Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  dicembre 15 Giovedì calendario

I MIEI 100 GIORNI CON RE MARCO– [Matteo Angioli] Al confronto, scrivere i Vangeli sulla vita di un signore chiamato Gesù, dev’essere stata una passeggiata

I MIEI 100 GIORNI CON RE MARCO– [Matteo Angioli] Al confronto, scrivere i Vangeli sulla vita di un signore chiamato Gesù, dev’essere stata una passeggiata. Matteo Angioli, 36 anni, sarà per il nome condiviso con l’evangelista, o più probabilmente per amore, si è ficcato nel ginepraio impossibile degli ultimi cento giorni di vita di Marco Pannella. Gli ultimi cento: addirittura la Passione di Marco il Radicale nella mansarda romana di via della Panetteria, proprio sotto il Quirinale, due tumori che lo consumavano dentro e tutt’intorno l’ansia affettuosa dei suoi mille apostoli, lacerati, angosciati, gli uni che da troppi anni guardavano in cagnesco gli altri. Pannelliani cosiddetti e boniniani cosiddetti. Poi, insieme a loro, un’Italia rispettosa, sinceramente addolorata dal calvario di un personaggio straordinario. Ne è uscito un libro: Una felice libertà. La mia vita (Mondadori, 180 pagine, 19 euro). A 86 anni è morto Pannella, il 19 maggio scorso. A novembre il volume era stampato: «E ora registro me stesso. Una penna, un foglietto, anche un microfono. Non è che non mi senta pronto per stendere le memorie di un rompicoglioni. Voglio soltanto sistemare la mia gioia e, quando c’è, anche il mio sconforto». Non era stato poi lui a registrare se stesso. Lo avevano fatto, al posto suo, le due persone che aveva voluto in casa con sé nei cento giorni della propria uscita di scena: Matteo Angioli, per l’appunto, e sua moglie Laura Hart, trent’anni, radicale fiamminga. Questa breve intervista, nella trattoria sotto la storica sede di via di Torre argentina, è a lui, ma anche a lei. Com’è nata l’idea del libro? «È stata di Clemente Mimum, aveva molto insistito. Non su tutta la vita di Marco, sugli ultimi mesi. Pannella ci ha pensato un po’. A un certo punto ha detto sì». In che modo? «Eravamo seduti al solito tavolo in cucina, mi ha guardato e ha accennato un sorriso: va bene, purché lo faccia tu. Era ancora lucido? Aveva lunghi momenti di follia felice, poi stranamente, quando il dolore diventava più forte diventava lucidissimo. Ci siamo accordati che avremmo registrato e trascritto tutto ciò che lui diceva. Era lui a decidere, come sempre. Perfino quando abbiamo dovuto portarlo l’ultima volta in ospedale». Ridotto a un soffio. «Quando gli chiedemmo come stava, e stava malissimo, non volle rispondere, temeva che se avesse risposto di star male lo avrebbero obbligato a non far più niente, ma lui voleva continuare». A fare che cosa? «Continuare. Ricordo la sua reazione forte: piuttosto che in ospedale, voglio una guardia medica qui in casa per 24 ore. Non è possibile, gli dicevamo, ma decidi tu. Intorno al tavolo eravamo noi due, Maurizio Turco e le infermiere della notte, chiese l’opinione di ciascuno. Vado a vedere la tv, ha detto a un certo punto, voleva stare solo. Sono andato da lui dopo un’ora, aveva preso la decisione: andiamo in ospedale». Pannella sapeva che, fuori, non tutti i radicali avevano apprezzato l’idea che lei scrivesse un libro sui suoi ultimi giorni? «Lo immaginava». Ve lo disse o ve lo fece capire? «Una sera salgono alla Panetteria Francesco Rutelli e Barbara Palombella Stanno uscendo, e Barbara dice a Marco: ma perché non ti decidi ad adottare Matteo? Si potrebbe fare in un giorno. Lì per lì non reagisce. Laura gli chiede: lo vorresti fare? E lui: subito, per me, ho solo paura del peso che ricadrebbe su Matteo, date le voci e le malignità che già circolano su di lui». È stato registrato anche questo? «Sì». Lei come reagì, di fronte all’ipotesi dell’adozione? «Sorrisi, mi aspettavo la risposta. Suonò surreale, ma ero felice. Lo sono stato da quando l’ho conosciuto, nel 1994, fino al momento che è morto mentre gli tenevo la mano. Laura mi ha ricordato che l’ultimo giorno, forse per la prima volta, Marco ha dato la definizione del nostro rapporto: un grande amore». Ci si è riconosciuto? «Sì. Un’altra volta mi aveva detto: tu per me sei un figlio». Si riconosce meglio in quest’altra definizione? «Un figlio? Non so, di più». Perché un legame così forte? «Stavamo bene insieme. Intellettualmente, ma