Il Fatto Quotidiano, 12 dicembre 2016
ARMI, OMICIDI E COCAINA: ORA LA ’NDRANGHETA PARLA ROMANO
Radici profonde, che significano potere: “Chi non ha questo cordone ombelicale non ha forza”, spiega Antonino Belnome, forse il collaboratore di giustizia della ’ndrangheta più attendibile in circolazione. Non una smentita. Quando lo ascoltano – nelle aule d’udienza – c’è un silenzio glaciale, le sue sono parole precise come lame. Era a un passo dal mondo degli invisibili, conosceva come pochi l’evoluzione più recente dell’organizzazione criminale più potente del paese. Tradizione, radici infilate nei piccoli paesi della Calabria. Come Guardavalle, città arroccata sulle montagne che guardano lo Ionio, dove nel 1974 scoppiò una delle più feroci faide, finita con sette morti e una decina di feriti. Poco più di 4.000 abitanti, tra le province di Catanzaro, Vibo Valentia e Reggio Calabria.
Guardavalle e il suo territorio hanno un doppio. Quaranta chilometri da Roma, una zona che sfiora i duecentomila abitanti, due porti, chilometri di spiaggia che l’estate diventano succursale della capitale. Nettuno, Anzio, Ardea. Tre comuni, un “locale” (ovvero, una cellula organizzata militarmente di ’ndrangheta), costituito da diverse ’ndrine, dove è garantita “una sorta di immunità e tranquillità ambientale per la gestione degli affari illeciti”, spiegava il Gip romano Giacomo Ebner in una sentenza dello scorso anno. Una roccaforte attiva da quasi mezzo secolo; un centro logistico della cocaina, lo snodo che porta alle piazze della coca dei quartieri est di Roma, quelli delle “Torri”, borgate difficili dove lo spaccio è una delle poche leggi che tutti rispettano.
La “’ndrangheta capitale” ha sede qui, tra il grattacielo “Scacciapensieri” e le spiagge confiscate, nelle strade che portano dal vecchio borgo marinaro di Nettuno alle vie desolate tra Lavinio, Anzio e Ardea. Le prime ’ndrine arrivarono negli anni 60, raccontano giornali ingialliti e informative dell’epoca. Sono poi passati trent’anni prima che l’antimafia della capitale intuisse il peso criminale. Dodici anni fa arrivò la conclusione della prima inchiesta, condotta dal pm della Dda romana Francesco Polino insieme ai carabinieri del Ros, costata anni di appostamenti, intecettazioni, lettura attenta degli estratti conto delle banche. Nel 2004 quasi un centinaio di arresti colpirono la cosca dei Gallace, Novella, Riitano, Andreacchio, Tedesco, con una maxi operazione che riuscì a unire due filoni investigativi. In quell’inchiesta appare evidente il potere accumulato dagli affiliati al gruppo cresciuto attorno ai Gallace: radici salde tra Guardavalle e Soverato, esperti in cocaina e armi, con a disposizione arsenali da guerra, capaci di influenzare la pubblica amministrazione. Dalle indagini che promettevano di sradicare quel pezzo di potere di ’ndrangheta, sono passati dodici anni. Nessuna condanna definitiva. Tutti liberi – salvo poche eccezioni, dovute a giudizi in altri processi – i componenti delle ’ndrine. Il primo processo celebrato, “Appia”, finito con una condanna in primo grado dopo sette anni di udienze, ancora attende l’appello; il secondo filone, “Mithos”, si trascina nel Tribunale di Velletri dal 2007, pronto a festeggiare i dieci anni. Una o due udienze al mese, trascrizioni di intercettazioni che arrivano dopo anni di ritardo (prima si erano perse, poi, una volta ritrovate, è diventata un’impresa trovare un traduttore in grado di capire i dialetti della zona ionica).
