, lo raggiunsi nel Sud della Francia per le vacanze estive. Mi aspettava in stazione e si vedeva che si stava sforzando di interpretare la parte del papà premuroso. Mi chiedeva com’era andato l’inverno a Parigi, che voti avevo preso a scuola, però a nessuno dei due importava di quello che stavamo dicendo. Padre e figlia in quel momento erano ruoli privi di significato, e solo quando siamo arrivati a casa e siamo rientrati nella routine ci siamo ritrovati. Se potessi riaverlo per un giorno, non avrei niente di speciale da dirgli o da chiedergli, mi godrei semplicemente il fatto di averlo vicino».
E se invece potesse rivivere la sua gioventù, che cosa cambierebbe?
«Ero timidissima, andavo alle feste e passavo mezz’ora chiusa in bagno terrorizzata. Mi ripetevo che non ce l’avrei fatta a stare tra tutta quella gente e cercavo il coraggio per uscire. Eppure è grazie a quella timidezza che ho costruito il mio personaggio. Penso alla foto di Helmut Newton in cui ho un seno scoperto, schermato soltanto da un bicchiere che tengo in mano. Era una immagine fortissima, sexy, provocatoria: da una parte faticavo a riconoscermi, dall’altra la sentivo profondamente mia. Mi ha fatto spesso pensare a quando mio padre fece il ritratto a Gertrude Stein. Ci mise un po’ di tempo, poi lo lasciò fermo perché era arrivata l’estate e alla fine glielo mostrò. Gertrude era molto perplessa. Disse subito che non si riconosceva per niente e lui le rispose: “Forse oggi non ti assomiglia, ma un giorno sarà proprio come te”. In fondo, valeva anche per me».
Per la sua capacità di fare stile, qualcuno la indica come una antesignana delle it girl e influencer di oggi. Che cosa ne pensa?
«Credo ci sia una grande differenza tra allora e oggi. Prendiamo per esempio il sesso: con le nostre immagini davamo un’idea, un punto di vista estetico che non era costruito a tavolino. Quello che vedo oggi è troppo ragionato e questo mi disturba».
Non le manca mai di essere al centro dell’attenzione come era in passato?
«Certe cose sono irripetibili, come quando, uscita da scuola, andavo a posare per Richard Avedon per alcuni scatti di moda. All’epoca, i vestiti venivano mostrati alle clienti durante il giorno, poi alle cinque di pomeriggio gli atelier chiudevano e così potevamo prenderli noi. Si scattava fino all’alba ed era tutto terribilmente eccitante. Ci ho messo del tempo per realizzare quanto fosse straordinaria l’educazione che stavo ricevendo da mia madre. Per me era normale essere libera, non immaginavo che le altre donne dovessero sottostare a divieti, regole e pressioni sociali. Mamma è ancora oggi una donna indipendente: ha 95 anni, vive da sola e per nulla al mondo mi vorrebbe tra i piedi tutto il tempo! Capita però che mi avvicinino delle donne e mi confidino che sono andate da sole a comprarsi un mio gioiello. Dalla fierezza con cui mi parlano, capisco che la considerano una conquista e sono contenta di farne in qualche modo parte».
Nessun rimpianto insomma per la Paloma con il rossetto rosso?
«No. E poi riscoprire l’anonimato ha avuto effetti collaterali molto divertenti come quando, sul Concorde, una hostess molto emozionata mi disse di essere felice di accogliermi a bordo dopo avere volato in precedenza con mia madre. Più ci pensavo e più mi dicevo che c’era qualcosa che non funzionava. Mamma non aveva mai preso un Concorde e nemmeno le altre donne di mio padre con cui avrebbe potuto confondersi. La “mamma” in realtà ero io, con trucco e bocca di fuoco, ma non glielo dissi: perché privarla di quella piccola soddisfazione?».
C’è una donna che ricorda in modo particolare?
«Lauren Bacall era una mia cara amica e una persona adorabile. Una volta, una persona che voleva darsi arie di conoscerla bene la chiamò con il suo vero nome, Betty. Lei si girò di scatto e gli disse: “Non sono Betty per te”, con quella sua voce inconfondibile. Considero un grande privilegio aver potuto vivere la parte più intima e vera di personaggi come lei. Di fronte ai quadri di mio padre vedo l’opera di Pablo Picasso, ma mio papà resta quello che una volta si mise a litigare con mamma su chi dei due dovesse prendere l’auto per quel giorno. Lei era incinta di me e doveva andare a un controllo, lui era atteso al famoso Congresso Mondiale della Pace del 1949, il cui simbolo della colomba disegnato da lui ispirò il mio nome. A quanto mi raccontarono, nessuno dei due voleva mollare, erano fatti così: due grandi pittori che sapevano che la vita è un gioco serio e lo hanno sempre giocato cercando di dargli un senso».