anche sentimentalmente. C’era sintonia, semplicità, gioia. Non sempre, certo, ma sempre abbastanza da poter convivere. E da poterlo fare anche di più negli ultimi mesi. Lei ha sposato Laura. «Risponde Laura: “Matteo dormiva con lui. La prima volta che sono andata a trovarli a Bruxelles ho visto la stanza matrimoniale di Marco. E di fianco al lettone, un lettino. Dissi a Matteo: ‘Vuoi farmi dormire nel lettino piccolo? Allora è vero che sei il toy-boy di Marco’. ‘Non è vero’, mi ha risposto Matteo. E non lo era”». Poi, ed eravamo già negli ultimi cento giorni, avete deciso di prendere una casa vostra vicino a via della Panetteria. «Ancora Laura: “Per continuare a stargli accanto. Marco non voleva, pretendeva che stessimo a casa sua. Dobbiamo almeno cambiare qualcosa nell’arredamento, gli dicemmo. Non voleva neanche questo. Mi incazzai furiosamente: non sei proprio capace di generosità, gli ho rinfacciato. Certe volte arrivava in camera nostra e ci sorprendeva a fare l’amore. Una volta, alle 4 di mattina, si siede sul letto, e credendo che fossi Matteo comincia ad accarezzare me. Marco si comportava come il mio cane quando mi vedeva abbracciare qualcuno, abbaiava. Voleva l’attenzione tutta per sé”. E Matteo: “Poi capiva subito di aver avuto una reazione egoistica e si metteva a sorridere”. E Laura: “È così”». Quando passai a trovarlo io, Marco mi sembrò molto più assente di come lo state raccontando. «Delle volte, a sprazzi. Altre volte era divertentissimo. Clemente Mimun passava tutti i giorni. Un mattino vado in camera sua, lui stava ancora dormendo, si sveglia ed è convinto di essere un re. “Dov’è la mia corte?”, domanda imperioso. Telefona Mimun che sta venendo con i giornali e dico a Marco: “Ecco, la corte è completa”. Gli vengono consegnati i giornali, Mimun sta per girarsi e andare via, quando Marco alza la voce: “Non si danno le spalle al re, esci retrocedendo”. È uscito piegato in due, all’indietro». Si sentiva sempre bellissimo? «E ci teneva tanto. Una cravatta multicolore che era un obbrobrio, non la toglieva mai e la mostrava di continuo a tutti, guarda, guarda. La barba rasatissima, rigorosamente dopo una schiuma abbondante. Le grandi mani bianche, curate. E una passione travolgente per i gabbiani». Ne parlava sempre. «Li adorava. A un ceno punto lo abbiamo obbligato a smetterla di dar loro il cibo sul davanzale perché entravano fin dentro casa provocando sfracelli. Non vennero più. Se ne intristì. Rimettiamo allora un po’ di cibo, Marco ne sarà contento. La mattina che il primo gabbiano è tornato, lui ha cominciato a parlargli, una conversazione struggente, era convinto di essere in diretta alla radio. Gli ha detto di Benedetto Croce, dell’essere veri radicali, della differenza tra essere e portare speranza. Una scena da pazzi. Non l’abbiamo registrata, peccato». Non compaiono mai, nel libro, i grandi dirigenti storici radicali come Emma Bonino e Gianfranco Spadaccia. «Compaiono nei pochi flash-back. Per il resto in quei mesi non c’erano, non si sono visti. Non li avreste bene accolti, forse. Nell’ultimo periodo, Marco avrebbe abbracciato tutto il mondo, io per tre settimane ho provato a far capire a Emma Bonino che sarebbe stata accolta con amore». Gliel’ha detto personalmente? «Attraverso Filomena Gallo e Mirella Parachini, la compagna storica di Pannella». Rimane un senso di ingenerosità verso persone che, dissensi o no, litigi o meno, hanno amato Pannella quanto voi. «Non voglio entrare nell’argomento. Se insiste le dico questo: Marco ha parlato di Emma, noi abbiamo fatto la scelta di non trascrivere i suoi giudizi perché non ci sarebbe stato diritto di replica. Lei ha detto al Corriere di non capire perché negli ultimi mesi Pannella ce l’avesse tanto con lei. Se vuole, glielo spieghiamo noi». Alla luce di questa precisazione, il senso d’ingenerosità cresce. «Nessuna ingenerosità. Ma anche nessuna ambiguità». Chi incontrava più volentieri, Marco? «Tutti, voleva circondarsi di tutti i suoi amici. I detenuti a Pasqua l’hanno emozionato, le visite dei cambogiani e dei vietnamiti, monsignor Paglia con la lettera del Papa, Berlusconi, Grillo, Bertinotti, Renzi, Sofri, tutti». È mai uscito all’aria aperta, negli ultimi tre mesi? «Due volte, in terrazza». Com’è adesso la mansarda di via della Panetteria? «Esattamente com’era».