Gli invisibili
Per capire quanto pesa l’unico “locale” di ‘ndrangheta nella provincia di Roma – e in tutto il Lazio – basta pronunciare il nome di Vincenzo Gallace. Fino al 2010 non perdeva una sola udienza dei due processi contro le cosche che lo vedono come capo induscusso davanti al Tribunale di Velletri. Poi il suo nome è apparso nell’inchiesta “Infinito” della Dda di Milano, come mandante dell’omicidio di Carmine Novella, il suo alleato storico e coimputato. Appare per la prima volta nelle cronache nel 1974, insieme al fratello Agazio, quando scoppia la faida che vede la contrapposizione tra due gruppi storici della zona. I Gallace-Ruga ne uscirono vincitori. Occorrerà aspettare il 2011 per capire la forza e la valenza del gruppo, non solo in Calabria. Antonino Belnome non era solo un affiliato. Aveva la dote di padrino ed era il capo locale di Giussano, alle porte di Milano, uomo di assoluta fiducia di Vincenzo Gallace e Andrea Ruga, le due figure di vertice della cosca. Quando – dopo l’inizio della collaborazione – viene sentito dai magistrati della Dda di Reggio Calabria impegnati nell’inchiesta “Mammasantissima” sui vertici invisibili della ‘ndrangheta, Belnome ricorda che era a un passo dall’ingresso in quella nebulosa dove “bisogna essere amici dello Stato, non nemici”. Fu Vincenzo Gallace – ricorda Belnome – a spiegargli la “massoneria”, quella “vera”, definendo quel livello come “un ente superiore addirittura alla ‘ndrangheta nel senso… è Ndrangheta, ma che però c’ha un valore eccelso”. La prima informativa articolata sulla cosca Gallace nel Lazio è del 1999. Il Ros dei carabinieri di Roma aveva impiegato due anni di indagini per ricostruire l’organigramma. E quando presentano i primi risultati alla Direzione distrettuale antimafia allegano un elenco provvisorio di indagati con circa 150 nomi. Appare subito chiaro già alla fine degli anni ‘90 che quella di Nettuno non è una semplice succursale, ma uno snodo strategico: Roma dal punto di vista criminale è città aperta, nessun gruppo può puntare al controllo esclusivo del territorio. All’ombra del Colosseo le mafie investono, stringono accordi, fanno passare quintali di droga utilizzando la città come porto franco. Fuori dal Raccordo anulare tutto cambia.
In quelle pagine della prima inchiesta c’è uno spaccato che ancora oggi inquieta. Come l’organizzazione di cene elettorali per preparare le candidature alle elezioni comunali di Roma del 1997. Partecipano avvocati di fiducia del gruppo di Guardavalle, medici, professionisti: “È uno dei nostri” commentavano facendo il nome di un noto cardiologo originario di Locri, Giuseppe Speziale, diventato nel 2011 vicepresidente del gruppo della sanità privata Sansavini e consigliere di amministrazione del San Carlo di Nancy, l’ospedale romano di proprietà della congregazione Padre Monti fino allo scorso anno.. Il medico – che alla fine non venne eletto – non è stato mai indagato e potrebbe ovviamente aver ricevuto in maniera inconsapevole i voti delle famiglie calabresi. Ma l’episodio – che occupa un intero capitolo dell’informativa del Ros del 1999 – è significativo dell’interesse del gruppo criminale nell’individuare possibili referenti nel mondo politico e dei professionisti.
Sul litorale il gruppo Gallace-Novella mostrava la sua faccia feroce, divenendo il punto di riferimento criminale in grado di organizzare pezzi importanti della criminalità autoctona, soprattutto nel controllo della piazze di spaccio di cocaina. Nomi noti del narcotraffico del litorale romano verranno poi arrestati nel 2004 insieme agli esponenti della famiglia Gallace, mostrando un’organizzazione di ‘ndrangheta in grado di operare in autonomia. Una vera e propria “’ndrina distaccata” stabiliranno alcune sentenze, che confermeranno buona parte degli spunti investigativi. Sarà poi Antonino Belnome durante le udienze del processo Appia a spiegare come il cuore dell’organizzazione è ancora in parte sconosciuta agli inquirenti: il capo “locale” – racconta il collaboratore di giustizia – è tale “Giacomino”, nome che non compare negli atti dell’indagine del Ros. Come non compare quel livello invisibile che il capo cosca Vincenzo Gallace aveva fatto intravedere allo stesso Belnome.
Tutti liberi
Nelle aule del Tribunale di Velletri – secondo nel Lazio, subito dopo Roma – passano ogni mese migliaia di processi. Dalla corruzione allo spaccio di droga, dall’abuso edilizio alla rapina, in queste aule ogni magistrato ha più di 1300 cause pendenti in mano (dati ministero della giustizia, 2013). Più del doppio rispetto a Roma. È il tribunale che ha la competenza sul quel tratto di territorio che ospita l’unica locale di ‘ndrangheta accertata giudizialmente nel Lazio. E qui sono arrivati i due processi madre contro la cosca originaria di Guardavalle, complessivamente una sessantina di imputati. Il primo troncone – Appia – dopo sette anni di dibattimento è arrivato a sentenza alla fine del 2013. Il secondo – Mythos – è in piena fase istruttoria, nove anni dopo l’avvio del dibattimento. L’ultima udienza si è svolta un mese fa, la prossima sarà a febbraio e nel 2017 si andrà avanti con un paio di appuntamenti al mese. Se tutto andrà bene, alla fine ci vorranno dieci anni per il primo grado. Non vanno meglio poi le cose in Appello. Per il processo Appia – il primo in provincia di Roma con l’imputazione di associazione mafiosa arrivato a sentenza – il tribunale di secondo grado non ha ancora fissato l’inizio delle udienze. Dal giorno degli arresti, il 2004, sono passati dodici anni senza una sentenza definitiva, con tutti gli imputati ormai liberi. Li vedi girare nelle strade di Anzio e Nettuno, appaiono sui social network. I poteri del gruppo si sono rafforzati, raccontano diverse fonti, nonostante il capo indiscusso Vincenzo Gallace stia scontando oggi l’ergastolo per una condanna del Tribunale di Milano (inchiesta Infinito).
Le ’ndrine del litorale romano in fondo non hanno mai smesso di gestire il loro potere, anche utilizzando quell’arsenale di armi mai ritrovato. Mentre a Velletri si svolgevano, con grande fatica, i due processi, tra la Calabria e la Lombardia si contavano i morti di una nuova faida, che, ancora una volta, ha visto uscire i Gallace vincitori. Il 14 luglio del 2008 colpiscono l’alleato storico Carmelo Novella, con un agguato a San Vittore Olona. Il gruppo di fuoco era composto dalla nuova generazione nata a cresciuta nell’hinterland milanese, Antonino Belnome e Michael Panajia – che poi si pentiranno – mentre il mandante era Vincenzo Gallace, detto “Cenzo”, capo storico e indiscusso, da Guardavalle a Nettuno, fino alle locali lombarde di Bollate. Poi, nelle montagne della Calabria, il nuovo contrasto tra i due gruppi una volta alleati ha visto una lunga scia di morti, con quasi una ventina di vittime, tra il 2008 e il 2012. È la seconda faida dei boschi, dove proprio i Gallace hanno avuto un ruolo chiave.
Il fratello e l’assessore
Tra Anzio e Nettuno i Gallace, i Tedesco, i Riitano, gli Andreacchio – per citare le principali famiglie che appaiono negli atti processuali e nelle sentenze – sono ormai parte delle città. C’è il consigliere comunale ad Anzio – assessore per molti anni – Pasquale Perronace, fratello di Nicola, già imputato per associazione mafiosa nel processo Appia, morto prima della sentenza di primo grado. Una presenza che ha fatto scattare anche diverse interrogazioni parlamentari, dove si chiede al prefetto di Roma l’invio di una commissione di accesso. Alla famiglia del politico calabrese residente da decenni ad Anzio – ritenuto estraneo alle accuse di mafia contestate nei processi Gallace e mai indagato – i carabinieri del Ros avevano dedicato un ampio capitolo sull’origine storica della presenza della ‘ndragheta sul litorale romano. Anche loro arrivati all’inizio degli anni ‘60, quando il padre dei due fratelli Perronace (il politico e l’imputato deceduto) venne ucciso in Calabria per una faida; ancora una volta una scia di sangue che lega questa terra alle porte di Roma con il piccolo paese di Guardavalle.